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Autore: Voglioungufo    31/07/2016    4 recensioni
Calypso non vuole mangiare, lei vuole volare via come un piccolo colibrì.
Leo sorride troppo per trovarsi in un posto del genere, ma è un abile bugiardo.
Nico non parla con nessuno, preferisce parlare con la propria ombra.
Will è convinto, lo sa che tutti meritano una seconda possibilità. Tutti.
Dal testo:
"Perché?" chiese solo sfiorandogli il polso con il polpastrello senza premere troppo forte come il tocco delicato di una farfalla. Non poteva capire cosa ci fosse nella sua intonazione, se stupore o rabbia, se dolore o paura o disprezzo, forse era solo incomprensione.
"Ognuno si autodistrugge a modo suo, mio cara" disse con un sorriso sbieco, da furfante, ma negli occhi aveva una luce sprezzante che non gli aveva visto mai. "Il mio modo è solo più evidente del tuo, Raggio di Sole" e mentre lo diceva si coprì il polso impedendole di guardare oltre tutti i suoi peccati, quello sguardo bruciava più del fuoco.
Sorprendentemente, contro ogni logica, lei appoggiò la testa sulla sua spalla come se fosse la cosa più naturale del mondo.
"Autodistruggimi, allora"
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I sette della Profezia, Leo/Calipso, Nico/Will, Percy/Annabeth, Quasi tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Attenzione! La storia seguente presenta tematiche delicate. Vorrei precisare che non promuovo nessun tipo di disordine alimentare. Pertanto, se si è facilmente influenzabile sconsiglio la lettura, non voglio avervi nella coscienza.




 
 
 
III
Quarantaseipuntotre
**
“Non mangiare nulla per quattro
ore prima di coricarti a dormire.
Può fare grande differenza”
 
Il padiglione per la colazione era pieno di ragazzi seduti ai propri posti e nell’aria c’era un composto chiacchiericcio tipico delle prime ore dopo la sveglia, tutti erano ancora intontiti dal sonno per la solita vivacità e preferivano concentrarsi sulle proprie tazze di caffè o cornflakes. Tranne Leo Valdez. No, l’ispanico manteneva la sua solita iperattività agitandosi sul posto come se fosse sveglio da ore e perfettamente riposato nonostante la sera prima fosse rientrato in camera alle due passate.
A volte vorrei sapere dove gironzoli...
Certamente Jason era abbastanza sicuro che il suo migliore amico o si facesse di una particolare droga molta pesante o avesse della caffeina naturale in circolo nelle vene, era umanamente impossibile essere sempre così agitato. Cioè, anche Percy soffriva di ADAH, ma erano due cose completamente diverse.
“Smettila di tirarmi calci” si lamentò Piper esasperata. Leo staccò un morso dalla propria mela e la guardò con sfida, gli occhi spalancati.
“Non è colpa mia se hai delle gambe lunghissime, Reginetta di Bellezza”
Si massaggiò la radice del naso intenzionato ad estraniarsi dal battibecco tra la sua ragazza e il suo migliore amico, quella mattina avevano rischiato di arrivare tardi (come al solito aveva tentato di far scendere Nico senza riuscirci) e si erano seduti sul primo tavolo disponibile appena in tempo, il resto della truppa stazionava qualche metro più in là. Li guardò corrucciato, in quel momento voleva Annabeth e la sua straordinaria capacità di far zittire Leo; la bionda sembrava avere un particolare superpotere che le permettesse di farlo tacere per qualche secondo, cosa che necessitava assolutamente in quel momento. Gli doleva troppo la testa.
Leo gli schioccò le dita davanti al naso facendolo sobbalzare. “Ehi, amico. Resta con noi”.
Jason sbatté le palpebre un paio di volte sotto lo sguardo attento di Piper. “Sì, sono qui” assicurò. Lei lo guardò ancora, poi fece il respiro, quello che faceva da preludio a un discorso serio.
“Jason” lo chiamò quando distolse l’attenzione da lei “Lo sai che non è colpa tua se Nico non vuole scendere. Sai com’è fatto, Nico è...” tentennò cercando la parola giusta.
“Strano” le venne in soccorso allora Leo sputacchiando pezzi di cornflakes “Inquietante. Fuori di testa. Fissato. Pazzo. Psicopatico” continuò ad elencare finché non gli fu scoccata un’occhiataccia degna di Annabeth e allora alzò le mani in segno di resa.
“Ehi, mi limito a descrivere la verità”.
“Quello che Leo sta cercando di dirti” lo interruppe Piper prima che potesse dire qualcos’altro “E’ che Nico ha delle...”
“Fissazioni inquietanti”
“Leo!” sbottò colpendolo alla testa con uno schiaffetto, poi riprese da dove era stata interrotta “delle piccole fissazioni. A lui non piace stare in posti affollati, no? Tu non hai fatto nulla di sbagliato”
“Sono suo amico, però” decise di farle notare. In realtà odiava quell’argomento, lo avevano iniziato centinaia di volte ma alla fine non lo finivano mai e ognuno restava convinto delle proprie tesi. Jason capiva perché Piper gli dicesse certe cose, ma era comunque frustrante non venire capito a sua volta; si passò una mano fra i corti capelli biondi a disagio.
“Essere suo amico non significa cercare di risolvere necessariamente tutti i suoi problemi” spiegò con pazienza Piper cercando di afferrargli la mano sul tavolo.
“Ah, no?” si lasciò sfuggire “Credevo significasse proprio questo essere amici. Aiutarsi a vicenda”
“Jason!”
“E’ mio compito aiutarlo. Se non lo faccio io, chi? Voi che lo considerate uno stramboide?” aggiunse spostando la mano sotto il tavolo e facendo sospirare la ragazza che gli rivolse uno sguardo sconfortato. I suoi occhi dicevano a chiare lettere che stava solo cercando di farlo stare meglio.
Si sentì infinitamente in colpa.
“Scusami” sussurrò abbassando lo sguardo, non riusciva proprio a farne una giusta.
“Va tutto bene” lo rassicurò Piper prendendo finalmente quella mano e avvicinandosi un po’ di più al fidanzato senza smetterlo di cercare un contatto visivo. Lui ricambiò la stretta sbirciando verso di lei. “Non volevo risponderti così male”
“Lo so” sorrise “E so anche che Nico è davvero fortunato ad avere un amico come te. Sei una persona fantastica, Jason Grace” gli ricordò solo per cancellare dalla faccia quel sorriso triste. Avrebbe tanto voluto baciarla in quel momento.
Del latte si sparse per il tavolo scivolando a terra e bagnando i pantaloni di Piper la quale fece un balzo presa in contropiede.
“Ops, ho rovesciato il latte” rimarcò l’ovvio Leo con un sorriso da folletto.
“Valdez!”
“Scusa, Miss Mondo”
Scosse la testa divertito notando che Leo lo guardava con la coda nell’occhio. Non era arrabbiato, in fondo era fin troppo facile quando era con la sua ragazza dimenticare la presenza di terzi.
Nella sala scese improvvisamente il silenzio e anche i due ragazzi smisero di litigare spostando lo sguardo verso il tavolo degli adulti, Jason li imitò. Chirone si era alzato dal suo posto al centro della tavolata rettangolare e abbracciava con sguardo paterno l’intera sala soffermandosi su ogni viso.
“Buongiorno” iniziò e i più coraggiosi nella sala risposero al saluto con enfasi, inutile dire che Leo fu uno di essi.
Il riccio prese la coppa di cereali e la alzò verso il cielo come un trofeo. “Alla sua salute, vecchio!”
Chirone li tacitò tutti con un sorriso bonario. “Come sapete, oggi con l’inizio dei corsi estivi abbiamo facce nuove tra noi. Spero, anzi: so che saprete accoglierli nel modo più appropriato che aspetta ai nuovi membri di una famiglia. Perché sì, come vi dico sempre il College Olympus è la nostra famiglia, una casa dove poter costruire i propri legami”
Jason ebbe la sensazione che lo sguardo di Chirone si posasse prima su di lui e poi nel resto della stanza alla ricerca di una scarmigliata chioma corvina. Il pensiero gli strinse le viscere.
Dopo un attimo di silenzio l’uomo riprese a parlare: “Ora, vorrei solo ricordare le poche cose che la maggior parte di voi già conosce. Gli orari dei pasti sono infissi davanti alla mensa e il nostro direttore richiede la vostra puntualità. Tutti gli studenti che salteranno i corsi o si troveranno fuori dalle proprie stanze oltre l’orario del coprifuoco verranno puniti” e lo sguardo che lanciò a Leo fu più che palese a tutti nella sala “Per conoscere più dettagliatamente le regole dell’istituto potrete chiedere il documento alla nostra segretaria Melly. Anche se so che nessuno di voi lo farà” una leggera risata collettiva si sparse nell’aria “Vi chiedo comunque di comportarvi bene e nel rispetto verso gli altri.
Nella hall sono già stati fissati i turni per le regolari visite mediche, siete pregati di prenderli in esame e presentarvi in infermeria nel tempo prestabilito. Alcune gite che faremo nel corso dell'estate sono già state programmate, se avete piacere sono sempre infisse in bacheca.
 Non ho altro da aggiungere, se non darvi il mio più caloroso benvenuto. I corsi inizieranno fra venti minuti, quindi orsù eroi, affrettatevi nella vostra colazione” e con un sorriso paterno si sedette al suo posto mentre i ragazzi prorompevano in un applauso.
“Che grand’uomo” si finse commosso Leo battendo le mani con fin troppa enfasi, fu uno degli ultimi a interrompere l’applauso.
 
**
“Signorina Nightshade”
Calypso si era appena alzata dal suo posto nella mensa quando una signora con una sgargiante maglia arancione l’aveva chiamata. La guardò con un punto interrogativo stampato in faccia mentre i ragazzi che erano con lei si alzavano e allineavano frettolosamente.
“Signora Jackson” arrossì Frank.
“Mamma!” disse invece Percy con un sorriso che venne ricambiato dalla donna.
“Ciao tesoro” lo salutò, poi posò nuovamente lo sguardo su Calypso che ancora la guardava confusa.
“Scusami cara, ma c'è stato un problema con i corsi che hai scelto" disse facendole segno di allontanarsi dagli altri per parlare con più privacy.
"Che genere di problema?" domandò con una punta d'ansia. Gli occhi della signora Jackson avevano la stessa forma di quelli del figlio ma i suoi scintillavano e cambiavano alla luce, pareva stesse vedendo in lei tutte le cose belle dimenticando quelle cattive. Qualche ciuffo argentato striava la sua capigliatura castana.
La donna lanciò uno sguardo al gruppetto di ragazzi dietro di loro che, poteva scommetterci, stavano facendo di tutto per origliare senza farsi notare. La cosa la infastidì non poco.
"In realtà è una sciocchezza" cercò di rassicurarla "Per via del motivo per cui sei qui" continuò facendole capire che lei lo sapeva ma non la giudicava "Devi seguire alcune... regole, possiamo chiamarle così, in più rispetto agli altri" le passò un foglio "Per questo l'orario che ti sei scelta è stato un po' modificato".
Calypso lasciò uno sguardo di sbieco al foglio, era molto diverso dal programma che aveva dovuto seguire nel centro ospedaliere di riabilitazione intensiva. C'era stata dentro novanta giorni, i novanta giorni più brutti della sua vita. Prima avevano distrutto tutti i suoi sforzi per raggiungere il suo traguardo facendola tornare nel suo cosiddetto peso base, l'avevano tenuta lontana da bilancia o da qualsiasi metodo che potesse aiutarla a controllare il peso, era stato terribile. Ancor più orribile era stato al termine del mese salire finalmente su una bilancia e vedere quei numeri. Si era messa a piangere per la prima volta da quando era entrata là dentro, prima non l'aveva mai fatto per non dare nessuna soddisfazione ai suoi aguzzini. Nei successivi due mesi, ovvero nella seconda e terza fase del programma, avevano cercato di ristabilire i normali schemi di alimentazione e i normali atteggiamenti nei riguardi del peso e della forma del corpo e a risolvere i quadri psichiatrici di depressione, ansia e disturbo ossessivo - compulsivo. Inizialmente si era ribellata, aveva tentato di scappare, gridava di lasciarla andare e che non capivano ma poi aveva compreso che l'unico modo era fingersi docile e collaborativa, prima credevano che fosse guarita (anche se lei non era malata, erano gli altri che non lo capivano) e prima poteva uscire da quell'inferno. Dopo tre mesi era tornata a casa e la sua bilancia segnava cinquantasei chili. Aveva comunque deciso di non perdersi d’animo ricominciando da capo, nel corso dell’inverno era riuscita a perdere dieci chili e a dimenticare quel posto orribile. Fu davvero felice leggendo il programma datole da Sally di notare che non assomigliasse in nulla a quello dell’ospedale.
Però aveva frequenti visite mediche di ogni genere, ogni due giorni doveva vedere la psicologa della scuola e certi corsi che aveva scelto erano stati cancellati e sostituiti da altro. Guardò con odio il corso di cucina che compariva al posto di quello di nuoto.
“Era proprio necessario?” si lamentò riguardo a quei cambiamenti. Oh, c’era pure uno stupido corso sull’autostima.
La signora Jackson si strinse nelle spalle. “Abbiamo comunque tentato di non stravolgere troppo e lasciarlo il più possibile uguale a quello che ti eri scelta”.
Calypso dovette fare uno smorzo immane per non gonfiare le guance offesa e pretendere che la lasciassero in pace, annuì e basta cercando di capire se c’era un modo per evitare certi corsi senza essere beccata. Chirone aveva parlato di punizioni e lei voleva mantenere un profilo basso.
“Va bene” disse con un filo di voce e inghiottendo tutto il disappunto. Sally le mise una mano sulla spalla e la guardò piena di fiducia.
“Ti troverai bene qui” le promise. Era la centesima persona che glielo diceva in appena due giorni.
Appena la donna fu a distanza di sicurezza e i suoi compagni che per tutto il tempo avevano finto neanche troppo bene di farsi gli affaracci loro si gettarono su di lei per sapere quali importanti segreti si fossero scambiate le due.
Nico aveva ragione, sono delle pettegole, si rese conto mentre Percy le sfilava senza chiedere il foglio con il suo orario dalla mano o lo fissava.
“Ti hanno cambiato alcuni corsi?” le chiese.
 “Perché devi fare tutte queste visite? Hai problemi di salute?” domandò Annabeth spiando da dietro le spalle del ragazzo.
“Fate vedere, fate vedere” si dimenò Rachel saltellando.
“Cambiato i corsi? Spero non quello di botanica, mi sarebbe piaciuto farla insieme a te” disse invece Hazel alzandosi sulle punte per sbirciare. Frank si limitava a fissarla curioso.
“Hai molte ore dalla psicologa Estia” notò Reyna accigliandosi. Al che Calypso arrossì e cercando di fingere indifferenza annuì, poi aggiunse per rispondere ad Annabeth:
“Non proprio, ma mi ammalo facilmente e ho la pressione bassa” mentì decidendo di prevenire domande in caso di futuri svenimenti, quando aveva lo stomaco tanto vuoto ed era sfinita le capitava.
Rachel si allontanò scherzosa. “E non è contagiosa, vero?”
La battuta fece ridere tutti, anche lei accennò un sorriso, poi Annabeth prese il controllo della situazione. “Forza, si sta facendo tardi. Dobbiamo andare ai corsi”
 
**
 
Nico se ne stava affacciato alla finestra del corridoio con le braccia appoggiate sul davanzale a guardare i ragazzi della scuola partecipare agli sport in giardino. In teoria avrebbe dovuto essere lì con loro, in pratica non si era nemmeno sforzato di segnare il proprio nome per qualche corso. Era rimasto tutta la mattina in camera a dormire e a giocare con i videogiochi, era sceso a pranzo solo per mangiare e adesso voleva approfittare dei corsi per fare una passeggiata tra i corridoi in perfetta solitudine.
Solitudine...
Jason, Percy, Hazel e perfino Reyna lo rimproveravano di questo suo atteggiamento schivo, loro non volevano che restasse solo ma quello che non capivano era che Nico non era mai solo, non poteva nemmeno volendo restare da solo. Scoccò uno sguardo all'ombra del suo campo visivo senza nessuna emozione, ormai abituato a vederlo.
Il fantasma lo guardava con un sorriso serafico, ovviamente aveva capito subito cosa stava pensando. "Non possono capirti" gli ricordò "Al massimo possono fingere di farlo".
Si chiamava Minosse e lui diceva di essere l'antico re di un antica isola caduta in disgrazia perché la figlia lo aveva tradito. Non sapeva esattamente cosa ci facesse lì in America e nemmeno perché lo seguisse ovunque, ma la paura iniziale era del tutto passata. D'altro canto ormai vedeva i fantasmi dei morti da quando sua madre e sua sorella erano morte e la cosa aveva perso ogni sorpresa, vedere i morti camminare fra i vivi era la normalità per lui. E in fonda era felice che Minosse fosse sempre con lui, lo aiutava sempre dandogli consigli. In fondo, i morti potevano capire la sua solitudine meglio di chiunque altro.
"Perché siamo qui?" domandò il re fantasma agitandosi, non era trasparente, sembrava fatto di carne e sangue ma quando lo toccava si accorgeva che aveva la consistenza delle ombre.
Fece spallucce. "Aspetto Valdez e Grace, fra poco è il nostro turno per i controlli in infermeria" il viso si distorse in una smorfia di insofferenza, odiava andare in quel posto. Minosse lo capì al volo.
"Non sei costretto ad andarci" gli fece notare. Il ragazzino accarezzò l'idea piacevole di tornare nella propria stanza e restare lì per il resto del pomeriggio ma poi pensò alla predica che Jason gli avrebbe fatto, non voleva che si preoccupasse per lui.
"No, vado. Tanto c'è la mamma di Percy, è gentile" ricordò.
"Parli da solo?"
Nico sussultò perché si era aspettato la voce giocosa di Valdez, ma quella era più chiara e ferma, sicura e maschile. Si girò verso il nuovo arrivato. Era una delle magliette arancioni, un ragazzo poco più grande di Percy dai capelli biondi e una abbronzatura da Californiano che faceva risaltare gli occhi azzurri come due pietre opalescenti. Doveva essere uno nuovo perché  non l'aveva mai visto. In ogni caso, in risposta alla sua domanda scrollò le spalle deciso di ignorarlo finché non se ne fosse andato.
"Cosa fai qui, non dovresti essere ai corsi?" gli chiese la maglietta arancione e vedendo che non rispondeva, continuò "Lo sai che è vietato saltare i corsi?"
Alzò gli occhi neri come l'inchiostro al cielo scocciato prima di dire stizzito. "Aspetto dei miei compagni di stanza. Abbiamo il turno per l'infermeria. Lo sai, i controlli" disse imitando il su tono di voce da maestrina. Quello lo guardò scettico.
"Sto andando proprio lì. Ti accompagno subito".
Con un gesto stizzito e brusco Nico si staccò dalla finestra premurandosi di guardarlo male. "Grazie, ma conosco la strada" disse senza nessuna gentilezza nella voce. Lo superò deciso ad aspettare i due compagni davanti all'infermeria, fortunatamente non lo seguì.
"La gente deve sempre impicciarsi" borbottò Minosse e lui fu estremamente d'accordo, insomma aveva scritto in faccia 'non parlate con me, lasciatemi stare', perché la gente non lo faceva mai?
 
Leo e Jason lo raggiunsero dieci minuti dopo che lui arrivò alla porta, ovviamente erano in ritardo e questo dimostrava che non era colpa sua se i due facevano sempre tardi. Motivo per cui quando arrivarono scoccò loro un'occhiata infastidita, Leo aveva i pantaloncini corti e le ginocchia completamente sporche di terra per non parlare dei capelli ricci incollati alla fronte. Jason aveva solo la maglia sudata e attaccata al petto largo. Uno dei tanti motivi per cui a Nico non piacevano gli sport.
Jason fece per aprire la bocca, sicuramente per scusare il ritardo ma Nico non gliene diede tempo aprendo la porta e infilandosi dentro.
Leo lo guardò profondamente ferito. "Ingrato" disse in tono melodrammatico posando una mano sul cuore, Jason si limitò a fissare la sua schiena che entrava dentro la stanza chiedendosi cosa avesse fatto di male adesso. Lo seguirono scambiandosi uno sguardo.
L'infermeria era un posto semplice dai muri bianchi e le mattonelle quadrate lucide e brillanti, una fila di letti la costeggiava  fino alla zona destinata all'ambulatorio. Sally li aspettava già lì mentre una maglietta arancione con un camice bianco sopra l'aiutava a sistemare il lettino e i vari strumenti usati poco fa.
"Ciao" li salutò ricevendo un coro di Salve, signora Jackson che fece voltare la maglietta arancione. Nel vedere il suo volto se possibile Nico si accigliò ancor di più.
"Allora non mi avevi raccontato una balla, stavi davvero venendo qui" si stupì.
Nico grugnì in risposta.
"Will!" lo riprese Sally "Non usare certe parole"  poi fece un sorriso bonario agli altri ragazzi. "Lui è Will Solace, ha studiato medicina e quindi mi aiuta qui in infermeria. Mentre finisco di sistemare andate da lui per le solite cose. Sapete, le domande di routine".
Leo si scambiò con gli altri uno sguardo che significava solo una cosa: aveva in mente qualcosa di assolutamente divertente (Questo secondo lui, Nico non ne era tanto sicuro).
"Inizio io!" disse appunto alzando una mano come un bimbo lagnoso "Io! Io!"
Will sbatté le palpebre preso completamente contropiede. "Va bene" acconsentì e subito iniziò a cercare fra delle schede su un tavolino.
"Leo Valdez" lo precedette indovinando cosa stesse per chiedergli, il sorriso furbetto non abbandonava il suo volto.
Will annuì senza alzare il viso della carte mentre cercava la sua scheda, quando la trovò la sistemò in ordine sopra le altre e prese una penna iniziando già a segnare alcuni punti automatici.
“Anni?” aveva una voce molto professionale e sicura ma questo non sembrava intimorire in qualche modo il messicano.
“Diciotto” disse mettendo le mani nelle tasche dei calzoncini e vantando un sorriso da mascalzone.
Will si limitò ad un’occhiata scettica al suo corpo magrolino prima di scarabocchiare quattordici. Leo lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite.
“Ehi!” sbottò offeso.
“Tu non puoi avere diciotto anni” gli spiegò con tranquillità.
“Ma  non ne ho nemmeno quattordici! Sono sedici. Se-di-ci!” sillabò.
Will fece un sorrisetto e poi corresse quanto scritto in precedenza, con la penna indicò un metro attaccato alla parete bianca e con voce sicura, probabilmente convinto che il riccio non gli avrebbe più tirato tiri mancini, disse solo: “Altezza?”
“No, tranquillo. La gente preferisce chiamarmi Maestà”.
Ci volle qualche secondo prima che il biondo capisse la battuta e lo fissasse prima basito spalancando pure la bocca e poi lo incenerisse con un’occhiataccia.
“Puoi essere serio, per favore?” sibilò.
 “Eh, se me lo chiedi con quegli occhioni...” acconsentì con magnanimità. Sia Nico che Jason che la signora Jackson gli rivolsero uno sguardo intimidatorio e allora si diresse con docilità verso il metro per lasciarsi prendere le misure, purtroppo aveva un righello di misurazione europea quindi dovette aspettare il verdetto di Solace.
“167 centimetri” borbottò il biondo, poi aggiunse ad alta voce “5’6’’”
Leo alzò le braccia in segno di vittoria. “Evvai! Sono cresciuto un pochino” la sua esuberanza fece sollevare gli occhi azzurri di Will al cielo.
“Ok, adesso passiamo al peso” dopo aver segnato il numeretto e appena lo disse Leo salì sulla bilancia completamente vestito e con le scarpe facendolo accigliare. “Dovresti spogliarti” gli fece notare pignolo.
Leo alzò le mani davanti in segno di resa. “Senti, bello. So che sono una meraviglia della natura, ma non ti sembra di correre tropp? Mi vuoi già vedere bello come mamma m’ha fatto?”
Jason si spiaccicò una mano alla fronte vergognandosi per lui, Nico si limitò a spostare lo sguardo disinteressato ma maledicendo comunque Valdez che gli stava facendo perdere tempo con le sue pagliacciate.
“Prego?” fece Will sicuro di aver travisato le parole del ragazzino, poi scosse la testa deciso a ignorarlo e ripeté: “Potresti spogliarti?”.
“Io non mi spoglio per soddisfare i bisogni di un vecchio pedofilo frocio” continuò cocciuto Valdez incrociando anche le braccia per dare più enfasi alla sua presa di posizione.
Il biondo serrò le dita sulla penna e digrignò i denti. “Smettila di giocare” il suo tono di voce si era fatto gelido e lo sguardo minaccioso.
“Tzé” commentò per nulla intimorito, anzi dovette sforzarsi per non ridergli in faccia. Dovette intervenire la signora Jackson affinché Will non compiesse un Valdezcidio.
“Basta, così” disse perentoria rivolgendo un’occhiataccia a Leo “Will, occupati di Jason e Nico. Tu, vieni con me” aggiunse verso il riccio indicando con un gesto una porta per un ambulatorio più piccolo e privato.
“Agli ordini, signora!” scattò sull’attenti con una mano alla fronte come se fosse un soldatino, un soldatino molto ridicolo, poi zampettò fino all’altra stanza sotto lo sguardo severo di Sally.
“Ma signora...” protestò Will sconfortato ma lei lo tranquillizzò con un sorriso.
“E’ Leo Valdez, devi prenderlo con polso fermo” gli spiegò “Non preoccuparti, con loro te la caverai egregiamente” e seguì l’ispanico nell’altra stanzina.
Will aveva sul volto uno sguardo imbronciato leggermente adorabile, poi sospirò sconfortato e volse gli occhioni azzurri verso gli altri due ragazzi.
“Chi vuole per primo?” domandò ancora tentando di riprendere il controllo sui propri nervi. Sì, se non eri abituato a trattare con Leo poteva diventare davvero estenuante, Nico poteva capirlo molto bene visto che erano compagni di stanza da secoli.
“Vengo io” acconsentì il corvino che non vedeva l’ora di tornarsene nella sua camera al buio.
“Tu sei...?”
“Di Angelo. Nico Di Angelo” e cercò di ignorare come meglio poteva lo sguardo stupito che gli rivolse l’aspirante dottore. Cercò anche di nascondere senza successo il proprio rossore perché purtroppo Jason lo notò e iniziò a ridacchiare sotto i baffi.
 
 
L’ambulatorio privato era una stanza piccola dalle pareti verde chiaro che sfumavano verso il bianco man mano che lo sguardo saliva verso il soffitto, una delle lampade a neon era fulminata, per lui sarebbe stato un gioco da ragazza aggiustarla se solo avesse avuto un cacciavite e una scala. A riempire gli spazi erano i pochi mobili presenti anche nell’altra stanza: un lettino spartano, una bilancia con il metro, una scrivania e una dispensa per le medicine e i vari utensili. In fondo alla stanzetta c’era anche un letto d’ospedale ma al momento non poteva essere visto perché nascosto da una tenda bianca, lui lo sapeva esserci perché quando aveva preso la varicella lo avevano trasferito lì.
“Dovresti evitare di dire certe cattiverie alle persone” gli fece notare la signora Jackson chiudendo la porta che li collegava agli altri, in mano teneva la sua cartellina clinica.
Leo sollevò una sopracciglia seguita da un angolo della bocca in un sorriso un po’ sbilenco. “Stavo solo scherzando” si schernì.
“Tu prendi sempre in giro tutti, come se non ti importasse dei loro sentimenti” gli fece notare guardandolo con sguardo severo.”Sembra che a te scivoli sempre tutto addosso, ma non siamo tutti come te. Devi essere più gentile”.
“Uhm, l’ho già sentita questa” borbottò distogliendo lo sguardo e corrucciando le sopracciglia. La signora Jackson, dopo sua madre si intende, era la donna più buona e bella che avesse incontrato: era gentile e con un cuore grande ma nonostante questo aveva un polso di ferro e sapeva farsi rispettare. Era impossibile non volerle bene, molti dei ragazzi lì spesso avevano sognato che lei fosse la loro madre. Sally Jackson era stata la moglie di uno dei tre fratelli che avevano costruito quel posto, ovvero Poseidone Olympus, ma a differenza degli altri due signor Olympus Leo non lo aveva mai potuto conoscere perché, quando Percy era ancora piccolo, il signor Poseidone era caduto vittima di un incidente marino che lo aveva portato ad uno stato di coma molto profondo dal quale i dottori dicevano si sarebbe risvegliato con scarse probabilità. Nonostante questo dolore la donna aveva continuato a portare avanti la famiglia permettendo a Percy di avere una vita felice e lavorando in quel grande College costruito dal marito con tutta la sua forza d’animo e determinazione. Sally Jackson era la miglior cosa che potesse capitare a quella scuola, una benedizione, perché lei conosceva i segreti di tutti e sapeva mantenerli. Per questo aveva preferito portare Leo nell’ambulatorio privato, perché conosceva il suo segreto.
“Coraggio, spogliati” lo spronò mentre apriva i vari stipetti e tirava fuori alcuni strumenti dandogli la schiena. Dandogli volontariamente la schiena in mondo che potesse prendersi tutto il tempo del mondo senza essere troppo a disagio.
Leo si era spogliato molto volte davanti allo specchio o alle ragazze, ma sempre con la luce spenta perché al buio il dolore non si vede e se non si vede si può fingere che non ci sia. Solo due persone lo avevano visto con la luce accesa, una gli aveva chiesto con gentilezza di non farlo più, l’altra era scappata via ferendolo.
Giocò distrattamente con il bordo della maglietta sudata prima di sedersi sul lettino e slacciarsi le scarpe con lentezza, disfò le ciocche e le scalzò, poi tolse i calzini bianchi restando con i piedi nudi. Li fece dondolare come un bambino imbronciato leggermente ingobbito studiando di sottecchi le spalle della signora Jackson, poi serrò gli occhi e afferrò i bordi della maglietta. La tolse con un gesto secco e la buttò per terra dispettoso.
“Anche i calzoncini?” domandò fissando ostinatamente le lampade in neon sul soffitto.
“Non occorre, vai pure e dimmi tutto” lo rassicurò.
Lui annuì anche se non poteva vederlo e scese dal lettino dirigendosi verso la bilancia, attese che i numeri smettessero di vorticare poi riferì il risultato alla donna che lo segnò con attenzione. Si girò a guardarlo solo quando Leo era tornato a sedersi sul lettino, dondolava ancora le gambe e la guardava con un misto di aspettativa e senso di colpa perfettamente leggibile sul suo viso.
Leo Valdez aveva un corpo magrolino, il torace era sudato per l’attività fisica appena compiuta e ossuto, si potevano intravedere gli addominali e il contorno di qualche altro muscolo ma non era particolarmente possente da quel punto di vista. Gli occhi apprensivi di Sally si soffermarono su ogni cicatrice o bruciatura che riempiva il suo torace, sembrava un quadro pieno di schizzi rossi violenti, lui continuava a spiarla in attesa di una reazione di qualche tipo ma come al solito la donna si limitò a sospirare, prendere lo stetoscopio e andargli alle spalle per appoggiarlo sulla sua schiena. Quello era l’unico punto del ragazzo libero di ferite, se non una spalla leggermente ustionata, perché lì con le mani non ci arrivava.
La carne era rovinata in più punti, la pelle bianca delle cicatrici più vecchie spiccava in rilievo sulla pelle leggermente scura e le croste di sangue rappreso verranno sbriciolate quando il prurito diventerà troppo forte. Le ferite più profonde erano chiuse male ed erano slabbrate, rosso scuro, pronte a riaprirsi per vomitare sofferenza. Alcune cicatrici erano metodiche, in alcuni punti erano perfettamente parallele come se avesse preso le misure con il righello, strisci rossi e lunghi, quelle più profonde erano più larghe con i contorni rosa acceso dove la cute si era irritata.
In altri punti erano irrazionali come se il dolore fosse stato improvvisamente troppo forte per poterlo ordinare in qualche modo, andavano in tutte le direzioni, si sovrapponevano e dove i due tagli si incontravano a vicenda si erano aperti buchi rossi. Faceva male anche solo guardarle.
Sally posò il dito su una recente, leggermente frastagliata come se la lama si fosse incastrata, e ne seguì la breve lunghezza. Leo sobbalzò, il suo cuore nello strumento accelerò. Leo non stava quasi mai in silenzio, aveva sempre una battuta pronta per schernirsi, per sdrammatizzare o minimizzare la situazione ma in quel momento restava zitto sentendo lo sguardo della donna bruciare ogni angolo della sua carne più dolorosamente di quanto potesse fare l’accendino che teneva sempre in tasca.
“Credevo non l’avresti fatto più” disse alla fine quando tolse lo stetoscopio e tornò a metterlo via.
“Avevo detto che ci avrei dato un taglio” e rise malizioso ma con gli occhi vuoti. Dare un taglio all’autolesionismo, ahaha. Capito il gioco di parole?
Non è divertente, Valdez.
“Parlo sul serio” disse lei senza risultare brusca, solo preoccupata come dovrebbe esserlo una mamma quando il proprio figlio ha quasi fatto un incidente con la macchina.
 Leo avrebbe voluto dire che non è una cosa che può fare e basta, avrebbe potuto provarci ma non era una cosa che poteva garantire poi tanto. Si cresce convinti che ci sia il bianco e il nero, il bene che combatte sempre il male. Il buono è un eroe che brandisce spade lucenti contro le forze delle tenebre che cercano di soggiogare il mondo con la loro oscurità, tutti i bambini vogliono essere un eroe. Lo stesso valeva per Leo che in fondo nonostante i sedici anni era ancora un bambino che voleva combattere i cattivi e permettere al bene di trionfare. Ma quando il male viene da dentro di te come fai a combatterlo?
La prima volta che la signora Jackson aveva visto tutti i lividi, le ustioni e le cicatrici preoccupata aveva chiesto chi fosse stato a picchiarlo. Aveva già in testa una mirabolante storia di lui che veniva bloccato in un vicolo cieco da teppistelli di strada armati di coltelli alti due metri ma poi aveva soltanto scrollato le spalle con un sorriso impertinente. “Me stesso”.
Per un breve attimo aveva temuto che la donna potesse chiamare qualcuno, il direttore, un insegnante o la psicologa per gestire la situazione; invece era stata zitta a fissarlo critica prima di iniziare a disinfettare tutte le ferite e ricucire le più gravi. Non era una vera dottoressa, ma ne sapeva abbastanza da poter stare nell’infermeria a sistemare lesioni del genere.
“Perché?” aveva chiesto come se bastasse solo quello a far tornare il corpo del ragazzo pulito come una tela bianca, non aveva risposto. Occorre davvero un perché per spiegare tutto quello? Leo credeva di no.
“Forza e coraggio” la voce di Sally eruppe cristallina nell’aria spezzando la tensione “Se facciamo veloce riuscirai a partecipare senza problemi all’ultimo corso della giornata”
 
**
Calypso non voleva essere lì. Né nel corso né nella scuola né in quella stato a dirla tutta, al momento il suo più grande desiderio era rubare le chiavi della macchina di qualcuno e scappare via, poco importava se non sapeva neppure guidare. Al massimo si sarebbe messa a correre, ecco correre era una cosa buona: avrebbe perso calorie nel farlo.
Con il meno appoggiato sul palmo della mano lanciò uno sguardo fuori dalle grandi vetrate dove i raggi del sole filtravano fra le foglie di un melo. L’insegnante era entrato da poco ma aveva già preso a parlare.
Corso di pasticceria, il luogo dove le avrebbe insegnato come costruire torte ripiene di calorie che avrebbe assunto anche solo guardandole.
Sì, Calypso in quel momento voleva suicidarsi sbattendo ripetutamente la testa sul tavolo. Ne aveva scelto uno vicino alle grandi vetrate che ornavano un lato della stana-cucina che gli aspiranti cuochi – con i quali lei non voleva avere nulla a che fare – occupavano per i loro grassi e calorici lavori; era in fondo, lontano il più possibile dall’insegnante e la grande lavagna alle sue spalle e aveva accuratamente guardato male chiunque aveva tentato di sedersi vicino a lei per nulla bendisposta verso l’umanità. Sul ripiano da lavoro era stata adibita una piccola cucina con tanto di fornelletti elettrici, lavandino, pentole e altri strani arnesi. Calypso non aveva mai cucinato in vita sua, quello era un lavoro che aspettava ai servitori e sua madre non le aveva mai chiesto di preparare una torta insieme a lei. Figuriamoci, la signora Nightshade che si sporca le mani con la ferina e il tuorlo dell’uovo è credibile quanto un asino volante.
“Oggi è il primo giorno del corso estivo e tra noi abbiamo molte facce nuove” diceva intanto il piccolo insegnato dalla pelata lucida e una voce stridula “Sono felice di vedervi qui nel nostro corso, spero possiate trovarvi a vostro agio e...”
Blablabla. Non c’era un modo per spegnerlo? In un momento di esasperazione acuta sprofondò con la testa fra le braccia sul tavolo serrando decisa gli occhi sperando che con la vista se ne andasse anche il senso dell’udito. Purtroppo nell’oscurità poteva sentire chiaramente ogni rumore così oltre a quella vocina stridula percepì anche il cigolio della porta che si apriva, qualche passo e il tonfo della porta che si richiudeva secca.
“Signor Valdez!” interruppe l’insegnante la sua tiritera e Calypso alzò di poco la testa dalle braccia giusto per sbirciare con un occhio il ragazzo ricciuto con una mise sportiva e sudata sull’uscio.
“Mi scusi, capitano” sorrise rilassato il sedicenne con un sorriso sbruffone “Ho avuto qualche contrattempo. Sa, c’era questa bella fanciulla che non trovava la strada per la sua prossima aula e io non potevo venire a meno dei miei doveri da cavaliere così l’ho coraggiosamente scortata. Come dire, era così desiderosa di ringraziarmi che non potevo fare altrimenti, ma sa: non mi aspettavo un tale ardore, aha-ha” e per spiegare ancora meglio quello che aveva lasciato sottointeso nell’ultima frase fece ondeggiare oscenamente il bacino e alzò maliziosamente le sopracciglia. “Ha presente, prof?” aggiunse facendo scoppiare a ridere alcune delle persone nella classe. Calypso si limitò a nascondere la testa fra le braccia nuovamente.
“Tollero questo ritardo e la vostra indecenza soltanto per esasperazione. Ma la prossima volta ti mando a pulire le cucine, sono stato chiaro?”
“Agli ordine Capo-Chef!”
L’uomo pelato borbottò altre parole che non capì, poi aggiunse. “Va a sederti nel posto libero. Quello là in fondo”
Ci mise qualche secondo a capire a quale posto si riferiva, precisamente quando sentì qualcuno scostare lo sgabello girevole accanto a lei. Alzò di scatto la testa trovando il volto sorridente di Leo vicino.
“Ma salve, Raggio di Sole!”
Gli scoccò un un’occhiata malevola rizzando la schiena e allontanando un poco la sedia trascinandola sul pavimento.
“Vedo che come tuo solito sprizzi gioia da ogni poro alla mia vista. Mi raccomando, tutto questo entusiasmo potrebbe lasciarmi ustionato. Sei così amichevole con tutti o è uno speciale trattamento che elargisci solo a me? Tranquilla, non sono un tipo geloso. Condivido volentieri le mie gioie con altri più sfortunati” sproloquiò con sentito sarcasmo.
“Se il signor Valdez ha finito di socializzare” lo interruppe dal suo monologo la vocetta dell’insegnante che per tutto il tempo lo aveva fissato con sguardo rassegnato “Stavo appunto dando le indicazioni per il lavoro di oggi”.
“Si figuri, nessun disturbo” lo rassicurò Leo alzando una mano come se lo stesse benedendo “Vada avanti e illumini il mondo con il suo verbo”.
L’ometto roteò gli occhi, poi riprese a parlare da dove era stato interrotto. “Essendo la prima lezione non ho intenzione di darvi incarichi troppo difficili. Anzi, vi chiedo di scegliere un dolce a vostra scelta da presentare alla classe. Potrete scegliere voi, purché sia un dolce!” li guardò severo, poi sospirò solenne “ Lavorerete con il compagno che avete al vostro fianco e avete tempo fino alla fine della lezione. Mi raccomando: non avvelenate nessuno!” chissà perché ma l’ultima raccomandazione sembrava essere rivolta proprio a Valdez. Il quale con un sorriso preoccupante –uno di quelli che ti suggerisce di non lasciare a portata qualcosa di infiammabile a un piromane, per intenderci—fece ruotare lo sgabello per guardarla senza dover girare la testa e disse con sentito trasporto. “Compagna”.
Calypso si limitò a fare un verso di disappunto, ormai il suo odio per quel posto era cresciuto a livello esponenziale.  Il ragazzo sorrise come se dalle sue labbra fosse uscito un singulto di gioia che di disgusto, poi si fece serio. Allegramente serio, ma comunque era già un miglioramento rispetto prima.
“Ok, bisogna scegliere qualcosa di fatto bene” disse come se stesse progettando delle strategia di guerra. “Non possiamo scegliere un dolce a caso, e non dobbiamo fare nemmeno qualcosa di troppo semplice. Dobbiamo vincere questa competizione”
“Non sapevo fosse una gara” aggrottò la fronte confusa.
“Tutto in questa vita è una gara” annunciò solenne “Una gara di vita e morte”
“Smettila di scherzare” si accigliò seccata, se Leo aveva contato bene lei era la decima persona che glielo diceva nel giro di una giornata.
“Congratulazione, hai appena vinto un premio!” le informò allegro, poi si toccò con un dito la punta del naso pensoso. “Dunque, tu sei vegetariana... Dobbiamo fare un dolce vegano” annuì come se avesse trovato la soluzione e iniziò a sfogliare il ricettario di dolci appoggiato sul ripiano da lavoro. Calypso non lo aveva nemmeno visto.
“Ma vegani e vegetariani non sono due cose diverse?” chiese confusa.
“Ehi, sono lo stesso della stessa razza” fischiettò mentre voltava le varie pagine di buon umore. Si perse a fissargli i ciuffi più corti che si arricciavano sulla base della nuca.
Torta vegana ai frutti rossi” lesse improvvisamente con tono esaltato “Questa qui mi ispira, tu che ne dici?” strinse la copertina fra le dita mettendo il segno
“Ehm...”
“Perfetto” disse senza darle tempo materiale per ribattere e lesse gli ingredienti, poi annuì fra sé “Dovremmo avere tutto nella dispensa. Aspetta qui” e si alzò senza lasciarle ancora una volta la possibilità di protestare. Sbuffò scocciata, aveva anche portato il ricettario con sé quindi non aveva assolutamente nulla da fare.
Odiava quel corso e ancora di più odiava quell’omuncolo maleducato!
Quando Leo fu di ritorno dispose con ordine maniacale ogni ingrediente sul ripiano, continuava a fischiettare la stessa melodia di poco prima e aveva lo sguardo acceso di aspettativa. Doveva piacergli molto cucinare, considerò.
 
“Ok, prima cosa: mani” disse e le mise sul ripiano con i palmi rivolti verso l’alto in bella mostra, Calypso lo imitò velocemente e Leo le studiò con moderata curiosità. Se le era aspettate lisce delicate come quelle di una nobile principessa invece erano un poco callose e con qualche piccola vescica e aveva le unghie un po’ sporche di terra umida. Non che lui potesse vantarsi di avere mani migliori, erano callose con piccoli taglietti sui polpastrelli e molto, ma molto sporche. In fondo aveva avuto anche il corso di meccanica quella mattina.
“Ok, bisogna lavarle!” disse contento come un bambino e aprì il rubinetto per sciacquarsele. Calypso lo imitò con la testa inclinata leggermente di lato per la curiosità, aveva legato i capelli chiari indietro in una elegante coda di cavallo che faceva risaltare i suoi occhi a mandarlo come se fossero ancora più grandi, sottostare al suo sguardo lo metteva un poco in soggezione.  Sì, Calypso era davvero carina, peccato avesse sempre quell’espressione schifata quando lo guardava.
Quando le mani furono linde e pulite si mise subito a dare ordini. “Allora, sai prepara la confettura di bacche di goji?” chiese studiando la ricetta.
“Bacche di cosa?” domandò confusa mentre si asciugava le lunghe dita.
“Uhm, fa niente. Allora, tu devi fare questo: prima metti i frutti rossi dentro dell’acqua tiepida così li ammorbidiamo e poi sciogli lo smalto dei mais mettendoli in bagnomaria finché non sono ben morbidi. Aspetta” fu colto da un dubbio atroce “Sai cosa vuol dire bagnomaria, vero?”
Calypso gli rivolse un’occhiataccia. “Mi hai presa per stupida?”
“No, no” assicurò con un sorrisetto. “Bene, al lavoro” annunciò facendo il gesto di rimboccarsi le maniche. Calypso era una buona aiutate, capiva tutte le direttive e dopo un po’ iniziò a seguire la ricetta senza che le spiegasse ogni volta cosa fare, era precisa e veloce. Peccato fosse così silenziosa e continuasse a guardarlo male di tanto in tanto, specialmente quando le rivolgeva qualche battutina per far avviare una conversazione. Fischiettò un altro motivetto mentre mescolava energeticamente l’impasto dentro la ciotola e quando fu ben amalgamato fece aggiungere da Calypso il resto degli ingredienti.
Una volta finito il tutto versarono l’impasto in una teglia circolare ricoperta da carna da forno e poi la infornarono facendo attenzione a non farla cadere. Leo inserì una temperatura statica di centosessanta gradi.
“Fatto. Ora dobbiamo solo aspettare quaranta minuti” la informò totalmente rilassato. Con le dita tamburellò sul tavolo ma a un ritmo diverso da quello che stava fischiettando, erano dei battiti precisi come se stesse scandendo delle lettere. Quando era piccola sua madre gli aveva insegnato il codice morse, cose semplici per comunicare, era tipo il loro linguaggio segreto; Leo lo usava ancora ticchettando di tanto in tanto “I love you” come se sua madre potesse ancora sentirlo. Pensare a sua madre fece scivolare un’ombra sul suo viso e per distrarsi tirò fuori l’accendino dalla tasche dei calzoncini iniziando a far scattare distrattamente poche scintille mentre Calypso iniziava a ripulire il ripiano di lavoro. Attirata dallo sferragliare dello scatto di fermò a fissare cosa stesse facendo, il suo sguardo corrucciato sembrò essere catturato dall’oggetto, in effetti era lo stesso accendino che aveva usato la sera prima sul tetto.
“Che cosa ci facevi ieri sera lì?” gli domandò infatti.
“Te lo ho detto: segreto” ripeté usando lo stesso tono misterioso e fece scattare la fiamma dell’accendino ridacchiando. Calypso adesso lo stava guardando in cerca di un contatto diretto con i suoi occhi, come se volesse usarli per spiargli dentro l’anima. La cosa lo mise a disagio.
“Che fai?” domandò.
Lei continuò a fissarlo penetrante per un altro secondo, prima di scuotere la testa e volgere lo sguardo dalla parte opposta. Gli venne in mente il momento in cui si erano ritrovati vicinissimi e con la fiamma degli accendini a raschiare i loro volti, era stata una cosa strana come se in quel momento avesse davanti una ragazza diversa da Calypso. L’idea lo turbò allora mise le mani dentro le tasche dei calzoni iniziando a tirare fuori vite e bulloni, le dita si muovevano da sole in automatico mentre lui si lasciava trasportare dai suoi pensieri.
Il timer del forno squittì un secondo dopo che l’insegnante aveva dato lo stop. Velocemente tirarono fuori la teglia armati di guanti da cucina e l’appoggiarono sul bancone da lavoro perfettamente pulito.
L’insegnante decise che ad assaggiarli per primi dovessero essere i creatori dei dolci, probabilmente temeva davvero una morte per avvelenamento; Leo preso un lungo coltello e appoggiò la punta sulla torta, aveva un colore caldo e il guscio leggermente screpolato, alcuni dei frutti rosso che avevano inserito si notavano. La ragazza fece un sorriso educato e scosse la testa. “No, per me niente. Grazie”
Alzò un sopracciglio scettico. “Andiamo, l’abbiamo fatta assieme” cercò di convincerla “E’ la nostra torta.” E per dimostrare di quanto fosse fiero di averla fatta si ritagliò una fetta enorme.
“Non vorrei rovinarmi l’appetito” mormorò. Quell’improvvisa inclinazione educata nella sua voce metteva i brividi a Leo, era fintissima e inquietante.
“Una fetta non ha mai ucciso nessuno” e la guardò con tanto d’occhi “Andiamo, non ti convincono nemmeno i miei occhioni color caffè?” e per amplificare la cosa sbatté ripetutamente le ciglia. Sembrava che qualcosa gli fosse scivolato nell’occhio però ottenne il risultato di farla ridere; soddisfatto ritagliò una fetta fina dalla torta e gliela porse con un sorriso sincero.
“Dai Raggio di Sole, con questa non ti rovinerai l’appetito”.
Calypso abbassò lo sguardo sulla piccola fetta, attraverso le lunghe ciglia riusciva a intravedere uno sguardo colpevole mentre l’afferrava con le dita titubante.
“Me lo prometti?” tentò di scherzare anche se la voce le tremava leggermente.
Leo inclinò la testa chiedendosi che cosa non andasse in quella ragazza ma annuì con un sorriso convinto. “Ti prometto anche la luna” fischiettò. “Non ti rovinerai all’appetito. Questa sera potrai mangiare la tua erbivora cena in tranquillità”.
Eppure, qualche ora più tardi, Leo non la vide nella mensa, nemmeno quando setacciò l’intera stanza con lo sguardo. A cena non c’era nessuna traccia di Calypso.
 
 
 
Chiedo venia per il mio ritardo di un giorno T_T ma ieri non mi ero resa conto che fosse sabato, tutta colpa dell’estate! Ma eccolo qui, prometto di essere più puntuale in futuro.
Comunque, piccola parentesi doverosa.
Autolesionismo. Già. Come i due di voi che hanno recensito avevano supposto – credo. Non sprecherò parole vuote perché quello che avevo da dire lo ha già fatto Leo, spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno trattando la cosa in maniera così... semplice? Ma in verità alla fine è una cosa semplice. Sicuramente Leo risulta oltremodo OOC con questo ma spero di averlo reso comunque in un modo abbastanza in linea con il personaggio, non vorrei renderlo troppo una forzatura.
E niente, questa è la realtà che ci piaccia o meno. A me non piace e credo nemmeno a voi.
Lasciando da parte argomenti depressivi....
 Finalmente è comparso Will e ha interagito con Nico! Lo so, non è molto ma a differenza di un certo scrittore non voglio affrettare le cose (Sì, Rick, sto parlando con te). In futuro ci saranno molti sviluppi tra i due, già nel prossimo capitolo. Non vedo l’ora di scriverlo, penso che il prossimo sia uno dei miei capitoli preferiti  *^*
La ricetta usata da Leo e Calypso è questa: http://www.vegolosi.it/ricette/torta-vegana-ai-frutti-rossi/
Ho visto che in parecchi state seguendo la storia, ma allora perché le recensioni sono così poche? Dai, dai! Fatevi sentire e fatemi felice. Ho un sacco di biscotti e abbraccia virtuali per voi c:
A presto,
Hatta.
   
 
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