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Autore: vivis_    30/07/2016    5 recensioni
L'abbiamo provata tutti, quella sensazione di impotenza. Sì, quella che ti attanaglia l'anima quando ti senti in dovere di aiutare qualcuno, ma non credi di possedere i mezzi per farlo.
Tutti l'abbiamo provata, tutti tranne lui: Sherlock Holmes.
Lui ha sempre la soluzione a tutto, o almeno l'aveva sempre avuta, fino a quel giorno. Il giorno in cui lui e colui il quale rappresenta l'altra metà della sua vita, John Watson, si trovano letteralmente bloccati nell'ennesima sfida da affrontare insieme. Uno con l'altro, l'uno per l'altro.
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Dal secondo capitolo:
Era panico quello che sentiva, panico e impotenza. La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui."
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. Il gioco è cominciato


Sherlock Holmes spalancò gli occhi verdi, spaesato.
Il buio che lo circondava era così fitto da sembrare un denso liquido nero, simile al petrolio.
Dove sono? Si chiese il genio senza ricevere la risposta immediata che si aspettava dalla sua fredda mente calcolatrice.
Cercò di mettersi seduto, ma non appena sollevò la testa dalla fredda superficie sulla quale era poggiata, una scossa di dolore gli attanagliò le tempie, sentendosi come se una lancia gli stesse trafiggendo il cervello da parte a parte. Riadagiò il capo al suolo e, cercando di muoversi il meno possibile, allargò i palmi per sondare lo spazio che lo circondava. Le lunghe dita tastarono un oggetto di forma cilindrica all’altezza del suo fianco destro e si avvolsero intorno a quest’ultimo, afferrandolo con cautela. Un volta sollevato, Sherlock chiuse il misterioso oggetto tra i due palmi capendo, finalmente, di cosa si trattasse. una torcia.  
Una volta individuato il tasto di accensione, lo premette senza ulteriori indugi.
Puntò il flebile fascio di luce verso destra, dove venne bloccato da una sagoma che riconobbe subito. Si trattava della manica di un cappotto nero, con un polsino in lana leggermente liso dal quale sbucava una piccola mano che giaceva immobile sul pavimento appiccicaticcio.
John.
Il consulente investigativo, l’unico al mondo, lasciò cadere la torcia e, puntellandosi sui gomiti, sollevò la schiena da terra cercando di ignorare una seconda e violenta fitta alla testa. Si sporse verso destra ma un violento capogiro lo colpì inaspettatamente facendolo letteralmente ricadere sul corpo inerte del suo amico e coinquilino.
«John?» lo chiamo con un filo di voce, era così vicino al suo viso da riuscire a scompigliargli i sottili capelli biondi ad ogni respiro che faceva.  «John, per l’amor del cielo, svegliati.» lo richiamò, quasi implorandolo, dopo qualche istante di preoccupante silenzio.
Non gli passo per la testa nemmeno per un secondo che potesse essere morto, la sua geniale mente si rifiutò persino di prenderlo in considerazione. Afferrò il cappotto dell’amico e lo scosse con impeto.
John schiuse gli occhi, lentamente, come se le sue palpebre pesassero come macigni. Le iridi blu del dottore schizzavano a destra e a sinistra, annaspando alla ricerca di spiegazioni.
Il genio tirò involontariamente un sospiro di sollievo, per poi ricomporsi, assumendo la sua tipica espressione da uomo-robot.
«Sherlock, grazie sei vi…» la frase del dottor Watson fu bruscamente interrotta da un rantolo di dolore. «Dio! La gamba, mi fa un male infernale!» disse a denti stretti per evitare di liberare un urlo di dolore che, probabilmente, avrebbe potuto far tremare le pareti.
«John, non ho tempo per i tuoi dolori psicosomatici, sto cercando di capire dove diavolo siamo finiti.» lo rimproverò Sherlock, che nel frattempo si era messo seduto a gambe incrociate, pronto a mettere alla prova le sue capacità deduttive. Aveva appena scartato tre delle cinque ipotesi che aveva formulato da quando si era svegliato, quando fu di nuovo interrotto.
«No, no, Sherlock non è psicosomatico» si sentirono le unghie del dottore stridere contro il pavimento. «Io… io credo di avere qualcosa nella gamba.» disse infine cercando di fare respiri profondi.
Sherlock sentì lo stomaco stingersi in una morsa e, senza nemmeno rendersene conto, stava già strisciando sulle ginocchia per raggiungere l’amico. Impugnò la torcia puntandola verso John.
«Dio santo…» le parole uscirono dalle labbra del genio come il sibilo di un serpente che si sente minacciato. C’era un lungo gancio metallico arrugginito impiantato nella coscia del suo migliore amico, l’unico amico che aveva, l’unica persona che aveva deciso di tenere al proprio fianco. Alla vista di quella tremenda ferita lo stomaco si strinse ulteriormente quasi volesse arrotolarsi su se stesso, ma non era senso di nausea, quello che provava. Era stato su decine e decine di scene del crimine, aveva esaminato cadaveri martoriati con le più macabre modalità, quindi al suo occhio esperto una ferita del genere equivaleva sì e no ad una sbucciatura al ginocchio dopo una caduta in bicicletta. Era panico quello che sentiva, panico e impotenza.
La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui.
«Quanto è grave?» chiese allora John. Non aveva ancora avuto il coraggio di voltare il viso verso la fonte del suo dolore.
Sherlock sbatté le palpebre velocemente, cercando di scrollarsi di dosso l’ansia che tentava di celare dietro il viso pallido e che, di certo, non lo avrebbe aiutato a risolvere quella situazione. Non poteva essere un angelo custode come lo era John, ma decise che si sarebbe preso cura di lui.
Sherlock non era un eroe, aveva giurato a se stesso che non lo sarebbe mai diventato, ma per John avrebbe fatto un’eccezione. John era sempre stata l’eccezione.
Si avvicinò alla ferita. Affilò lo sguardo, notando come la quantità di sangue fosse stranamente esigua per una lesione di tale entità: ciò poteva significare solo una cosa.
«Hai un corpo esterno conficcato nella gamba destra. Dall’assenza di una emorragia venosa, deduco che possa essere penetrato tanto da riuscire ad intaccare l’arteria femorale ed ora, ironia della sorte, quel corpo esterno è l’unica cosa che ti impedirà di morire dissanguato.» il genio si schiarì la voce. «Quindi John per nessuna ragione al mondo devi estrarlo, perderesti…»
«Per l’amor del cielo Sherlock, sono un medico. So cosa succede se si perfora la stramaledetta arteria femorale!» esclamò il dottor Watson sull’orlo di una crisi isterica.
Sherlock si sforzò di mantenere un’espressione neutra, nonostante fosse stato colto di sorpresa dalla reazione dell’amico. Tornò ad esaminare la ferita, stando attento a non avvinarsi troppo, come se avesse paura di poter provare lo stesso dolore dell’amico.
«Scusa Sherlock io non…» sopirò passandosi una mano sul volto.  «Voglio solo uscire da qui.» disse esausto.
«Usciremo John.» sentenziò Holmes «Giuro che ti porterò fuori da questa maledetta cella frigorifera.»
Il biondo volse il viso verso l'amico, distraendosi per un attimo dal dolore.
«Una cella frigorifera? Sicuro?» chiese alzando un sopracciglio.
«L’ex cella frigorifera di un vecchio macellaio, venuto sfortunatamente a mancare qualche settimana fa, per essere precisi.»
«E da cosa hai dedotto il fatto che ci troviamo in una cella frigorifera di un vecchio macellaio ora deceduto?» chiese allora mimando il gesto delle virgolette. Il movimento delle braccia, seppur minimo, gli causò l’ennesima scarica di dolore che lo colpi come una pugnalata alla base della spina dorsale. Cercò di dissimulare la smorfia dolorante dietro un sorriso tirato, odiava vedere quella ruga di preoccupazione tra le rade sopracciglia di Sherlock.
«Semplice: c’è una serpentina che ricopre il soffitto dentro alla quale scorreva il del liquido refrigerante, quindi questo posto è stato concepito per rimanere al fresco. In secondo luogo ci sono quelle…» Sherlock sollevò la torcia illuminando due lunghe sbarre metalliche situate proprio sopra le loro teste, che attraversavano la cella da parte a parte. «Sono utilizzate per appendere grossi tagli di carne o carcasse di piccoli animali, grazie a dei ganci metallici. I ganci sono vecchi, sono stati utilizzati talmente tanto da aver quasi perso la loro forma uncinata per via del peso che dovevano reggere: ecco perché uno di essi ti ha trafitto la gamba quasi fosse un pugnale.» proseguì indugiando per qualche istante sulla ferita di John «Poi lui, il macellaio. Questa cella riparata manualmente in più punti, vedi quel nastro isolante sulla serpentina?»
John annuì.
«Bene, indica quanto ci tenesse al posto, ma gli mancavano i mezzi economici per poter comprare una cella frigorifera nuova. Il che, che già di per se potrebbe indicare una persona in età avanzata, probabilmente sola, ma la conferma mi arriva dal fatto che questo posto sia inutilizzato da almeno tre settimane, ma non è stata ripulita né sistemata, probabilmente è stata venduta all’asta. Un proprietario così scrupoloso non avrebbe mai venduto il posto in cui a lavorato per una vita senza nemmeno pulirla, quindi lo sfortunato titolare deve essere venuto a mancare senza lasciare eredi.» spiegò Sherlock, vomitando informazioni ad una velocità tale che persino John, nonostante tutto il tempo passato insieme, faticava a stargli dietro.
Il dottore schiuse leggermente le labbra. Erano cambiati tanto, lui e Sherlock, da quando erano diventati coinquilini: lui aveva imparato l’arte della Santa Pazienza e Sherlock aveva addirittura comprato un congelatore a parte per far si che le carote, di cui John andava ghiotto, non stessero vicine a parti di cadavere da utilizzare nei suoi esperimenti dalla dubbia scientificità. Aveva imparato ad apprezzare il suono del violino ad orari in cui qualsiasi rumore andrebbe vietato per legge e Sherlock quello delle dita che scrivono a ritmi forsennati su una tastiera, eppure lo stupore che il Dottor Watson provava ogni qualvolta il suo migliore amico si cimentasse nelle sue deduzioni era rimasto quasi immutato.
«Fantastico? Lo so.» disse il genio trattenendo a stento un sorriso compiaciuto.
Una risata sommessa vibrò nel petto di Watson.
Cambiato sì, ma non troppo, pensò con dolcezza fraterna. Ancora non aveva finito di formulare quel pensiero quando notò l’espressione del suo migliore amico cambiare in maniera repentina. Lo vide affilare lo sguardo glaciale fino a ridurre i suoi occhi a due sottili scorci di mare nordico.
«Che c’è?» gli chiese allora.
«C’è qualcosa su quella parete.» rispose impassibile.
«Qualcosa, tipo?»
Il genio ignorò completamente il suo amico e, sorpassandolo si diresse verso la parete di fondo.
«Sherlock, parlami!» esclamò il medico, frustrato.
«C’è una telecamera.» constatò il genio, parlando più per se stesso che non per rispondere alle richieste dell’amico.
«Una telecamera?!»
Sherlock illuminò l’apparecchio elettronico, fissato al muro con quattro viti, condividendo così la propria scoperta con John che, a fatica, riuscì a voltarsi. «Ci sta guardando.» disse infine abbassando la torcia.
«Che razza di psicopatico» fu l'unica cosa che il medico riuscì a commentare.
« Credo che sia più corretto definirlo un sadico o un voier » precisò Sherlock abbassando la loro fonte di luce.
«Sherlock, per l'amor del cielo, non mi sembra il momento più adatto per discutere su quale strana malattia mentale abbia il bastardo che ci ha messo qui dentro! »
«Suppongo che tu abbia ragione» Sherlock fece per tornare al fianco di John, quando incespicò in un misterioso oggetto appoggiato a terra.  Egli infilò allora la torcia sottobraccio e piegò le lunghe gambe, sollevando da terra una pesante busta in cartoncino spesso.
«Ma che diavolo è?» chiese il medico aggrottando le sopracciglia.
Sherlock prese posto accanto a John. Il tiepido contatto con la spalla dell’amico, innescò un piacevole contrasto con il freddo muro al quale poggiava la schiena, allentando per qualche istante la tensione muscolare del consulente investigativo. Per quel brave lasso di tempo la sua infallibile mente si ingannò, pensando di trovarsi altrove, tra le polverose e accoglienti pareti del 221B di Baker Street.
«Scopriamolo» sentenziò. Con le lunghe dita estrasse un tablet nuovo di zecca sul quale era appiccicato un post-it giallo, sul quale vi erano scritti i numeri “7-4-3-7”. Sotto lo sguardo vigile del suo coinquilino, pigiò il tasto di accensione e, insieme attesero.
 
Inserire codice di sblocco:
***7
Codice di sblocco corretto, benvenuto.
 
Sulla schermata iniziale vi era solo un file: un video.
Sherlock scambiò una breve occhiata con il suo migliore amico, il quale annui debolmente a mo’ di incoraggiamento. Ancora faticava a capire perché, nonostante la sua mente capisse tutto nel giro di pochi attimi, egli ricercasse sempre approvazione di John. Gli dava sicurezza, come se un cenno del capo o una pacca sulla spalla potessero renderlo invincibile.
Senza ulteriori indugi, fecero partire il video. Sullo schermo vi era il profilo nero di un comune manichino, uno di quelli che si vedono nelle vetrine di quel genere di negozi che Sherlock evitava come la peste. Per qualche secondo vi fu solo un ronzio elettronico, poi una voce metallica, palesemente distorta, fuoriuscì dalle casse del tablet disperdendosi nello spazio circostante sottoforma di piccole vibrazioni.
 
Sherlock Holmes, mio caro Sherlock.
Perdonami la confidenza, ma ormai ti ho studiato così tanto e so così tante cose su di te che è come se ti conoscessi da una vita.
Ma non divaghiamo, veniamo al dunque.
Sei in gabbia, Sherlock Holmes. Strano, vero? Essere quello che viene catturato.
Lo so, lo so penserai che io sia uno di quelli che ce l’ha a morte con te perché sbatti in gattabuia quelli cattivi come me, ma non è così Sherlock, io ti ammiro. E proprio perché ti ammiro, voglio darti la possibilità di farti venire a prendere da quell’incapace di Lestrade e da quel presuntuoso pallone gonfiato di tuo fratello. Le regole sono semplici: se risolvi l’indovinello, capirai dove ti trovi e a quel punto io non impedirò a nessuno di venirti a recuperare.
L’indovinello è questo:
 
Ci sono due fratelli: uno mangia tanto quanto gli viene dato, ma non è mai sazio. Il secondo va via e non torna mai, e non sarebbe mai potuto esistere se non ci fosse stato l’altro. Il primo dei due distrusse la casa di Prospero e Miranda, di Otello e di Giulio Cesare. Ma è dove nacque il padre di questi ultimi che a noi interessa, un posto dove da sempre vive l’acerrimo nemico del fratello distruttore.
 
Spero sia degno di stuzzicare la tua brillante mente, ma ora ti devo lasciare. Se i miei calcoli sono esatti, non dovrebbero restarti più di 10 ore di aria, quindi sarà il caso che io ti lasci riflettere.
 
The game is on, Sherlock.




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Buonsalve a tutti,
non ho voluto scrivere nulla né prima né dopo ill primo capitolo perchè volevo che esntraste direttaemente nell'atmofera della storia senza troppi preamboli. Mi fa un immenso piacere vedere che ha stuzzicato la curiosità dei "miei" primi lettori, spero solo di non aver deluso le vostre aspettative ora che anche i due protagonisti principali sono entrati in gioco (o nel gioco). 
Vi mando un bacio grande e ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito lo scorso capitolo,

Vivi
xx
   
 
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