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Autore: Cyanide_Camelia    23/04/2009    4 recensioni
Irlanda, in un liceo privato si incontrano e si intrecciano le vite di alcune personalità eterogenee, quali Shelly, una diciassettenne americana con un passato burrascoso, tutta mascolinità e vitalità; Mia, una dolcissima ragazza vittima degli errori degli altri; ed a seguire Daphne, Ginger, Weed, Emerien, Kurt e molti altri personaggi emblematici, a raccontare quanto dolore si possa sopportare, quali sono le ferite nascoste di ognuno e le singole aspirazioni, la difficoltà nel rapportarsi, fino a dipingere un quadro complessivo, cantato dalle voci di Mia e Shelly, di una generazione che balla sul precipizio.[Ripubblicata a seguito di un'accorta revisione della precedente "Memories of a Toxicdoll and of a Broken Dream" ed arricchita]
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa fic è un’originale sulla quale sono stata a rimuginare per settimane e alla fine ho deciso che magari sarebbe valsa la

*Mia: pron. Maia; Bea: pron. Biia

 

Memories of a Toxicdoll and of a Broken Dream

 

Mi chiamo Mia* e vivo in una tranquilla e composta cittadina irlandese vicino Dublino.

La mia realtà quotidiana rispecchia quella dell’esistenza della classica teenager con alle spalle una famiglia perfetta: papà, mamma, un fratello maggiore. Ed io, la figlia minore.

Se ora doveste prendermi in esame, scoprireste in me una persona completamente nella media. Tutto di me è nella media.

Voti scolastici nella media, quasi tutte B; altezza nella media, 1.65 m; peso nella media: 58 kg.

Potrei andare avanti per ore.

Esteticamente ho un fisico ben proporzionato, il mio viso è quadrato, con zigomi e mascella molto pronunciati, naso abbastanza dritto e minuto, labbra sottili, occhi blu scuro, sopracciglia leggermente arcuate e fronte bassa. Ho i capelli biondo grano, né ricci né lisci, sottili, sempre acconciati in una lunga treccia come prevede l’uniforme scolastica.

Mi vesto in una maniera…nella media: né appariscente, né sciatta; al mattino indosso la divisa e al pomeriggio se devo uscire metto jeans e maglietta bianca. Un classico.

Il mio trucco consiste in una passata di rimmel, un leggerissimo strato di ombretto giallo pallido, poco lucidalabbra trasparente e due generose spolverate di fard sull’arancio sotto gli zigomi per evidenziarli.

Vado in una scuola privata gestita dalle suore e in famiglia sono tutti profondamente credenti.

 

E oggi, come tutti gli altri giorni, scendo dall’autobus per andare a scuola con il lettore mp3 nelle orecchie ascoltando i miei idoli: Carrie Underwood, Hilary Duff, Christina Aguilera e JoJo.

Arrivo in classe con i miei soliti 5 minuti di anticipo e vado a sedermi al mio posto in fondo all’aula accanto alla finestra. Preparo ordinatamente i libri sul banco e saluto la mia migliore amica,  Beatrix, detta Bea*.

 

“Hey, Bea, alla fine ti ha telefonato?”

 

“Sì, usciamo Sabato pomeriggio. Posso dire a mia madre che sono con te?”

 

“Certo, non c’è problema!”

 

Ormai è sempre la stessa storia da cinque anni: lei abborda i ragazzi e quando ha bisogno di essere coperta mi chiama e mi chiede questi piccoli favori. Io devo farlo: lei è la mia unica amica ed è piuttosto popolare, perciò non voglio trovarmela contro.

Per me sarebbe la fine.

E poi rivelerebbe a tutti il mio segreto di sempre…non posso permettermelo assolutamente.

 

Suor Gemma entra e batte due volte le mani per richiamare l’attenzione, poi quando ci siamo tutti seduti ai nostri posti e siamo composti, prende la parola.

 

“Miei giovani figlioli, gioite e lodate il signore con canti e pensieri di gloria oggi che una nuova studentessa si unisce alla nostra comunità. Salutate ed accogliete con tenerezza Shelly Thucker.”

 

Nel frangente in cui entra in classe le nostre venti facce si contorcono ognuna in una smorfia di disappunto o di schifo diversa: con quel nome ci si aspetta la sorellina più piccola di Barbie e invece ci ritroviamo davanti un incrocio malriuscito tra Amy Winehouse e Kelly Osbourne.

Una ragazza imbronciata che mastica rumorosamente una gomma da masticare facendo palloncini e conciata alla ben’e meglio con la nostra uniforme.

Ha la camicia mezza aperta e il maglioncino legato in vita, un piercing all’ombelico  si fa vedere con prepotenza sulla sua pancina piatta, la gonna corta è calzata a vita bassissima mostrando un paio di mutande nere, le sue gambe muscolose, lunghe e magre  percorrono con incedere sicuro lo spazio che separa la cattedra verso il banco accanto al mio. Ai piedi ha un paio di anfibi neri e dei calzettoni raggomitolati a metà polpaccio.

 

Lascia cadere pesantemente la sua borsa piena di borchie e di scritte per terra, poi attira a sé la sedia con un veloce movimento del piede e si siede accanto a me scomposta.

La fisso sconvolta mentre la lezione inizia.

 

“Che cosa vuoi, paperella?”

 

“Da te proprio niente.”

 

“Io invece voglio sapere come ti chiami, Paperina Perfettina.”

 

“Mia. Contenta?”

 

“Sì.”

 

Schiocca la gomma da masticare, poi apre un quadernetto nero e comincia a disegnare, impugnando la penna con la sinistra. Pure mancina, oltre che a dir poco ributtante.

Occhi castani bardati di ombretto nero e eyeliner, ciglia lunghissime piene di mascara, colorito bianco cadaverico, labbra rosa pallidissimo, capelli corti, acconciati ad arte con della lacca in un caschetto arruffato e disordinato, neri, dai quali sfugge qualche ciocca rosa acceso.

In una parola, inguardabile.

Se la vedesse mia madre…Ma mia madre dovrebbe parlare poco visto ciò che ha fatto a me.

La figlia indesiderata, concepita in una notte di follie con il suo ex ragazzo delle superiori, rincontrato per caso. Già, peccato che lui nel frattempo ha fatto pagare i suoi errori a me e a mia madre.

Grazie a lui, io ora sono in queste condizioni, mi devo nascondere, mi devo sentire tagliata fuori, mi devo vergognare di colpe non mie che comunque mi macchiano e che mi precludono a certe cose…Mi precludono ad amare.

 

E anche oggi, come ogni giorno, mi accingo a tornare a casa dopo scuola con il mio solito senso di pesantezza addosso, la sensazione della mia colpa.

 

 

 

 

La mia colpa di nome HIV.

  
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