13. Sotto
Kisanee soffriva spesso della sua intelligenza:
sentiva in continuazione discorsi che rasentavano il ridicolo, vedeva i suoi
compagni stupirsi delle più sciocche banalità e commettere errori su questioni
ovvie e scontate.
Il continuo dover
interagire con i suoi coetanei la stremava.
Zara e Asha
costituivano una leggera eccezione: non li aveva mai sentiti pronunciare le
assurdità di cui molti altri si riempivano la bocca. Inizialmente pensava fosse
perché non parlavano affatto.
Poi iniziò a pensare
che un minimo di affinità, forse, c’era: non era sola, a questo mondo. Con il
quinto anno se ne convinse sempre più.
All’inizio del
sesto Kisanee cercava di tenersi quei due il più
vicino possibile, neanche fossero degli scudi con cui ripararsi dal resto dei
sei stelle; Jukka e Miran
erano un effetto collaterale, ma poteva cercare di ignorarli.
Difficile.
Ma comunque
meglio quei due dei restanti centosettanta.
Seduti a terra
nella palestra, erano intenti ad allacciarsi ai polsi e alle caviglie i pesi
per la corsa – cilindri di metallo gommato che emettevano un terribile
odore di sudore rancido. Sarebbe sopravvissuta anche questa volta.
Miran, piazzato davanti a lei, esibiva una
faccia insolitamente meditabonda.
Aveva sentito lui
e Radi parlare, la sera prima. Cosa si fossero detti non lo sapeva – ma
era abbastanza convinta di aver capito cosa stava succedendo, e ben meglio di
loro.
Radi era entrata
in competizione con lui.
Miran le aveva rubato Jukka.
No, così era banalizzante:
Miran l’aveva messa
di fronte all’anomalia, quale lui era. E Radi, di
colpo, aveva scoperto che il Ludus non era fatto di normalità, ma di anomalie
– prima fra tutte il suo caro Jukka.
Ma anche Asha, che tanto aveva molestato.
O Zara. Chi era Zara, sino ad allora? Una bambina che parlava poco. Serissima.
Sulle sue.
Scoprire che
anche Zara era stata capace di andare oltre la cinta – e chissà cos’altro
faceva, che non sapevano – aveva chiaramente turbato Radi: lei era
rimasta l’unica che non... che non. Le mancava qualcosa.
Il suo ego,
immenso, aveva ceduto. Radi si era sentita lasciata indietro e ora cercava di
riprendere il passo.
Era ovvio.
Solo che lo stava
facendo in un modo veramente stupido.
Non avrebbe mai
avuto la resistenza di Miran: poteva provarci per
tutta la vita – non ci sarebbe comunque riuscita.
Perché non ci
arrivava?
“In piedi!”
Una lunga fila si
snodava fra la boscaglia, a Nord, sotto una fastidiosa pioggerellina gelata. I
sei stelle procedevano di corsa, uno dietro l’altro, senza avere idea di chi
fosse in testa al gruppo. L’importante era seguire chi stava immediatamente
davanti.
In breve tempo Miran si accorse che stavano raggiungendo una zona a lui
ben nota: senza mai rompere la fila iniziò a scendere le scale.
Sorrideva,
spudorato: finalmente.
Erano entrati
nella casupola di cemento – il cubo grigio che pareva servire unicamente
a ospitare una porta. Una singola porta.
E le scale, che
andavano giù.
Non fu l’unico a
lasciarsi scappare un sorriso, per quanto il suo fosse il più eccessivo.
Scendevano.
Finalmente
scendevano.
Immersi nella
penombra, prestarono attenzione a non inciampare fra i gradini. Il ritmico
rumore dei loro passi iniziò a riecheggiare, spandendosi
all’interno di corridoi larghi e sempre più oscuri. Non avevano neanche il
tempo di abituare gli occhi alla pochissima luce che, flebile, irradiava dal
soffitto: già diminuiva.
Continuarono a
correre, nel silenzio e nel buio che via via si faceva più fitto; d’un tratto
l’eco scomparve: la fila rallentò, e si fermarono. Miran riusciva a vedere solo la sagoma di chi gli stava davanti. Doveva
avere pazienza per riuscire a percepire dettagli maggiori di quel che lo
circondava. Sopra di lui, notò, c’erano una serie di piccole luci: sembrava un
cielo stellato – se non fosse stato per l’ordine, preciso e artificiale,
con cui erano disposti i piccoli faretti che lo componevano.
Chiamarono. Uno
per volta – era una voce maschile, calma e vigorosa, persa da qualche
parte nel buio. Si spostava – li stavano disponendo in righe, realizzò
dopo un po’ Miran: ora quasi riusciva a vederle.
“Miran!”
Scattò verso la
voce.
“Fermo qui. Mitrae[1]!”
Attesero, su di
un attenti che oramai veniva loro
naturale, mentre l’uomo
terminava l’appello. Zack[2]. Zara. Zeisha[3]. Zuu’mam[4].
Silenzio.
Rimasero immobili
dov’erano, respirando lenti: dei passi. C’era più di una persona. Ombre che si
muovevano intorno a loro: si fermavano, forse osservavano, e andavano avanti.
Miran iniziò a sentirsi agitato.
No, non doveva.
Doveva
avere pazienza.
Ogni tanto sentiva
qualcuno vicino a lui compiere un’inspirazione profonda, o accelerare il
ritmo del respiro.
Pazienza.
Lui era il re della pazienza. Aveva aspettato per dodici fasce il risultato del suo ultimo esame.
Avrebbe aspettato
anche qui. Fosse dovuto rimanere in piedi per altre dodici fasce, lo avrebbe
fatto.
Lo avrebbero
fatto tutti.
Il tempo
scorreva, lui vedeva sempre meglio: c’era una Custos
con dei capelli insolitamente lunghi e gonfi. Gli si avvicinò, studiandolo. E
poi proseguì oltre.
C’erano altri due
uomini. Forse erano in tre. Si muovevano con la tranquillità di chi cammina in
pieno giorno, accompagnati dal frusciare di fogli e, ogni tanto, il grattare
della grafite sulla carta. Uno scriveva con rapidità, un altro tracciava linee
lente, dolci e continue.
“Miran.”
Sussultò. A
fatica resistette all’impulso di voltarsi per vedere in volto il proprietario
di quella voce, dal tono lieve e leggero – non un sussurro, ma quasi.
“Chi è tua
madre?” gli chiese.
“Io non ho
madre.” rispose meccanicamente Miran, gli occhi
inchiodati sulla nuca del compagno davanti a lui.
L’uomo passò
oltre.
Il ragazzino
sentì che suo respiro e il suo battito avevano accelerato, fuori dal suo
controllo: cercò di calmarli, a fatica. Asha sapeva regolarli come niente fosse
– lui no. Avrebbe dovuto seguire il suo esempio, ed esercitarsi di più:
si sentiva impotente sul suo stesso corpo. Non doveva succedere, si disse. Mai
più.
“Zara.”
La bambina non
mosse un muscolo.
Saeb attese qualche altro secondo, prima di
continuare.
Divenne un
minuto.
“Chi è tuo
padre?”
“Io non ho padre.”
“Chi sono i tuoi
fratelli?” chiese la Custos a Radi.
“Loro.”
La donna
procedette.
“Cosa ti
attende?”
“Non lo so.” rispose Asha.
“Dove stai
andando?”
“Guidami tu.”
C’era del retorico, nel tono di Kisanee.
Saeb non poté non trovarlo divertente. Sorrise.
La ragazzina lo
scrutò di sfuggita, tradendo un lontano fastidio.
“Cos’hai in più
di loro, Kisanee?” chiese Saeb,
placido.
“Nulla.”
L’uomo rimase lì. Non si mosse.
Poi domandò
nuovamente, senza mutare in alcun
modo il suo tono: “Cos’hai in
più di loro, Kisanee?”
“Nulla.”
Quello non si
mosse per un altro po’. Poi si allontanò da lei.
“Chi sei?”
“Jukka.”
“Chi sei.”
“Nessuno.”
Nel tempo in cui
venivano interrogati, avevano del tutto abituato gli occhi all’ombra che li
circondava: riuscivano a vedere i quattro Custodes aggirarsi tra di loro, privi della casacca rossa
dei Magistri.
Due uomini e due donne.
Durò a lungo:
camminavano, calmi, si fermavano; scrivevano, domandavano; andavano avanti.
E loro, i
bambini, rimanevano immobili.
In riga.
A
oltranza.
Finché i quattro non iniziarono a convergere, allineandosi di fronte a loro.
Da lì, continuarono a osservarli per altri lunghi minuti.
Uno dei due uomini,
longilineo e con un vello di barba scura, fece un passo avanti: il mento alto e
le mani unite dietro la schiena, dritta, lasciò passare un’altra manciata di
minuti.
Il tempo era importante.
I tempi.
Gli occhi dei sei stelle erano tutti su di lui.
Avrebbe detto qualcosa? O no?
Sì, avrebbe detto
qualcosa.
Ma quando?
All’improvviso:
“Il mio Nomen è Saeb.”
Parlava
lentamente, scandendo. Limpido. La voce dell’appello:
“Del
mio Cognomen e della mia Gens non vi dirò.” continuò il Custos, allungando la pausa del
punto. “Poiché essi –” riprese “– in questa sede, non contano. Quel
che importa è ciò che siamo.”
Silenzio.
“Noi siamo Rectores Magistri.” Dichiarò allora. Diede ai ragazzini
abbondanti secondi per assimilare il nuovo termine, vigile sulle loro reazioni.
“Significa che se mai dovrete scegliere fra un mio ordine e quello di un Magister qualsiasi, seguirete quanto vi dico io.”
Tacque, lasciando
il tempo a definire le parole appena dette.
Il tempo, i
tempi.
“Il luogo in cui
vi trovate si chiama SubSphaera. Non tornerete
qui fino al prossimo anno, in cui inizierete il secondo ciclo d’istruzione. Ma
sappiate che è qui che si formano i Custodes.”
E ancora,
silenzio.
“Ci sono molte
cose che non sapete.”
Soppesato silenzio.
“E di queste, ne
apprenderete una minima parte.”
Infinito
silenzio.
“Ma anzi tutto,
imparerete a mantenere i segreti.”
Miran temeva di non farcela: ogni suo muscolo fremeva.
“Lasciate perdere
il gatto.”
Il buio mangiava
le loro menti.
Saeb giocava col tempo, pesando il silenzio,
distribuendo la voce con meditata e precisa parsimonia. Doveva dar modo ai sei
stelle di chiedersi: cosa? Cosa c’era, dopo il gatto?
“Siete
praticamente adulti.”
Che cosa
significava essere praticamente adulti, al Ludus?
Buio.
Ecco cosa
significava.
“Disobbedire a un
Rector Magister comporta la morte.”
Buio totale sul
futuro.
D’altronde erano
cresciuti così, senza sapere. Imparando ad
aspettare.
E funzionava:
avevano aspettato; alla fine, avevano saputo.
La pazienza
vinceva.
“Possedere
informazioni significa essere caricati di enormi responsabilità.
Con una parola di troppo potreste distruggere l’intera Regio. Un solo, stupido,
sbaglio – e comprometterete anni di lavoro sugli studenti più piccoli.
Dite qualcosa che non deve esser detto ai vostri compagni più giovani, e ci
priverete di intere annate di Custodes. Danni
immensi, che s’ingigantiscono in breve tempo, sino alla catastrofe.”
Come anche solo pensare
di compere un delitto del genere?
“Fatelo, e siete
morti. Non di una morte onorevole come quella che consacra il Custos sul fronte. Semmai, una fine da Agricola.”
Non era nei loro
piani.
Non lo avrebbero
fatto, si dissero. Non erano quel genere di allievi.
“E quindi, due cose imparerete
quest’anno. La prima è tacere.”
Si prese un
altro, lungo minuto. Doveva assicurarsi che il messaggio fosse
passato.
“La seconda è sparare.”
Ora.
Ora le
espressioni erano più interessanti.
Non c’era verso
che alcuno di loro avesse sentito o pronunciato quel verbo negli ultimi sei
anni – e le memorie della prima infanzia tendevano a sfumare rapidamente,
al Ludus.
Conoscevano i
principi di conservazione del momento e dell’energia. La teoria degli urti. Il
concetto di rinculo. Sapevano cosa fosse l’angolo d’alzo e
sapevano calcolare traiettorie di proiettili. Che esistessero oggetti come pistole,
però, capaci di sparare – questo non glielo avevano detto. Tutti i Magistri si ben guardavano dal pronunciare queste parole in presenza
degli studenti. Bisognava sempre procedere poco per volta.
Pochissimo, per
volta.
Miran sentì lo stomaco stringersi, gli
addominali contratti in una morsa di ferro.
Non aveva la più
pallida idea di cosa significasse, sparare.
Ma doveva essere
qualcosa di importante. Di potente.
Serio, come la
minaccia che avevano appena ricevuto.
I giochi erano
aperti.
I sei stelle
erano avidi. Avidi di acquisire quel poco che era loro concesso sapere –
ma di più di quel che sapevano il giorno prima. Magistralmente dosato.
Ancora. Datecene
ancora.
Vedrete cose ne
sapremo fare.
Avrebbero
mostrato ai Rectores che erano pronti. Avrebbero
dimostrato di essere adulti.
“Vedrete.” Disse
il Rector, con un sorriso gentile. “Verrete su bene.”
Portò lentamente
il pugno destro al petto:
poteva quasi sentire il fremere dei ragazzini.
Ora che li aveva caricati, doveva farli sfogare. Far buttar fuori loro tutta la
tensione, l’ansia, l’energia che gli aveva sapientemente fatto accumulare.
A Jukka quasi tremava la mano, il pugno premuto sulla cassa
toracica.
Nel mantenere
ritta la schiena Kisanee si era ritrovata con ogni
singolo muscolo del corpo contratto: mille elastici tesi, dalla pianta del
piede alla nuca, dalle scapole alle spalle, alle dita.
Radi serrava le
labbra tanto da farle scomparire, strette fra i denti.
“Chi siete.”
Iniziò il Rector.
“Nessuno.”
Risposero in coro.
“Da dove venite.”
Continuò, alzando la voce.
“Non ha
importanza.” Loro lo seguirono, parlando più forte.
“Cosa avete in
più degli altri.” Aumentò ancora il volume.
E loro con lui:
“Nulla.”
“Chi è vostra
madre.” Tuonò.
“Non abbiamo
madre!”
Sempre più in
alto.
“Chi è vostro
padre.”
“Non abbiamo
padre!” Urlarono.
“Cosa vi
attende.”
“Non lo
sappiamo!”
“Dove state
andando.”
“Guidateci voi!”
Rossi in volto.
Non certo perché mancasse loro l’aria nei polmoni: buttavano fuori.
Tutto, fuori.
Era raro poter
alzare così tanto la voce.
Più andavano avanti, più si elevavano: la
schiena ancor più dritta di quanto non fosse mai
stata. Le spalle più larghe di quanto non le avessero mai tenute.
Ogni respiro
serviva a inglobare quanta più aria possibile, per poter far risuonare quelle
parole nell’immensa sala.
Zara si accorse
che le lacrimavano gli occhi: sbarrati, non aveva sbattuto le palpebre da
quando la forma lunga del saluto era iniziata. Non aveva mai provato nulla del
genere.
Come furie.
C’erano loro.
C’erano i Rectores. E basta.
Il buio. La sala.
Scomparsi.
C’era la voce degli altri. Il coro.
Insieme.
Siamo qui.
Ci siamo.
Siamo pronti.
Guardateci.
Guidateci.
Fateci mostrare
quanto siamo potenti.
“Per chi
combatterete?”
“Per la Regio!”
scandirono, il ritmo unisono.
“Per chi combatterete?”
“Per i nostri
fratelli!”
“Chi sono i
vostri fratelli?”
“Loro!” un boato.
“Sono i nostri fratelli!”
“Pro Regione!”
“Patriae fratres!” ruggirono, il
pugno battuto con energia contro il petto. “Fati fratres!”
E di nuovo, a palmo aperto – forte. Fortissimo. Il colpo rimbombò sul
loro scheletro, assorbito dalla cassa toracica, togliendogli il fiato.
Così rimasero,
immobili.
Tremanti.
Ansimanti.
“Andate.” Ordinò il Rector, tornando al suo tono saldo, ma quieto: In confronto
a un attimo prima, sembrava tenue. “E che nessuno con meno di sei stelle cucite
alla manica sappia.”
Non poteva
succedere.
Il saluto.
La formula
lunga.
Ci credi. Ogni giorni di più. Ogni giorno di più.
Finché non
la urli nel buio, con gli altri.
Un’unica voce.
Non puoi non credere
fermamente in ogni singola sillaba del saluto, dopo
quell’esperienza.
Tu sei il
saluto.
Quella è la
tua esistenza, condensata in poche, precise parole. Da urlare. Da sfiatare.
Tremi.
Tremano muscoli che non conoscevi.
Sei dentro.
Nessun sei
stelle disobbedisce a un Rector.
In un primo
momento, al sentire la minaccia di morte,
sussulti: poi capisci.
Non è una minaccia. È un riconoscimento. Un
premio.
Sei grande abbastanza, capace abbastanza, da poter gestire la tua vita. Ricordando però che essa non appartiene
a te, ma alla Regio, che ci ha investito: ti ha sfamato, educato, nutrito, e
dato la possibilità di essere ciò che sei. Considerato quanto grande è il
valore della ‘tua’ vita, questo significa che ti viene riconosciuta la capacità
di proteggere, da solo, qualcosa di tanto prezioso.
Faber est suae quisque
fortunae.
Hai tu il
coraggio di distruggere gli investimenti della regio? Sei tanto agricola da
buttare via quel che è stato costruito?
Vuoi
davvero dimostrare a Magistri e Rectores che si sono
sbagliati sul tuo conto, sovrastimandoti?
Chi mai
oserebbe?
Arrivi alla
SubSphaera già persuaso: ne esci sicuro.
Tu sei lì
perché devi essere lì. Vuoi essere lì. E resterai lì.
Sei al tuo
posto.
Tu sei già un Custos.
_____________
[1] pronuncia: Mìtræ
[2] pronuncia: Sak
[3] pronuncia: Zèiscia
[4] pronuncia: Sù-màm