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Autore: madelifje    26/07/2016    0 recensioni
Giugno 1875, tratta Omaha–Sacramento della Ferrovia Trascontinentale.
John Watson è diretto in California per presenziare al matrimonio della sorella. È un ex cacciatore di taglie, adesso medico, che finge di non sentire la mancanza del suo vecchio lavoro. Perciò, quando una vecchia conoscenza gli propone di unirsi alla cattura del famoso brigante Magnussen, John accetta senza troppi complimenti. Sullo stesso treno viaggiano anche i fratelli Holmes, con un bottino di diamanti e intenzioni molto meno nobili di quelle del dottore. Il piano dei cacciatori di taglie procede a gonfie vele e la cattura dei briganti è ormai imminente. Qualcuno però si diverte a impiccare i tirapiedi di Mycroft…
***
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Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DUE:  in cui inizia a fare caldo

 
 

Anche tempo dopo, John Watson non avrebbe saputo dire come fosse finito in quella situazione.
Era sempre stato quello previdente, lui. Alcuni suoi conoscenti avrebbero probabilmente scelto la parola “catastrofico”, ma il senso era quello. Gli piaceva dare consigli e fare previsioni; gli altri però non sempre lo ascoltavano ed era un peccato - la maggior parte delle volte John aveva ragione.
Aveva trascorso abbastanza nottate nel deserto da non doversi più lamentare per il resto della vita,  soprattutto del cibo, ma i piatti serviti dal vagone ristorante erano ben al di sotto della soglia del mangiabile. I passeggeri si scambiavano occhiate allarmate alla vista delle portate e i camerieri si defilavano abilmente per sfuggire alle eventuali domande.
Gregson Lestrade, al contrario, sembrava divorare qualsiasi cosa gli capitasse nel piatto e inizialmente il dottore aveva ammirato il suo coraggio. Dopotutto la sua, di cena, era stata a base di pane. Quando però era stata servita quella che spacciavano per una vellutata di piselli, non aveva saputo trattenersi.
«Greg, io, quella, non la mangerei».
«Mh?» John aveva indicato gli inquietanti corpi arancioni che galleggiavano nella vellutata.
«Suvvia, John, saranno carote».
Le proverbiali ultime parole famose.
Dopo circa mezzoretta Gregson Lestrade aveva assunto un colorito allarmante. Prima che venisse servito il dolce, aveva annunciato di dover usare urgentemente la toilette, ci era rimasto per un quarto d’ora di orologio e poi si era rintanato nella sua cabina. John Watson era rimasto solo con i suoi pensieri.
Non per molto, comunque.
 
 
 
 
Sherlock Holmes aveva fatto un viaggetto al vagone ristorante perché non ne poteva più della vicinanza di Mycroft. Incredibilmente suo fratello aveva dichiarato di non avere fame: detestava mescolarsi con la massa anche più di Sherlock e, per una volta, era stata una benedizione. Se avesse immaginato la piega che avrebbe preso la serata, probabilmente si sarebbe chiuso a chiave nella sua cabina. O forse no.
Era entrato. L’odore di cibo scadente l’aveva infastidito così tanto che per un po’ aveva accarezzato l’idea di girare sui tacchi e andarsene. Ma solo per un po’.
Era entrato. Era stato lì lì per andarsene. Proprio all’ultimo secondo aveva visto l’uomo dell’orologio. Sedeva solo a un tavolo sulla destra, proprio dietro a una fetta di torta giallognola ancora intatta. Aveva sollevato la testa al momento giusto e i loro sguardi si erano incrociati.
 
Era sempre stato quello riservato, lui. Suo fratello avrebbe scelto la parola “sociopatico”, ma il senso più o meno era quello. Gli dava sui nervi il genere umano e la sua stupidità e mai e poi mai avrebbe iniziato spontaneamente la conversazione con uno sconosciuto. Difatti non lo fece neanche quella sera, ma si limitò a dare inizio alla serie di fortunate coincidenze. In seguito avrebbe giurato di essersi limitato a passare accanto al tavolo dell’uomo con l’orologio in finto argento. Di fatto capitò nei pressi del summenzionato tavolo, si bloccò, infilò le mani nelle tasche del giaccone e prese a fissare con intensità l’essere umano alla sua destra. Quest’ultimo lasciò passare un lasso di tempo a dir poco imbarazzante prima di accorgersene, per poi accogliere Sherlock con un brillante “anche voi qui?”.
«Mi pare sia l’unico vagone ristorante del treno» osservò Sherlock.
«Oh» rispose questi, in un altro colpo di acume.
«Esatto».
«Sono John Watson». L’uomo gli tese la mano, con un sorriso sincero che gli fece quasi pena. La osservò. Avrebbe dovuto stringerla, lo sapeva, era la prima regola della convivenza sociale. E lo fece. La stretta durò un po’ più del necessario, ma servì a rassicurare John Watson.
«Siete solo anche voi?»
«Sì».
«Allora perché non vi sedete qui? Non aspetto nessun altro».
 
 
Qualcuno chiuse la porta del 2219B con due mandate di chiave. Una coppia di respiri affannati, di corpi accaldati, di parole sprecate. Solo una notte.
L’aveva mai fatto su un treno? No? Non sapeva cosa si perdeva. Ne valeva la pena, assolutamente.
Diceva sul serio?
Certo che sì. Voleva provare?
Che ridere, non sapeva proprio con chi avesse a che fare.
Le parole non servivano. Anzi, se stavano zitti era anche meglio.
Molto meglio.
Già che c’erano, però, poteva fargli una domanda?
Tutto quello che voleva.
Benissimo. Dov’erano nascosti i diamanti?
 
 
 
Il newyorkese del tavolo a fianco si era portato dietro un mazzo di carte. Nessuno avrebbe saputo dire come, ma finirono tutti a giocare a poker. L’uomo della banchina, che a quanto pare si chiamava Sherlock, stava stravincendo. Il suo viso non mostrava la benché minima espressione e probabilmente era in grado di leggere nel pensiero, perché era impossibile che riuscisse a vincere anche con carte oggettivamente pessime. Però ci riusciva. John aveva sempre fatto schifo a poker, quindi vedeva sempre di ritirarsi il prima possibile. Sua sorella gli avrebbe sicuramente dato del codardo. Dopotutto, lei lo batteva da quando aveva dodici anni. Tale strategia, seppur vigliacca, gli aveva dato modo di osservare meglio il comportamento di Sherlock Holmes.
Aumentava la posta in gioco solo se costretto, scrutava le mani dei suoi avversari e non emetteva suono. Ogni tanto perdeva di proposito la partita, tanto per non destare sospetti, ma si rifaceva sempre alla mano successiva. Imbrogliava? Era l’uomo più fortunato del globo? O era semplicemente bravissimo? John non avrebbe saputo dirlo. Sta di fatto che nel giro di un’ora rimasero tutti al verde, perciò il piccolo gruppetto iniziò a dileguarsi. Dopo una sfilza di scuse poco credibili, al tavolo c’erano solo loro due.
John moriva dalla voglia di sapere di più sul suo conto, ma strappargli delle informazioni sembrava quasi impossibile. Lui, d’altro canto, finì per raccontare la storia della sua vita. Gli parlò di Harriet, del matrimonio imminente, delle pochissime volte in cui aveva incontrato il futuro cognato, dell’impiego come medico, della sua passione segreta per la scrittura, di come gli sarebbe piaciuto lavorare in un giornale. Omise soltanto il suo passato da cacciatore di taglie, perché ricordare l’avrebbe sicuramente messo di cattivo umore e John non voleva. Stava bene. Quella sera, su quel treno, dopo del cibo pessimo e un’infinità di partite a poker perse, John Watson si sentiva bene.
Sherlock parlava poco. Era difficile capire cosa gli passasse per la testa, difficilissimo, ma ogni tanto gli occhi chiari tradivano qualcosa. Stupore? Tristezza? Meraviglia? Nostalgia? Non era sicuro.
Il cameriere continuava a servire vino e lui a parlare. Intanto il tempo passava.
Finirono per alzarsi, un po’ barcollanti, un po’ spaesati, assurdamente allegri. Attraversarono il vagone ristorante diretti verso le rispettive cabine, che scoprirono essere vicine.
Quando si trovarono sullo spazio aperto che collegava i due vagoni, John fu colto da un capogiro.
Cercò di aggrapparsi alla ringhiera, la mancò e finì contro Sherlock. Quest’ultimo un po’ non se l’aspettava e un po’ era instabile di suo, perciò barcollò all’indietro, rischiando di cadere.
Il vento fece volare via il suo ridicolo cappellino.
Rimasero fermi a fissarsi intensamente, ubriachi, storditi, sorpresi, nella notte.
Viaggiavano sulla ferrovia Transcontinentale, erano un cacciatore di taglie e un bandito, entrambi lì per una ragione ben precisa. Ma mica lo sapevano.
Assurdamente, Sherlock Holmes scoppiò a ridere.
Era una risata assurda, profonda, John era sicuro di non aver mai sentito un suono simile in vita sua. Sarà anche stato ubriaco, ma gli piacque. Parecchio.
 
Finirono nella cabina del dottore. Le labbra di Sherlock Holmes contro le sue erano come fuoco. Bruciavano, lo bramavano, lo affascinavano e lo intimorivano nello stesso momento. Lo esploravano come non gli era mai successo prima e diamine quanto era bello.
 


Le labbra di Sherlock Holmes erano come fiamme.
Le stesse fiamme che divampavano in una cabina poco più in là, al 218B. Nel giro di un’oretta, l’odore di bruciato avrebbe allarmato qualcuno.
La mattina seguente uno dei tirapiedi di Mycroft sarebbe stato trovato impiccato al lampadario, tra le ceneri.
 
Quella notte però esistevano solo loro.
 
 


 
  
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