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Autore: Kimmy_90    29/07/2016    0 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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13. Sotto



Kisanee soffriva spesso della sua intelligenza: sentiva in continuazione discorsi che rasentavano il ridicolo, vedeva i suoi compagni stupirsi delle più sciocche banalità e commettere errori su questioni ovvie e scontate.

Il continuo dover interagire con i suoi coetanei la stremava.

Zara e Asha costituivano una leggera eccezione: non li aveva mai sentiti pronunciare le assurdità di cui molti altri si riempivano la bocca. Inizialmente pensava fosse perché non parlavano affatto.

Poi iniziò a pensare che un minimo di affinità, forse, c’era: non era sola, a questo mondo. Con il quinto anno se ne convinse sempre più.

All’inizio del sesto Kisanee cercava di tenersi quei due il più vicino possibile, neanche fossero degli scudi con cui ripararsi dal resto dei sei stelle; Jukka e Miran erano un effetto collaterale, ma poteva cercare di ignorarli.

Difficile.

Ma comunque meglio quei due dei restanti centosettanta.

Seduti a terra nella palestra, erano intenti ad allacciarsi ai polsi e alle caviglie i pesi per la corsa – cilindri di metallo gommato che emettevano un terribile odore di sudore rancido. Sarebbe sopravvissuta anche questa volta.

Miran, piazzato davanti a lei, esibiva una faccia insolitamente meditabonda.

Aveva sentito lui e Radi parlare, la sera prima. Cosa si fossero detti non lo sapeva – ma era abbastanza convinta di aver capito cosa stava succedendo, e ben meglio di loro.

Radi era entrata in competizione con lui.

Miran le aveva rubato Jukka.

No, così era banalizzante:
Miran l’aveva messa di fronte all’anomalia, quale
lui era. E Radi, di colpo, aveva scoperto che il Ludus non era fatto di normalità, ma di anomalie – prima fra tutte il suo caro Jukka.
Ma anche Asha, che tanto aveva molestato.
O Zara. Chi era Zara, sino ad allora? Una bambina che parlava poco. Serissima. Sulle sue.

Scoprire che anche Zara era stata capace di andare oltre la cinta – e chissà cos’altro faceva, che non sapevano – aveva chiaramente turbato Radi: lei era rimasta l’unica che non... che non. Le mancava qualcosa.

Il suo ego, immenso, aveva ceduto. Radi si era sentita lasciata indietro e ora cercava di riprendere il passo.

Era ovvio.

Solo che lo stava facendo in un modo veramente stupido.

Non avrebbe mai avuto la resistenza di Miran: poteva provarci per tutta la vita – non ci sarebbe comunque riuscita.

Perché non ci arrivava?

“In piedi!”

 

Una lunga fila si snodava fra la boscaglia, a Nord, sotto una fastidiosa pioggerellina gelata. I sei stelle procedevano di corsa, uno dietro l’altro, senza avere idea di chi fosse in testa al gruppo. L’importante era seguire chi stava immediatamente davanti.

In breve tempo Miran si accorse che stavano raggiungendo una zona a lui ben nota: senza mai rompere la fila iniziò a scendere le scale.

Sorrideva, spudorato: finalmente.

Erano entrati nella casupola di cemento – il cubo grigio che pareva servire unicamente a ospitare una porta. Una singola porta.

E le scale, che andavano giù.

Non fu l’unico a lasciarsi scappare un sorriso, per quanto il suo fosse il più eccessivo.

Scendevano.

Finalmente scendevano.

Immersi nella penombra, prestarono attenzione a non inciampare fra i gradini. Il ritmico rumore dei loro passi iniziò a riecheggiare, spandendosi all’interno di corridoi larghi e sempre più oscuri. Non avevano neanche il tempo di abituare gli occhi alla pochissima luce che, flebile, irradiava dal soffitto: già diminuiva.

Continuarono a correre, nel silenzio e nel buio che via via si faceva più fitto; d’un tratto l’eco scomparve: la fila rallentò, e si fermarono. Miran riusciva a vedere solo la sagoma di chi gli stava davanti. Doveva avere pazienza per riuscire a percepire dettagli maggiori di quel che lo circondava. Sopra di lui, notò, c’erano una serie di piccole luci: sembrava un cielo stellato – se non fosse stato per l’ordine, preciso e artificiale, con cui erano disposti i piccoli faretti che lo componevano.

Chiamarono. Uno per volta – era una voce maschile, calma e vigorosa, persa da qualche parte nel buio. Si spostava – li stavano disponendo in righe, realizzò dopo un po’ Miran: ora quasi riusciva a vederle.

Miran!”


Scattò verso la voce.


“Fermo qui. Mitrae[1]!”


Attesero, su di un attenti che oramai veniva loro naturale, mentre l’uomo terminava l’appello. Zack[2]. Zara. Zeisha[3]. Zuu’mam[4].

Silenzio.

Rimasero immobili dov’erano, respirando lenti: dei passi. C’era più di una persona. Ombre che si muovevano intorno a loro: si fermavano, forse osservavano, e andavano avanti.

Miran iniziò a sentirsi agitato.


No, non doveva.
Doveva avere pazienza.

Ogni tanto sentiva qualcuno vicino a lui compiere un’inspirazione profonda, o accelerare il ritmo del respiro.

Pazienza.

Lui era il re della pazienza. Aveva aspettato per dodici fasce il risultato del suo ultimo esame.

Avrebbe aspettato anche qui. Fosse dovuto rimanere in piedi per altre dodici fasce, lo avrebbe fatto.

Lo avrebbero fatto tutti.

Il tempo scorreva, lui vedeva sempre meglio: c’era una Custos con dei capelli insolitamente lunghi e gonfi. Gli si avvicinò, studiandolo. E poi proseguì oltre.

C’erano altri due uomini. Forse erano in tre. Si muovevano con la tranquillità di chi cammina in pieno giorno, accompagnati dal frusciare di fogli e, ogni tanto, il grattare della grafite sulla carta. Uno scriveva con rapidità, un altro tracciava linee lente, dolci e continue.

Miran.”

Sussultò. A fatica resistette all’impulso di voltarsi per vedere in volto il proprietario di quella voce, dal tono lieve e leggero – non un sussurro, ma quasi.

“Chi è tua madre?” gli chiese.

“Io non ho madre.” rispose meccanicamente Miran, gli occhi inchiodati sulla nuca del compagno davanti a lui.

L’uomo passò oltre.

Il ragazzino sentì che suo respiro e il suo battito avevano accelerato, fuori dal suo controllo: cercò di calmarli, a fatica. Asha sapeva regolarli come niente fosse – lui no. Avrebbe dovuto seguire il suo esempio, ed esercitarsi di più: si sentiva impotente sul suo stesso corpo. Non doveva succedere, si disse. Mai più.

“Zara.”


La bambina non mosse un muscolo.

Saeb attese qualche altro secondo, prima di continuare.

Divenne un minuto.

“Chi è tuo padre?”
“Io non ho padre.”

“Chi sono i tuoi fratelli?” chiese la Custos a Radi.
“Loro.”


La donna procedette.

“Cosa ti attende?”

“Non lo so.” rispose Asha.

“Dove stai andando?”

“Guidami tu.” C’era del retorico, nel tono di Kisanee.
Saeb non poté non trovarlo divertente. Sorrise.

La ragazzina lo scrutò di sfuggita, tradendo un lontano fastidio.

“Cos’hai in più di loro, Kisanee?” chiese Saeb, placido.

“Nulla.”

L’uomo rimase lì. Non si mosse.

Poi domandò nuovamente, senza mutare in alcun modo il suo tono: “Cos’hai in più di loro, Kisanee?”
“Nulla.”

Quello non si mosse per un altro po’. Poi si allontanò da lei.

“Chi sei?”
Jukka.”
Chi sei.”
“Nessuno.”

Nel tempo in cui venivano interrogati, avevano del tutto abituato gli occhi all’ombra che li circondava: riuscivano a vedere i quattro Custodes aggirarsi tra di loro, privi della casacca rossa dei Magistri.
Due uomini e due donne.

Durò a lungo: camminavano, calmi, si fermavano; scrivevano, domandavano; andavano avanti.

E loro, i bambini, rimanevano immobili.

In riga.
 A oltranza.

Finché i quattro non iniziarono a convergere, allineandosi di fronte a loro.
Da lì, continuarono a osservarli per altri lunghi minuti.

Uno dei due uomini, longilineo e con un vello di barba scura, fece un passo avanti: il mento alto e le mani unite dietro la schiena, dritta, lasciò passare un’altra manciata di minuti.

Il tempo era importante.

I tempi.

Gli occhi dei sei stelle erano tutti su di lui.

Avrebbe detto qualcosa? O no?


Sì, avrebbe detto qualcosa.


Ma quando?


All’improvviso: “Il mio Nomen è Saeb.”


Parlava lentamente, scandendo. Limpido. La voce dell’appello:
“Del mio Cognomen e della mia Gens non vi dirò.” continuò il Custos, allungando la pausa del punto. “Poiché essi –” riprese “– in questa sede, non contano. Quel che importa è ciò che siamo.”

Silenzio.

“Noi siamo Rectores Magistri.” Dichiarò allora. Diede ai ragazzini abbondanti secondi per assimilare il nuovo termine, vigile sulle loro reazioni. “Significa che se mai dovrete scegliere fra un mio ordine e quello di un Magister qualsiasi, seguirete quanto vi dico io.”

Tacque, lasciando il tempo a definire le parole appena dette.

Il tempo, i tempi.

“Il luogo in cui vi trovate si chiama SubSphaera. Non tornerete qui fino al prossimo anno, in cui inizierete il secondo ciclo d’istruzione. Ma sappiate che è qui che si formano i Custodes.”

E ancora, silenzio.

“Ci sono molte cose che non sapete.”

Soppesato silenzio.

“E di queste, ne apprenderete una minima parte.”

Infinito silenzio.

“Ma anzi tutto, imparerete a mantenere i segreti.”

Miran temeva di non farcela: ogni suo muscolo fremeva.


“Lasciate perdere il gatto.”

Il buio mangiava le loro menti.

Saeb giocava col tempo, pesando il silenzio, distribuendo la voce con meditata e precisa parsimonia. Doveva dar modo ai sei stelle di chiedersi: cosa? Cosa c’era, dopo il gatto?

“Siete praticamente adulti.”

Che cosa significava essere praticamente adulti, al Ludus?

Buio.


Ecco cosa significava.


“Disobbedire a un Rector Magister comporta la morte.”


Buio totale sul futuro.


D’altronde erano cresciuti così, senza sapere. Imparando ad aspettare.

E funzionava: avevano aspettato; alla fine, avevano saputo.


La pazienza vinceva.

“Possedere informazioni significa essere caricati di enormi responsabilità. Con una parola di troppo potreste distruggere l’intera Regio. Un solo, stupido, sbaglio – e comprometterete anni di lavoro sugli studenti più piccoli. Dite qualcosa che non deve esser detto ai vostri compagni più giovani, e ci priverete di intere annate di Custodes. Danni immensi, che s’ingigantiscono in breve tempo, sino alla catastrofe.”

Come anche solo pensare di compere un delitto del genere?

“Fatelo, e siete morti. Non di una morte onorevole come quella che consacra il Custos sul fronte. Semmai, una fine da Agricola.”

Non era nei loro piani.


Non lo avrebbero fatto, si dissero. Non erano quel genere di allievi.

“E quindi, due cose imparerete quest’anno. La prima è
tacere.”

Si prese un altro, lungo minuto. Doveva assicurarsi che il messaggio fosse passato.


“La seconda è sparare.”


Ora.


Ora le espressioni erano più interessanti.


Non c’era verso che alcuno di loro avesse sentito o pronunciato quel verbo negli ultimi sei anni – e le memorie della prima infanzia tendevano a sfumare rapidamente, al Ludus.

Conoscevano i principi di conservazione del momento e dell’energia. La teoria degli urti. Il concetto di rinculo. Sapevano cosa fosse l’angolo d’alzo e sapevano calcolare traiettorie di proiettili. Che esistessero oggetti come pistole, però, capaci di sparare – questo non glielo avevano detto. Tutti i Magistri si ben guardavano dal pronunciare queste parole in presenza degli studenti. Bisognava sempre procedere poco per volta.

Pochissimo, per volta.

Miran sentì lo stomaco stringersi, gli addominali contratti in una morsa di ferro.

Non aveva la più pallida idea di cosa significasse, sparare.

Ma doveva essere qualcosa di importante. Di potente.

Serio, come la minaccia che avevano appena ricevuto.

I giochi erano aperti.

I sei stelle erano avidi. Avidi di acquisire quel poco che era loro concesso sapere – ma di più di quel che sapevano il giorno prima. Magistralmente dosato.

Ancora. Datecene ancora.


Vedrete cose ne sapremo fare.


Avrebbero mostrato ai Rectores che erano pronti. Avrebbero dimostrato di essere adulti.


“Vedrete.” Disse il Rector, con un sorriso gentile. “Verrete su bene.”


Portò lentamente il pugno destro al petto:
poteva quasi sentire il fremere dei ragazzini. Ora che li aveva caricati, doveva farli sfogare. Far buttar fuori loro tutta la tensione, l’ansia, l’energia che gli aveva sapientemente fatto accumulare.

A Jukka quasi tremava la mano, il pugno premuto sulla cassa toracica.

Nel mantenere ritta la schiena Kisanee si era ritrovata con ogni singolo muscolo del corpo contratto: mille elastici tesi, dalla pianta del piede alla nuca, dalle scapole alle spalle, alle dita.

Radi serrava le labbra tanto da farle scomparire, strette fra i denti.

“Chi siete.” Iniziò il Rector.


“Nessuno.” Risposero in coro.


“Da dove venite.” Continuò, alzando la voce.


“Non ha importanza.” Loro lo seguirono, parlando più forte.


“Cosa avete in più degli altri.” Aumentò ancora il volume.


E loro con lui: “Nulla.”


“Chi è vostra madre.” Tuonò.


“Non abbiamo madre!”

Sempre più in alto.


“Chi è vostro padre.”


“Non abbiamo padre!” Urlarono.


“Cosa vi attende.”


“Non lo sappiamo!”


“Dove state andando.”


“Guidateci voi!”

Rossi in volto. Non certo perché mancasse loro l’aria nei polmoni: buttavano fuori.


Tutto, fuori.


Era raro poter alzare così tanto la voce.
Più andavano avanti, più si elevavano: la schiena ancor più dritta di quanto non fosse mai stata. Le spalle più larghe di quanto non le avessero mai tenute.

Ogni respiro serviva a inglobare quanta più aria possibile, per poter far risuonare quelle parole nell’immensa sala.

Zara si accorse che le lacrimavano gli occhi: sbarrati, non aveva sbattuto le palpebre da quando la forma lunga del saluto era iniziata. Non aveva mai provato nulla del genere.

Come furie.


C’erano loro. C’erano i Rectores. E basta.

Il buio. La sala. Scomparsi.

C’era la voce degli altri. Il coro.
Insieme.

Siamo qui.
Ci siamo.

Siamo pronti.

Guardateci.


Guidateci.


Fateci mostrare quanto siamo potenti.


“Per chi combatterete?”


“Per la Regio!” scandirono, il ritmo unisono.


“Per chi combatterete?”


“Per i nostri fratelli!”


“Chi sono i vostri fratelli?”


“Loro!” un boato. “Sono i nostri fratelli!”


“Pro Regione!”


Patriae fratres!” ruggirono, il pugno battuto con energia contro il petto. “Fati fratres!” E di nuovo, a palmo aperto – forte. Fortissimo. Il colpo rimbombò sul loro scheletro, assorbito dalla cassa toracica, togliendogli il fiato.

Così rimasero, immobili.
Tremanti.
Ansimanti.
“Andate.” Ordinò il Rector, tornando al suo tono saldo, ma quieto: In confronto a un attimo prima, sembrava tenue. “E che nessuno con meno di sei stelle cucite alla manica sappia.”

Non poteva succedere.

 

Il saluto.

La formula lunga.
Ci credi. Ogni giorni di più. Ogni giorno di più.

Finché non la urli nel buio, con gli altri.
Un’unica voce.
Non puoi non credere fermamente in ogni singola sillaba del saluto, dopo quell’esperienza.

Tu sei il saluto.

Quella è la tua esistenza, condensata in poche, precise parole. Da urlare. Da sfiatare.

Tremi. Tremano muscoli che non conoscevi.


Sei dentro.


Nessun sei stelle disobbedisce a un Rector.
In un primo momento, al sentire la minaccia di morte, sussulti: poi capisci.
Non è una minaccia. È un riconoscimento. Un premio.
Sei grande abbastanza, capace abbastanza, da poter gestire la tua vita. Ricordando però che essa non appartiene a te, ma alla Regio, che ci ha investito: ti ha sfamato, educato, nutrito, e dato la possibilità di essere ciò che sei. Considerato quanto grande è il valore della ‘tua’ vita, questo significa che ti viene riconosciuta la capacità di proteggere, da solo, qualcosa di tanto prezioso.

Faber est suae quisque fortunae.

Hai tu il coraggio di distruggere gli investimenti della regio? Sei tanto agricola da buttare via quel che è stato costruito?

Vuoi davvero dimostrare a Magistri e Rectores che si sono sbagliati sul tuo conto, sovrastimandoti?

Chi mai oserebbe?

Arrivi alla SubSphaera già persuaso: ne esci sicuro.

Tu sei lì perché devi essere lì. Vuoi essere lì. E resterai lì.

Sei al tuo posto.
Tu sei già un Custos.

 

 

 

 

 

_____________
[1] pronuncia: Mìtræ

[2] pronuncia: Sak

[3] pronuncia: Zèiscia

[4] pronuncia: Sù-màm

 

   
 
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