12. Irrequieta
I mesi passarono mentre Radi consolidava la sua nuova
attitudine: se inizialmente era
Miran quello che troppo spesso compariva in aula con
la schiena dolorante, ora ci si era messa anche lei. Fra quelli del quinto anno
prese a girare la voce che ci fosse una specie di gara in corso.
Come non pensarlo?
Quasi alternandosi, non passavano dieci giorni senza che almeno uno dei due non
mostrasse i sintomi di una punizione.
Radi fuggiva ogni vago tentativo di domanda in merito.
Fu presto palese che Miran si
riprendeva molto più in fretta di lei: se a lui bastavano due giorni per
ritornare in perfetta salute – sei, nei casi peggiori –, alla
bambina ne servivano almeno cinque.
Certo, lui era molto più pratico, in merito.
Avvezzo
era il termine adatto.
Che Radi puntasse a
quello?
A un certo punto i cinque stelle smisero di interessarsi alla cosa: la presero
come un dato di fatto, e basta.
Solo Kisanee, un giorno, osò dire qualcosa a Radi: le si sedette vicino all’inizio di una lezione, e, conclusasi, prima che
l’altra potesse alzarsi dalla sedia, la fermò – letteralmente,
afferrandola per un polso.
“Agricola.” Le disse, mantenendo la presa salda e il tono basso. “La storia degli
studenti morti durante le punizioni è vera.”
“Lo so.” Fece Radi, secca, strattonando il braccio cui Kisanee si era praticamente
aggrappata.
“Cos’è, tenti il suicidio?”
“No.”
“E allora?”
“Guarda che non mi fanno male. Non è nulla di tragico. Posso fare molte più cose se mi abituo al gatto.”
“Ma che ha quell’Agricola che vi
piace tanto, eh? Jukka, tu – a momenti persino
Asha inizia a dargli retta.”
“Non gli stiamo dando retta –”
“Fai l’Agricola tanto quanto lui.”
“E a te che importa?”
Kisanee lasciò la presa, muovendo la mano in aria con un gesto seccato: “Niente, infatti.”
“Ecco. Lasciami in pace.”
“Guarda che il bocciato è fuori.” – si ritrovò a insistere Kisanee – “Ve l’avevo
detto, io, che non sarebbe andato via. Stacci lontana.”
“E tu da me!” gridò Radi. La sentirono tutti.
Anche il
Magister.
“Magari ha... come si chiamano...?
Quelle cose che vengono a voi femmine quando crescete.”
Zara e Kisanee guardarono Jukka sottecchi.
“Quelle cose –” ci tenne a precisare Kisanee – “Si chiamano mestruazioni.”
“Il premestruo dura solo qualche
giorno.” spiegò Zara, annoiata, gli occhi rivolti come al
solito al piatto. “E a undici anni in poche raggiungono la maturità sessuale.”
“E comunque, appena hai il menarca, i Medici ti danno gli
ormoni, così si fermano.”
“Si riducono.” la corresse Zara.
“Però potrebbe essere colpa della maturazione –”
mormorò Asha. “Le mestruazioni sono solo una possibilità. Di sbalzi ormonali,
d’ora in poi, ne avremo tutti parecchi.”
Stranamente lo stavano ascoltando, e anche con una certa
attenzione. Doveva ammetterlo: senza Radi che caricava Jukka
– e viceversa – lo trattavano molto meglio. Non che gli fosse mai
interessato degli sfottò riguardo il suo continuo
studiare – ma era bello poter far conversazione senza venire zittiti ogni
seconda volta. “Potrebbero essere quelli. Lasciamola stare.”
Tacquero, continuando a mangiare.
Fu l’ultima conversazione che ebbero in merito a Radi, per
lungo tempo.
In fondo, si ripetevano tutti, non era affar
loro. Ognuno si poteva comportare come credeva.
***
Arrivò l’esame. Per lui, ritornò.
Miran sedeva al suo posto, con
largo anticipo. Aveva dormito solo perché il suo corpo aveva ceduto sotto il
continuo martellare della mente: non poteva dire di sapere cosa fosse l’ansia,
fino a quel giorno.
Man mano che arrivavano, tutti gli altri gli lanciavano
lunghe occhiate, per poi muoversi verso la propria postazione.
Poco e bene, si ripeteva Miran.
Poco e benissimo.
Non troppo poco.
Aveva paura.
Come aveva detto ad Asha, questa volta aveva veramente
paura.
Non si era mai chiesto che cosa avrebbe fatto una volta
bocciato – non ci aveva mai pensato. Ora, invece, continuava a domandarsi
che cosa avrebbe fatto se fosse stato bocciato un’altra
volta.
Che senso avrebbe avuto continuare? Con due campanelli?
Di nuovo?
Due anni più anziano, e quindi in
ritardo per definizione. Gli avevano insegnato che certi processi di
apprendimento erano più efficienti quando erano piccoli. Se non imparava ora,
non avrebbe imparato mai.
Se non ce la faceva ora, non avrebbe mai più potuto farcela.
Avrebbe rubato pasti alla Regio, per insistere in qualcosa
che non era capace di fare: come osava, quando il resto della popolazione lavorava,
per meritarseli? Chi era lui per pensare di essere più importante degli altri,
a fronte di due bocciature, e per restarsene negli agi del Ludus?
Miran decise: non avrebbe
accettato un secondo campanello.
“Bene.”
Non avrebbe mai e poi mai accettato un secondo, maledetto
campanello.
“Iniziate.”
Rimase lì a lungo. Molto a lungo.
Pochi bocciati, in quella classe.
Non se lo aspettava.
Attese.
Attesero in tre. Mezzanotte.
Attesero in due.
Bisogna avere pazienza.
Prima fascia.
Attese da solo.
Molta pazienza.
Seconda fascia.
Terza fascia.
Ploc.
***
Nessun bocciato al quinto anno: non un evento unico, ma
quasi.
Veramente interessante.
Saeb sfogliava fascicoli dalla
prima ora del giorno precedente, concedendosi solo il tempo dei pasti e per un
rapido riposo. In un giorno avrebbe dovuto iniziare. Faceva sempre così, si
prendeva per tempo: uno o due giorni prima della comunicazione dei risultati.
Studiava le schede dei cinque stelle, indovinando
spesso chi sarebbe stato bocciato – il che gli risparmiava del tempo.
Effettivamente per quell’anno aveva lasciato da parte solo due fascicoli,
pensando che quegli studenti non sarebbero stati ammessi al sesto anno: tali Lagatos[1] e Radi.
Fa niente.
Avrebbe studiato anche quelli.
***
Non esultò. Non disse nulla.
Si limitò ad alzarsi per andare via, inciampando sui suoi
stessi piedi.
Era stato un po’ come vedere la morte in faccia. L’effetto,
per lo meno, fu quello.
Si addormentò nella camera del nuovo dormitorio senza
nemmeno pensare a quel che sarebbe successo il giorno seguente – senza
pensare e basta. Non ritirò detersivi, saponi, biancheria e altre: si buttò sul
materasso, vestito com’era, e chiuse gli occhi.
Non aveva nemmeno preso la sua sesta stella.
Si risvegliò poco prima della prima ora con questo pensiero
in testa, rendendosi conto che se non aggiornava immediatamente la sopravveste
sarebbe stato un vero idiota: non aveva nessuna intenzione di perdere la prima
giornata del sesto anni a farsi punire per una cosa
così stupida.
Riuscì a fare tutto – inclusa la colazione, che
ingurgitò – presentandosi in aula esattamente all’arrivo del Magister.
Salutarono, in forma breve, e sederono.
Miran non aveva idea di quanto
largo fosse il suo sorriso.
Beota, pensava Asha.
Un enorme sorriso beota.
Gli orari che seguirono furono serrati
come non mai: lasciarono loro solo trenta minuti per sfamarsi al refettorio e
condussero una giornata intera di
lezioni teoriche, frontali e dense di matematica, fisica e balistica. In un
giorno rispolverarono vecchi concetti e, sopra, ci costruirono mondi nuovi.
A fine giornata sapevano calcolare
traiettorie, alzi efficaci ed effetti di attriti viscosi.
Passarono tutta la quinta ora a raffinare quelle poche
nozioni di probabilità che avevano.
Miran era ricettivo. Non importava
che avesse dormito solo per due fasce – assorbiva, come una spugna, tutto ciò
che sentiva: troppo tempo era passato dall’ultima volta in cui si era trovato
di fronte a spiegazioni di cose veramente nuove. Aveva perso la
sensazione che si provava – ora era lì, serpeggiante in ogni sua vena,
poderosa: il potere della conoscenza.
Che meraviglia.
Persino Kisanee uscì esausta da quella giornata.
Cenarono in silenzio, ognuno interessato solo a finire in fretta per potersi buttare a letto:
non avevano nemmeno avuto modo di notare che, dall’ora mezza, Radi non era in
aula.
L’idea balzò in mente a Miran come una
goccia che, rimasta immobile
per un giorno intero sul limitare del rubinetto, si decide finalmente a
scendere: “Radi.” disse, d’un tratto.
Jukka lo
guardò perplesso. Radi non stava con loro da mesi, ormai: si era completamente
isolata.
“Non c’era.” spiegò Miran, vedendo
che aveva raccolto una serie di sguardi interrogativi.
“No.” Confermò Zara.
“Ma stamattina c’era.”
“Sì.”
“Il primo anno!” s’illuminò Miran “Mi sono
dimenticato!”
“Meglio per te.”
“Mi ha rubato il primo anno!”
“Ma che dici?” A Jukka quel discorso sembrava non avere né capo né coda. “E
anche se fosse, che ti interessa?”
Giusto.
Che gli interessava?
Lui era al sesto
anno, adesso. Praticamente un
Furto di che? Riprese a mangiare.
La trovò appostata davanti alla porta della sua camera, le braccia incrociate e
l’espressione spavalda.
“Ciao –” la salutò, sorpreso.
“Non mi hanno scoperta.” Esordì
lei, gongolante. “Sono stata lì dall’inizio alla fine, e non mi hanno vista. Non so proprio come facevi a farti beccare, lì
dentro – al buio.”
Al solito, Miran non raccolse la
provocazione. Non era mai stata una gara.
“Sei brava.”
“Più di te.”
Era quello, il punto?
Invidia?
No, non solo.
Miran la scrutò, cercando di capire perché si stesse comportando in quel modo. Poi decise
che la via migliore era chiederlo direttamente a lei: “Perché ti comporti
così?”
“Tu perché lo fai?” gli rimbalzò la domanda.
Miran abbassò gli occhi,
pensandoci un po’. Alla fine si strinse nelle spalle.
“Non lo so.”
“Non ci credo. La fama?”
“Che fama? Non esiste la fama – non puoi diventare un Custos
pensando alla fama. È roba da Bellator, pensare alla fama – o da
due stelle. Siamo grandi, noi.”
“Per mostrare che sei migliore di noi?”
“Smettila –”
“Sei un bocciato.”
“Radi, ma che hai?”
“Voglio andare oltre la cinta.” Miran non ci capiva più nulla.
Voleva dormire.
No, voleva
capire.
No. Dormire.
Strizzò gli occhi, la testa in una morsa.
“Va bene, ma io ti avevo già proposto...”
No. Da sola.”
“E io che centro?”
“Sei tu che me l’hai chiesto.”
“Chiesto cosa? Ti ho chiesto che hai e perché ti comporti così, che c’entra la
cinta?”
“C’entra!” La chiuse lì. Si voltò, andandosene.
Per quella sera, Miran decise di lasciar
perdere.
Dormire.
Dormire era più importante.
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[1] pronuncia:
Làgatosh ( “sh” come in
“Macintosh”)