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Autore: nikita82roma    29/07/2016    4 recensioni
Un mese dopo la sparatoria al loft Kate riprende finalmente conoscenza. Ma lei e Rick dovranno ricominciare tutto da capo nel modo più imprevisto e difficile, con un evento che metterà a dura prova il loro rapporto e dovranno ricostruire il loro "Always", ancora una volta. Ma Rick avrebbe fatto tutto per lei, per loro, per riprendersi la loro vita e non avrebbe più permesso a niente e nessuno di separarli.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Always Together'
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Silenzioso e Vuoto. Improvvisamente a Kate quel loft sembrò grande come non si era mai accorta che fosse. Eppure Martha e Alexis erano ancora al piano di sopra. Eppure era già stata altre volte lì sola, completamente sola, ma era diverso. Era una solitudine di qualche ora, di una mattinata o un pomeriggio, poi Castle sarebbe tornato. Non adesso. Sarebbero stati giorni che si sarebbero sommati ai due precedenti di solitudine nella vicinanza. 
Percepì nettamente come lui, di fatto, con la sua sola presenza riusciva a riempire ogni angolo di quella casa. Ora invece era vuota, senza Castle. Non che si fosse portato via chissà cosa, ma solo il fatto di non vedere il suo computer né sulla scrivania del suo studio né sul tavolo davanti al divano o appoggiato a terra vicino al letto, i posti dove di solito lo lasciava, le faceva capire che lui non era lì.
Aveva lasciato la maglia con cui aveva dormito quella notte sul ripiano del bagno. Profumava di lui. Invece di metterla nella cesta della biancheria da lavare la prese con se, mettendola sul cuscino del letto. 
Prima di uscire vide la tazza di caffè sul bancone della cucina. Era ancora tiepido. Ne bevve qualche sorso, facendo roteare la tazza tra le mani, appoggiando le labbra su varie parti del bordo, come se inconsciamente cercasse quel bacio che Castle aveva nascosto nella ceramica poco prima.

Arrivò al distretto dopo un paio di giorni di assenza che avevano allertato i suoi amici sul suo stato di salute. Tutto bene, aveva risposto a chi le chiedeva come stavano lei o la bambina. Non lavorava al distretto, non più o non ancora, secondo i punti di vista, non doveva sottostare ad orari o turni ed era incinta, non malata. Se non la vedevano per due giorni non dovevano pensare subito al peggio. Non era complicato da capire. 
Andò in sala relax a farsi un caffè. Le avevano preso una miscela decaffeinata da quando era tornata a studiare i suoi casi, ma lei ancora non aveva voluto imparare a far funzionare quella maledetta macchina che gli aveva regalato Castle. Armeggiò un po’ e poi ci rinunciò buttando la tazza nel lavandino ed uscendo da lì frustrata. Si rimise alla scrivania con la voglia di caffè ancora più forte di prima e l’umore decisamente peggiore.
Ricominciò a sfogliare i fascicoli dei casi, infastidita, molto infastidita e la macchina del caffè era solo una scusa per il suo nervosismo causato da ben altro.
“Per un momento sei riuscito a farmi credere che tu fossi umano”
Era lei, era la sua voce quella tornava nella sua mente.
“Devi andartene a casa. Adesso!”
- Beckett tutto bene? - La voce gentile e rassicurante di Ryan la riportò al presente ed il profumo della tazza di caffè sulla sua scrivania le fece appena incurvare la bocca in un abbozzo di sorriso riconoscente. - È decaffeinato. Non sarà bravo come Castle, ma è bevibile - le disse avvicinandole la tazza.
- Grazie Kevin. 
L’irlandese tornò a sedersi e non gli era sfuggito come lei avesse evitato di rispondere alla domanda se andava tutto bene, ma non le disse altro. Lui non era insistente come Esposito, se Beckett aveva bisogno dei suoi spazi e dei suoi silenzi, sapeva lasciarglieli.

Kate era arrivata al punto che faticava anche leggere tutti quei fascicoli e a non capire perché voleva ostinarsi a continuare a farlo. Quanti ne aveva letti in quei giorni? Decine e decine. Risultati? Zero. Anzi, no, era stata un’iniezione di autostima. Era brava. Era stata brava in quegli anni, questo non poteva negarlo nessuno. Con Esposito e Ryan avevano formato una bella squadra. E con Caste, certo. Intuiva che il suo coinvolgimento in molti casi era più importante di quanto le carte non dicessero, aveva imparato a riconoscere i suoi spunti, anche da quello che le avevano raccontato Kevin e Javier che quando avevano qualche minuto libero passavano del tempo con lei a ripercorrere aneddoti di quei vecchi casi. Non era riuscita a smettere di ridere quando gli raccontarono di quell’indagine nel mondo del sadomaso con gli interrogatori alle mistress con il frustino e gli stivali con il tacco a spillo, immaginandosi l’imbarazzo di Ryan in una situazione del genere, che però ci teneva a far sapere che lo spavaldo Esposito non era meno imbarazzato di lui. Ma la cosa che l’aveva colpita di più era stato quando le avevano raccontato di come con l’aiuto di Martha avevano trasformato l’intero piano del distretto in una sorta di set cinematografico perché un testimone era convinto di vivere negli anni 70 e loro in assenza della Gates avevano ricreato lì la stessa atmosfera per farlo parlare con Castle che faceva la parte del loro capo. Non sapeva se ridere o essere estremamente preoccupata capendo in quante cose assurde si era lasciata coinvolgere da Rick nel corso degli anni, perché quella era stata una sua idea, come le avevano detto loro.
- E pensa Beckett, nonostante questo lo hai sposato lo stesso! - Aveva chiuso la questione Esposito con una grossa risata che contagiò anche Ryan ma che lei non riuscì a seguire.
- Espo ti ricordi invece il pazzo che diceva che veniva dal futuro? - Riprese Ryan appena aveva ripreso fiato
- Certo quale caso era… - Cerco tra i fascicoli aprendoli velocemente e tirò fuori giusto - Shona Taylor… e lui era il folle Doyle disse mostrandole una foto di lui con la camicia di forza sorridente
- Però, bel soggetto! - Disse Kate facendo una smorfia
- Ti ha predetto che ti saresti sposata con Castle, avreste avuto tre figli e saresti diventata tu una senatrice e lui uno scrittore di libri seri! - Continuò Ryan
- Ehy Beckett, in fondo ora ti rimangono solo altri due figli e di diventare senatrice, che Castle scriva libri seri non abbiamo proprio speranze! - I due detective risero ancora lasciando Kate interdetta.
- Non è divertente Esposito. Non è proprio divertente. - Chiuse con forza la cartellina e si alzò ed andò a passo veloce verso la sala.
- Ehy! Stavamo scherzando Kate! - Protestò l’ispanico nel vedere l’amica reagire così male ad una battuta, guardò Ryan cercando un appiglio ma alzò le spalle e ritornò al lavoro.
“E' come un ragazzino di 9 anni del tutto incapace di prendere le cose sul serio”
“Lui è fastidioso, egocentrico, piuttosto egoista”
Seduta con la testa tra le mani in sala relax si domandava perché le continuassero a venire in mente solo certe frasi, solo certe situazioni e tutte sembravano portarla nel punto più lontano di dove lei sarebbe voluta andare. O forse no. Non lo sapeva più nemmeno lei. Cosa stava cercando nel suo passato?
- Capitano Beckett…
Si tirò su quando sentì la voce imperativa della Gates chiamarla ed interrompere le sue riflessioni.
- Non mi deve chiamare capitano, signore. Lei lo è.
- Lo è anche lei Kate. Io le ho dato il mio appoggio per farle consultare i vecchi fascicoli e tornare così a prendere confidenza con il distretto. Non mi pare però che questo le stia giovando molto…
- Ma signore…
- Nessun ma, Beckett. Credo che se vuole sarebbe più utile la sua presenza qui in altra veste, magari tornare a fare il suo lavoro le sarà più di stimolo che vedere quello che aveva fatto.
- Signore ma lei…
- Io mi fido di lei Capitano Beckett. Dovrebbe pensarci.
- Sì, signore.

Non lo aveva sentito. Fatta eccezione per quel messaggio a metà mattina “Sono arrivato in hotel. Tutto bene.” al quale aveva risposto con un freddo “Ok”. Niente, nulla di più. Eppure non era questo che gli voleva dire, gli voleva chiedere se aveva finalmente scritto il discorso per la consegna del premio, se si sentisse emozionato di ricevere un premio che portava il nome di Poe, che lui apprezzava al punto di farsi cambiare il secondo nome in suo onore. Se sentiva la sua mancanza.
Kate si chiedeva se anche lui, come lei, stesse resistendo alla tentazione di scriverle oppure no, se era talmente rientrato nei panni di Richard Castle scrittore di successo, autore di best seller totalmente concentrato su di se ed il suo pubblico, quel Richard Castle che lei aveva sempre conosciuto, insomma.
Secondo quello che le aveva detto, nel pomeriggio avrebbe avuto un primo incontro con i fans in una importante libreria di Boston, il giorno successivo avrebbe registrato un’intervista e la sera partecipato alla cerimonia di premiazione. E le altre giornate non erano meno piene.
Entrando nello studio di Burke spense il cellulare con un nodo alla gola, pensando che lui magari la poteva chiamare proprio in quel momento e chissà cosa avrebbe pensato. Pensò di avvertirlo mandandogli un sms, ma poi spense il telefono e lo buttò nella borsa un attimo prima di afferrare la maniglia della porta dello studio ed entrare decisa.
Burke le sorrise gentilmente, ormai sapeva quale era la prassi in quel copione non scritto che faceva iniziare tutte le loro sedute, con lui che l’attendeva alla sua scrivania, si alzava, la salutava e poi senza dire niente si accomodavano sulle poltrone, uno davanti all’altra. C’era già un bicchiere con dell’acqua, sul tavolino basso vicino alla sua, Burke sapeva che lei, quando era nervosa e voleva prendere tempo si bagnava le labbra facendo finta di bere, così glielo faceva trovare già pronto per darle conforto quando le fosse servito.
Quel giorno però Beckett era diversa, più risoluta. Il dottore l’aveva già notato dal passo che aveva quando era entrata, deciso con le falcate lunghe e la testa alta. 
- Voglio tornare a lavoro. - Fu questa la prima cosa che disse a Burke appena seduta e passarono i successivi minuti a parlare del perché di questa scelta. Beckett gli spiegò che andare al distretto a vedere quello che aveva fatto non era quello che voleva continuare a fare, che c’era gente che aveva bisogno di aiuto per avere giustizia e lei sapeva che poteva dargli quello che cercavano. Era decisa, convinta, determinata. La breve chiacchierata con la Gates sembrava averle ridato quello slancio che da tempo sentiva di non avere, da sempre, in realtà, da quando si era risvegliata dal coma. Si sentiva finalmente bene, anche fisicamente, certo la sera era più stanca, ma per il resto era in ottima forma. Lui l’ascoltò, profondamente colpito della sua determinazione e da quel bagliore che vedeva nei suoi occhi, così diverso dal solito. Poi però le fece una domanda, una domanda semplice, di quelle che però sapevano distruggere il suo castello di certezze che si era costruita.
- È solo per questo che vuole tornare a lavoro? - Lei lo guardò piegando un po’ la testa di lato, scivolando appena nella poltrona. Prese il bicchiere d’acqua ed ora sì, lo sorseggiò timidamente un paio di volte.
- Per cosa altro? - Rispose infine
- Non lo so, deve dirmelo lei se è anche per qualcos’altro.
Burke sapeva esattamente che doveva fare molti passi indietro e tornare a parlare con quella Beckett che aveva conosciuto tanti anni prima, determinata a tornare a lavoro prima di quanto i medici le consigliassero, decisa a farlo anche se sapevano entrambi che non stava ancora bene, che c’erano paure dentro di lei, ma aveva capito che la migliore via di guarigione per Beckett era quella di tornare ad essere se stessa ed era convinto che lo fosse anche adesso, per questo non era contrario alla sua richiesta ed avrebbe dato parere positivo per il suo reintegro, ma sapeva che dietro c’erano altre motivazioni, solo che voleva che fosse lei a dirgli quali. Vedendo che non le rispondeva, provò con una domanda diversa.
- Ha fatto dei passi avanti in questi giorni? È riuscita ad ammettere a se stessa che tra lei e Castle c’è qualcosa?
- Al momento tra me e Castle ci sono circa 600 chilometri e due giorni di discussioni e silenzi. - si lasciò scappare un sorriso nervoso
- Vada avanti Kate.
- Abbiamo discusso, non c’è molto da dire e lui questa mattina è partito per lavoro e starà fuori un po’ di giorni.
- Avete discusso per questo? Perché lui partiva?
- No, no… è il suo lavoro è giusto così. - di questo ne era sempre profondamente convinta. Sapeva quanto era importante il suo lavoro per lei e poteva capire benissimo quanto lo fosse quello di Rick per lui, tanto più che gli lasciava per gran parte del tempo la massima libertà, non poteva di certo lamentarsi.
- Allora per cosa?
- Per sua figlia. - Kate pronunciò quella frase quasi in un sussurro. Detta così sapeva che lei non aveva possibilità di vincere, non si vinceva contro i figli, lo aveva capito anche dallo sguardo esterrefatto di Burke e si affrettò a spiegargli tutto quello che era successo quella mattina con Alexis e la sua battuta innocente, quello che le aveva rivelato Martha e la reazione di Rick. Il dottore annotò le sue parole, giochicchiò un po’ con la penna facendola tamburellare sul taccuino e poi tornò a parlare con Kate.
- Quindi lei è arrabbiata con Rick perché le ha detto che non sa se nel suo futuro farà parte della sua famiglia.
- No! Non sono arrabbiata per questo.
- Ok, questo cosa le provoca, allora?
- Paura, credo. - Kate lasciò che le parole uscissero a malapena dalla bocca. Burke annuì. 
- Quindi le fa paura che Rick non la consideri più parte della sua famiglia. Lei gli ha mai detto che vorrebbe farne parte? - Beckett guardò in basso e non rispose. No. Non lo aveva mai fatto. Anzi, aveva sempre rifiutato l’idea di famiglia, di accettare il loro matrimonio e tutto il resto. Scosse solo la testa, in un movimento sconsolato.
- Cosa è che l’ha fatta arrabbiare allora Kate? Cosa è che la fa rimanere così sulle sue?
- Che mi abbia escluso. Che non si sia sentito libero di confidarsi con me di quello che stava passando Alexis. Se lo avesse fatto mi sarei comportata diversamente, avrei evitato certe allusioni.
- Solo per un problema pratico, quindi?
- No…
- E per cosa?
- Perché non mi ha ritenuto in grado di capirlo o di poterlo sostenere.
- E per lei è importante che lui possa ritenerla in grado di farlo?
- Io l’ho fatto con lui. - Kate si mordeva il labbro inferiore ogni volta che faceva una pausa, lo mordeva a tal punto che aveva paura che cominciasse a sanguinare, ma non doveva cedere, non doveva lasciarsi andare ai sentimenti - Mi sono aperta, più che con chiunque altro. Mi sono lasciata sostenere, in tutti i sensi e non l’avevo mai lasciato fare a nessuno. Evidentemente lui non si fida di me. Di questa me.
- Però nemmeno lei si fida di lui, totalmente, al punto da lasciarsi convincere di quello che prova.
- Io ne sono convinta di quello che provo dottore. Oggi più che mai. È proprio questo il problema. Che so di essere arrivata ben oltre dove mi ero imposta di arrivare. E sto male per questo.
- Perché sta male Kate? Cosa è successo?
- Ho cominciato ad avere dei ricordi.
- Ah, è positivo allora, no?
- No. Perché non sono bei ricordi. Non sono cose che mi aiutano. Mi mettono solo ancora più dubbi. 
- Sono su Castle?
- Sì… - Ora per quanto voleva essere forte non riusciva più a tenere a bada le lacrime che scendevano verticali sul suo volto.
- Da quando li ha questi ricordi?
- Da poco…
- Da dopo le vostre discussioni? - Kate annuì di nuovo in silenzio - Cosa cerca in questi ricordi Kate? Una conferma di quello che pensa o qualcosa che la induca a pensare altro? In quale direzione vuole andare, dove le dice di andare il suo cuore, o dove vorrebbe che la sua mente la portasse, condizionandosi a tal punto da riuscire a far tornare a galla qualcosa per giustificare le sue titubanze?
Beckett era letteralmente incapace di parlare. Quello che le stava dicendo Burke era come ricevere una secchiata di acqua gelata in pieno volto che risvegliava una parte di se che aveva ignorato.
- Non lo so.
- Perché le fa così paura lasciarsi andare?
- Perché non voglio soffrire. Non voglio rischiare di perdere ancora qualcuno importante per me.
- Kate, Rick è già importante per lei, è evidente, altrimenti adesso non starebbe così.
- Infatti non devo stare così. 
- Anche il bruco ha paura di diventare farfalla, ma se si lasciasse vincere dalle sue paure, non avremmo le farfalle. Lei cosa vuole fare nella sua vita? Rimanere bruco o volare via come una farfalla? - Kate avrebbe voluto rispondergli cosa ne sapesse lui delle paure del bruco e chi glielo diceva che da bruchi non si stava meglio che da farfalle ma si trattenne. 
- Ho paura di quello che posso ricordare.
- Perché? Cosa la spaventa dei suoi ricordi?
- Di scoprire che lo amavo meno di… - Fece una pausa e respirò profondamente, prese di nuovo il bicchiere con l’acqua bevendo sì, questa volta un sorso e poi un altro ancora, per mandare giù, di nuovo, dentro di se, quelle parole che stavano uscendo incontrollate.
- Meno di? - La incalzò Burke
- Meno di quanto tutti dite che lo amassi - Disse Kate che aveva ripreso il suo autocontrollo.
Il dottore sorrise scuotendo la testa.
- Sta comoda dietro il suo muro Kate? Lo trova confortevole? - Le chiese con più di una punta di ironia.
- Ho bisogno di sentirmi sicura. Di sentirmi forte. Di non essere debole. - Nel pronunciare quelle parole, la sua postura si era di nuovo irrigidita, il suo sguardo era tornato profondo e vigile, come ad inizio della seduta quando gli aveva comunicato di voler tornare a lavoro.
- Kate, dall’altra parte del muro dietro al quale nasconde le sue paure, non ci sono solo i mostri che deve combattere, ma c’è la sua vita, la sua libertà. Deve decidere lei se la vuole affrontarli per riprendersi quello che era suo oppure no. Magari può scoprire che quello che crede un drago è solo un’ombra che ingigantisce qualcosa di minuscolo. Oppure può scoprire qualcuno seduto a terra, appoggiato al suo muro che sta aspettando proprio che lei esca.
Kate adesso si era messa sulla difensiva, anche con lui Burke capì che era inutile, per quel giorno, andare oltre. Doveva avere modo di riflettere, di elaborare, di capire, sempre che avesse voluto farlo. 
Le diede appuntamento alla fine di quella settimana, le avrebbe consegnato così anche la sua relazione da portare al Capitano Gates. 

Kate era sfinita, come sempre quando usciva da Burke. Quel giorno si era sentita sull’orlo del precipizio, ad un passo dal fare un passo verso il suo punto di non ritorno. Quasi si pentì di non averlo fatto, magari aveva ragione lui, magari sarebbe stata meglio. O magari sarebbe stata dannatamente peggio.
Rientrò al loft ora sì, vuoto. Alexis e Martha erano uscite insieme a cena e poi sarebbero andate a teatro. Erano gli ultimi giorni che la figlia di Castle trascorreva in città e voleva passare più tempo possibile con sua nonna, sapeva che le sarebbe mancata. 
Si cambiò rapidamente, poi andò in cucina. Aprì il frigo e trovò una porzione di ravioli che andavano solo scaldati al microonde. Per quella sera si sarebbe fatta andare bene quelli, non aveva voglia di cucinare nè di aspettare che le portassero la cena. Intanto che aspettava i ravioli si preparò un’insalata aggiungendo un po’ di tutto quello che trovava, per tenersi occupata, e per saziare quella fame che stava diventando sempre più insistente. Si accarezzò la pancia e pensò che in fondo aveva ragione Martha, era come suo padre. Ecco che il pensiero di lui tornò prepotentemente ad impossessarsi di lei. Non lo aveva più sentito, non aveva chiamato e non le aveva mandato altri messaggi. Nemmeno lei lo aveva fatto a dir la verità, ma sarebbe stato lui a doversi far sentire secondo la sua logica, era lui che era fuori casa, non lei. Le sembrava una buona motivazione.
Mangiò sola come da tanto tempo non ricordava di aver fatto. Guardava il loft e le sembrò veramente un bel posto, si vedeva che era stato arredato con un gusto maschile, dai colori scelti ai materiali, agli oggetti d’arredo. Però era bello, forse perché ogni in ogni piccola sfumatura di quel posto riusciva a riconoscere qualcosa di Castle. Non trovava tracce di se, ma Rick le aveva spiegato il perché: tutto quello che aveva portato con se lo aveva comprato dopo che il suo appartamento era esploso, non poteva ricordarsene, però lui le aveva fatto vedere una per una quali erano le proprie tracce: il suo cuscino preferito, con la bandiera inglese, i porta candele neri che Rick aveva voluto mettere nel suo studio e dentro ai quali aveva messo delle candele alla ciliegia, così le ricordavano lei, quando non c’era, i quadri, e tante altre piccole cose che si mescolavano con quelle di lui e lei trovava che insieme, almeno gli oggetti, stessero benissimo, in perfetta armonia.
Finì di mangiare gustandosi quella cena più di quanto non era la qualità del cibo, ma la sua fame era tanta e non se ne curò. Osservò il grande divano nero, aveva mai fatto caso a quanto fosse realmente grande e comodo? Lei e Castle erano stati abbracciati lì a dormire più di una notte e non aveva sentito il bisogno di dover riposare su un letto. Si immaginò loro lì seduti, con due calici di vino  rosso, a parlare dopo una giornata di lavoro con il camino acceso o magari con due scatole di cibo cinese: le sembrava di poter sentire la risata di Rick ed anche la propria nel rubarsi il cibo a vicenda e stuzzicarsi con le bacchette come dei bambini dispettosi. Si immaginò una domenica in inverno, con la neve fuori lei sdraiata con la testa sulle sue gambe a leggere un libro mentre lui revisionava gli ultimi capitoli del suo romanzo, sotto una morbida coperta di lana. Si immaginò loro due fare l’amore, lei sopra di lui aggrappata alle sue spalle, che gli mordeva il lobo dell’orecchio e gli ripeteva più volte Ti amo. 
Ti amo Rick.
Ti amo Babe.
Babe.
Chiuse gli occhi e non capì più cosa stava facendo, se stava immaginando qualcosa che sarebbe potuto accadere in futuro o qualcosa che era già accaduto in passato. Penso che per essere qualcosa che stava immaginando, era troppo vicina al cuore. Prese il telefono e scrisse freneticamente.
Va tutto bene? Ci manchi” gli scrisse. Sapeva di essere scorretta, che usare il plurale in quel modo era un colpo basso. Però ne era sicura che la sua voce profonda mancava anche alla loro piccola.
Sperò che come al solito lui le rispondesse subito. Invece i minuti passavano e il telefono era sempre muto. L’incontro in libreria doveva essere finito da tempo, non le aveva detto di cene di lavoro o altro. O forse era lei che si era dimenticata. Aspettò ancora. Cominciò a camminare nervosamente per casa, coprendo con passi svelti la superficie del loft che era diventata improvvisamente piccola. 
“Se otterrai il lavoro ti trasferirai e non ti vedrò più e praticamente sarebbe la fine del nostro rapporto sapevi bene cosa avrebbe potuto comportare e non hai pensato di interpellarmi o peggio ancora ci hai pensato ma hai scelto di non farlo”
La voce di Rick le rimbombava nella testa
“Kate perché rinunci al nostro matrimonio”
Sembrava la stesse supplicando e quella frase, Dio le sembrava così reale, in quel momento, più di tutto il resto, come se lui fosse lì, in quel momento a dirgliela. Ma non era così, era di prima, e quindi erano già arrivati a quel punto, a farsi male così tanto.
“Prima che Bracken fosse ucciso mi ha detto che tu non sarai felice nei panni di mia moglie. Ti prego non dirmi che quel bastardo ti conosceva meglio di me”
Avrebbe voluto tanto saperlo anche lei.

   
 
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