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Autore: Arva    25/07/2016    0 recensioni
Torus, un giovane mandaloriano che "di giorno" fa l'armaiolo e il mercenario, nel tempo libero si diletta nell'esplorare asteroidi e durante una spedizione in quel del campo di Vergesso fa una scoperta che lo costringerà, molto probabilmente suo malgrado, a riallacciare legami che pensava di avere seppellito da tempo.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Con la febbrile alacrità di un bambino che ha appena provato un tuffo dal quarto trampolino e muore dalla voglia di ripeterlo, Torus premette un pulsante sul bracciale destro dell’armatura, un gesto normalmente preciso e netto reso una sorta di cenno imperioso di una qualche divinità del passato per via dell’assenza di gravità, e nell’angolo in basso a destra del visore comparve l’icona azzurrina di un disco satellitare.
La suite integrata nell’elmo stava iniziando le routine di scansione locale: tristi ritrovati della chimica pre-iperspazio o meno, avrebbe capito almeno cosa contenevano le pareti rocciose intanto che con una lieve stretta del pugno destro partiva l’impulso per avviare la visione notturna.

 

Non erano passati nemmeno quattro secondi che sentì una forte scarica elettrica lungo la spina dorsale, seguita dal dolore lancinante delle terminazioni nervose sottoposte a variazioni di corrente molto superiori a ciò cui si erano abituate: per quei pochi istanti, ora improvvisamente dilatati in ognuno una piccola eternità, tutto il suo corpo parve come bloccarsi, uscire dal flusso del tempo mentre la schiena, il braccio destro e la base del collo esplodevano di dolore come se fossero stati direttamente collegati a una presa di energia astronavale fino quasi a fargli perdere conoscenza.
Quando terminò, Torus si accorse di essere zuppo di sudore anche dentro la tuta sigillata che indossava sotto l’armatura e che le aree colpite dall’improvvisa scarica si erano contratte al punto da rendergli impossibile o quasi il rilassarle. Il suo respiro affannato rimbombava negli stretti confini dell’elmo come se fosse sotto i motori di un caccia Cloakshape. Era sporco, irregolare e perdeva saliva dalle labbra che a stento riuscivano a chiudersi, per non parlare del cranio.

 

Gli pareva di essere sotto un bombardamento orbitale, col cervello che nonostante la zero gi rimbalzava da un lato all’altro della scatola cranica come se fosse stato sotto effetto di spezie allucinogene.
Fortuna che l’elmo era sigillato e che, probabilmente, era solo.

 

Concatenando movimenti brevi col respiro, riuscì ad alzarsi e ad accorgersi di stare fluttuando senza peso a una buona cinquantina di centimetri da terra: nonostante i servomotori aggiuntivi dell’armatura fossero impostati per rispondere a una sollecitazione maggiore rispetto a quella di modo che si serrassero nella posizione in cui si trovavano quando succedeva, il movimento del corpo al suo interno, per quanto minimo, doveva avere interagito con qualche campo gravitazionale minore per cui l’intero complesso si era spostato.

 

“Fisica di base, Torus… fisica di base.”

 

Decise di rimanere ancora qualche istante fermo, ora in posizione più o meno eretta, i sensi estesi fino quasi allo spasmo alla ricerca della sensazione di un’altra crisi in arrivo, i peli sul collo che se fossero stati quelli di uno Wookiee avrebbero sicuramente perforato la tuta sigillata per quanto erano dritti.
Fortunatamente, il brivido pareva essere ingiustificato: nonostante alla base della spina dorsale ancora sentisse la scarica d’ansia, era quella normale.

 

“C’è mancato poco, stavolta…”

 

Non aveva idea se stava parlando con sé stesso, letteralmente coi muri o che, stava di fatto che entro pochi secondi sul comlink gli giunse il cinguettio preoccupato dell’unità R7 integrata nel suo caccia, ancorato da qualche parte un paio di entità locali da lì in direzione del Nucleo.

 

“Tranquillo, Pispolo, va più o meno tutto bene… gli impianti nuovi continuano a non collaborare: quando abbiamo finito qui, andiamo a fare un salto da Torque.”

 

Sentì l’inizio di un altro trillo, questa volta di accorata protesta da parte del piccolo ammasso di bulloni che, nonostante le dimensioni contenute, si stava dimostrando quasi più apprensivo dei suoi genitori, che i Mand’alor’e del passato li avessero in gloria.

 

“Lo so, lo so, il connettore neurale del gomito è andato a donnine allegre. Non serve un biomeccanico, per quello.”

 

Per quanto i suoni apparentemente sconnessi del droide gli sembrassero dire “Te lo avevo detto”, aveva comunque ragione. Avrebbe dovuto controllarli prima; soprattutto, non mescolare un prefabbricato con equipaggiamento personalizzato. Era il modo migliore per fare danni, come aveva appena avuto modo di vedere.

 

“Direi che abbiamo la lezione del giorno, eh, Pispolo? Diagnostica.”

 

Intanto che la parte bassa del visore veniva occupata dalle infinite linee di codice della suite integrata che sguinzagliava i propri mastini informatici per fargli rapporto sulle condizioni del suo kit, Torus decise di affiancarle un controllo alla vecchia maniera: verifica analogica.
Premendo un pulsante di emergenza sotto la spalla sinistra, i margini del visore gradualmente offuscati dal rilascio di gas pressurizzato, nell’incavo del gomito del braccio meccanico si aprì un piccolo scompartimento rivelando una serie di minuscoli cavi verdi e neri. Potere guardare l’interno di un proprio arto ancora gli faceva uno strano effetto, soprattutto dopo che abituarsi all’avere perso l’originale era qualcosa di ancora talmente lontano che non pensava sarebbe mai giunto.

 

Era abituato al sangue, ai cadaveri e alle parti di corpi sparate nelle direzioni più improbabili, era un combattente, alla fine, eppure quella particolare vista era ancora qualcosa di profondamente nuovo e strano. Non era sicuro fosse inquietante, probabilmente perché avendo estese nozioni di meccanica e ingegneria capiva più o meno perfettamente cosa facevano i singoli pezzi che vedeva, solo che la sua mente non era sicuro riuscisse ad abbracciare interamente l’idea che adesso aveva potere di plasmare quel pezzo di ferraglia in qualunque cosa volesse, da un lato. Dall’altro, che qualunque cosa ci facesse senz’altro avrebbe performato meglio dell’originale.

In un certo, crudo senso, era quasi contento che su Malastare, un paio di mesi prima, uno Zabrak gli avesse fatto collassare una fermata del treno magnetico addosso: in quel modo, si erano aperte così tante possibilità…

 

Dei cavi ora esposti, quelli neri avevano marchiati dei numeri di serie bianchi in basic, mentre quelli verdi portavano il logo MandalMotors: i primi portavano l’energia dalla cella situata nella scapola, mentre i secondi li aveva aggiunti lui perché fungessero da attivatore della suite di visione notturna nell’elmo perché oramai aveva finito gli imput di controllo incorporati.Solo in quel momento si rendeva conto della stupidità di quell’idea: l’arto era collegato direttamente alla spina dorsale, per cui qualunque cosa fosse andata storta si sarebbe ripercossa proprio lì; e, infatti, puntuale come gli esattori del fisco, nel punto in cui le due serie di cavi si intrecciavano poteva vedere che quello verde si era spostato e avvicinato troppo alla blindatura esterna dell’articolazione.
La diagnostica di sistema confermava: variazione di tensione non prevista dalle varie liste interne al codice, per cui era stata dirottata ai meccanismi di salvaguardia dell’utente. Ovviamente, non avevano funzionato, date le condizioni in cui si trovava.

 

Con un sospiro, decise di richiudere tutto e per qualche tempo lasciarlo stare, almeno fino a quando non avrebbe imparato più in quel campo da potersi costruire un arto decente secondo le sue specifiche.
Ne approfittò, quindi, per controllare il risultato della scansione della caverna che aveva avviato qualche minuto prima: caverna vagamente ovoidale, larga quasi venticinque metri nel punto di massima e alta più o meno altrettanto, formata ai due terzi da silice, ossido di alluminio e di potassio. Per i non addetti ai lavori: comune granito. Lì per lì, niente di eclatante.
Tuttavia, seguivano una sfilza di metalli più o meno rari, dal semplice chanlon alla carbonite passando per l’aurodio. Piastre corazzate e circuiti elettrici, insomma. Già di per sé era un piccolo tesoro, se non fosse stato per una lettura completamente diversa che aleggiava sul visore del mandaloriano.

 

C’era qualcosa che emetteva uno strano “blip”: tono medio, tendente al basso, con un ritorno di un paio di secondi netti. I sensori nell’elmo erano in grado di rilevare tracce energetiche e convertirle in un file audio che veniva riprodotto dalle casse interne a intermittenza direttamente proporzionale alla lunghezza d’onda dell’energia sorgente.
Doveva essere lunga, quindi, il che corrispondeva a bassa frequenza; bassa energia, ergo.
Un oggetto che emetteva poca energia? Eppure, se passava la lettura della suite da feed audio a feed video direttamente sul visore, la vastità della caverna che si illuminava di atona luce bianca della ricostruzione da parte del sistema, non vedeva niente che potesse esserne la fonte.
Stando alla sua purtroppo limitata conoscenza dell’astrofisica, era possibile che esistessero corpi celesti caricati in quel modo, anche se non gli tornavano le dimensioni: se non la vedeva doveva essere molto piccola o molto ben nascosta, il che comunque ne riduceva drasticamente le dimensioni, e per quanto ne sapeva gli unici corpi in grado di emettere energia propria erano le stelle. Lasciamo per un momento i buchi neri fuori dalla questione: se ce ne fosse stato uno nella zona lo avrebbe sicuramente saputo, così come sapeva che una stella in genere era rilevabile praticamente in ogni propria forma.

Ergo, non era qualcosa di naturale.
Gli serviva un sensore più forte, quindi… davvero doveva tornarci con la Radiant e sperare di uscirne vivo. Quanto meno quello, non necessariamente tutto d’un pezzo, ma abbastanza integro da farcela fino a Mandalore.

Data la sua fortuna...

   
 
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