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Autore: were_all_dead_now    06/08/2016    5 recensioni
Quando vai a scuola, nessuno ti insegna a vivere.
Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
[...]
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vi lascio un nuovo capitolo (stralungo). Credo sia importante. Ringrazio le tre persone che hanno recensito il precedente aggiornamento. 
Mi dispiace se in questi ultimi mesi sono stata assente e mi dispiace se questo vi abbia spinto ad abbandonare la storia. 
Nonostante ciò, credo che la porterò a termine. È un impegno importante ed è una scommessa su me stessa. 
In queste settimane ho riflettuto parecchio, mi sono chiesta se fosse giusto continuare a scrivere, nonostante molte cose siano cambiate. Ma ho scoperto di non avere risposte. Non so se continuerò a pubblicare su EFP, dopo aver concluso The World, ma credo di dovervi una fine. 
Sta tutto nella fine. 
Per questo motivo mi piacerebbe se mi scriveste, che sia in privato o in una recensione poco importa. Vorrei sapere se per voi la storia ha ancora importanza o meno. Se vi piace o meno. Se siete ancora accanto a me. 

Adesso vi lascio alla lettura. Non scriverò a fine capitolo, quindi vorrei chiarire che la poesia che viene recitata è una poesia di Bertolt Brecht. In lingua originale si chiama "An M." e la traduzione italiana ho provato a riscostruirla io, tramite una versione in inglese, l'originale e quella italiana. Mi scuso se non è perfetta, ma credo renda bene il senso. La canzone è Stage 4, che immagino conosciate. Non è una scelta casuale, perché è un testo al quale mi sento particolarmente vicina. 

Buona lettura. -C.

 
CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE SECONDA 

I’ve always held my doubts so close to my heart that these frames have trapped all my better days
( .stage 4 fear of trying. )

 
[ ... Gli chiesi soltanto: «Senti, ce l’hai un accendino?».
Poi mi scappò un sorriso. ]

Gerard abbassò il viso, mise una mano in tasca e ne tirò fuori un Clipper rosso scuro.
Me lo porse, sorridendo.
 
Fumammo insieme, in silenzio, guardando gli alberi di fronte a noi, con la mia testa poggiata contro la sua spalla.
 
«Credevo che avessi deciso di smettere di fumare» - dissi, continuando a guardare dritto davanti a me.
 
«Ormai non fa più molta differenza, no?».
 
Gerard rispose con calma, ma le sue parole mi buttarono terribilmente giù.
Mi chiesi cos’altro avesse iniziato o continuato a fare, sapendo di dover morire a breve.
Perché la verità era questa e noi non avevamo più tempo per girarle attorno.
Non ne avevamo più voglia.
 
 «Per te niente ha mai fatto molta differenza»
 
«E io per te, Frank? Io per te ho mai fatto differenza? Sono mai importato qualcosa?»
 
«Forse importi troppo. Forse è questo il problema»
 
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, come a rifletterci su.
Poi si mosse in modo quasi brusco, costringendomi a spostare la testa dalla sua spalla.
Mi fissò. Ma non c’era espressività nel suo sguardo.
Parlò in modo quasi meccanico.
 
«Mi piacerebbe leggerti una poesia…» esitò, per un attimo.
Gerard aveva paura di rivolgermi quella domanda.
«Ti va di venire a casa mia?»
 
Io mi chiesi se non fosse troppo tardi. Non solo come orario ma proprio come tempo.
Come occasioni sprecate.
Poi però dissi che andava bene.
 

 
Il tragitto verso casa sua lo percorremmo in silenzio. Uno di fianco all’altro ma lontani.
Quando arrivò il momento di girare la chiave nella toppa del portone, Gerard sussurrò qualcosa che suonò come un chiedere scusa.
 
«Non dobbiamo fare nulla che tu non voglia fare. Ti ho portato qui solo per quella poesia- solo per leggertela. Non ti chiedo niente, Frank.» -disse- «sul serio».
 
Io mi sentii quasi tradito. Quasi come se Gerard non mi conoscesse più, non mi ricordasse più.
«Lo so.», risposi.
 
C’era disordine in casa sua, ma lui non provò a giustificarsi o comunque farne accenno.
Più che altro, non sembrò curarsene affatto.
Mi disse soltanto di sedermi sul divano o dove preferivo. Mi disse che non aveva importanza.
 
E di nuovo, su quei cuscini, mi sentii piccolissimo. Come le case viste dagli aerei in volo.
 
 
Quando Gerard tornò in salotto teneva in mano un libro ma io non riuscii a vederne la copertina.
Per un momento temetti che sarebbe rimasto lì, in piedi davanti a me, a recitare quei versi.
Come un attore davanti al suo pubblico. Come se non avessimo più nulla da condividere, nemmeno uno spazio da vivere insieme.
 
Poi, per fortuna, si avvicinò un poco, sedendosi cautamente sul tavolino di fronte al divano.
Il suono della sua voce risaltò in contrasto col silenzio assoluto della notte e della semioscurità.
 
«È una poesia di Brecht ̽ » - tentò.
 
Io avrei voluto dirgli che non lo conoscevo.
Ma non lo feci e lui andò avanti col suo spettacolo che sembrava sempre più un monologo.
 
 
« Quella notte che tu non venisti
io non mi addormentai ma andai
più volte sulla porta
e pioveva, e di nuovo rientrai.
 
Non lo sapevo allora, ma ora invece lo so:
quella notte era già come quelle altre notti
che tu non venisti più e io non riuscivo a dormire
e già quasi non aspettavo più
ma andavo spesso sulla porta
perché lì pioveva ed era freddo. »
 
 
E io lo osservavo. Il mio sguardo pieno di angoscia e amore che si scioglieva sul suo viso, sempre di più, a ogni parola.
Fu come il tramonto in quel giorno di qualche mese prima, però era già più tardi.
L’orizzonte era più scuro.
 
Qualcosa si riempiva di crepe e il cielo stava per sgretolarsi.
Ma Gerard non ci faceva caso; lui non mi guardava.
La sua voce rotolava giù veloce durante le strofe più concitate e poi si rasserenava su altre.
A lui non importava un cazzo del cielo, del tramonto, di me, perché quello era il suo momento.
Gerard aveva una voce e tante cose da dire.
 
Io mi resi conto che per troppo tempo lui era stato in silenzio ad ascoltarmi.
Quando ne presi coscienza, i versi giungevano a una fine.
 
 
 
«… Ora molti anni sono trascorsi e
anche se
ancora gocciola la pioggia e c’è vento
se tu venissi ora nella notte, lo so
io non ti riconoscerei più, non la tua voce
e non il tuo viso, perché le cose sono cambiate»
 
 
E fu allora che alzò gli occhi e mi guardò.
Mi guardò sul serio.
E anch’io lo guardai sul serio. Perché era il gesto d’amore più grande che potessi concedergli.
 
E fu lì che mi accorsi che stava piangendo.
Piano, sommessamente, ma in modo sincero.
 
Mi chiesi se lui non avesse mai pianto prima oppure se io non l’avessi mai ascoltato abbastanza e osservato abbastanza per accorgermene. 
 
Gli ultimi versi li recitò a memoria, con i suoi occhi puntati nei miei e le lacrime che venivano giù fitte.
Quasi come se fosse il suo modo per dirmi “Ti odio. Ti odio perché sei andato via, ma non ti biasimo per averlo fatto. Ti odio perché non riesco a odiarti.”
 
 « ... Eppure odo ancora dei passi nel vento
e un pianto nella pioggia e che qualcuno
vuole entrare.
E penso di andare alla porta
e aprirla e vedere se qualcuno è venuto -
Ma non mi alzo e non vado fuori
Non vedo
e neppure viene qualcuno. »
 
 
Gerard posò in fretta il libro affianco a sé, senza nemmeno richiuderlo, e portò una mano a coprire gli occhi, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni del pianto.
E io stavo lì, paralizzato, e lo osservavo.
Non sapevo cosa fare.
Quel corpo a nemmeno un metro dal mio tremava energicamente e io spostavo lo sguardo di continuo. Prima sul libro ancora aperto, poi su Gerard e sulla sua mano sinistra che stringeva forte l’estremità del tavolo, e dopo ancora sulla mano destra, poggiata sui suoi occhi.
Il palmo bagnato dalle lacrime che gocciolava sui pantaloni.
 
Credo che rimanemmo in quella posizione per un paio di minuti che a me parvero infiniti.
Mi sembrò come se delle nuove stelle avessero avuto il tempo di nascere e le stagioni avessero cessato di esistere.
Come se potessi veramente percepire su di me la rotazione della terra attorno al sole e della luna attorno alla terra.
 
Poi, improvvisamente, Gerard tirò su col naso, come a darsi un contegno, e passò la manica del cardigan ad asciugarsi le lacrime.
Strofinò per bene gli occhi e senza nemmeno guardarmi si alzò e si allontanò.
 
E nonostante ciò io non riuscii a muovermi. Fu come se la forza di gravità fosse tale da non potermi più staccare dai cuscini del divano.
Sentii i suoi passi sempre più lontani e subito dopo il rumore fastidioso di una bottiglia di plastica che veniva leggermente schiacciata.
 
Immaginai una scena in cui io raccoglievo tutto il mio coraggio e facevo la cosa giusta. Veramente, l’unica cosa che avrei dovuto fare.
Mi immaginai mentre mi alzavo dal divano e, con passi sicuri, raggiungevo Gerard in cucina.
Da persona matura che sa assumersi le responsabilità delle proprie stronzate.
E sempre in modo sicuro gli avrei detto qualcosa. Qualcosa di breve, però. Solo poche parole.
Ma parole giuste.
 
Perché vorremmo tutti che la vita fosse solo un paio di parole perfette. Quelle dette al momento esatto, mai alla persona sbagliata. Vorremmo tutti non fare del male.
O, almeno, io l’avrei voluto.
 
Avrei voluto pensare a me stesso come uno che, almeno una volta nella vita, è stato forte.
Che ha voluto bene alle persone che gliene volevano, senza avere paura.
Perché credo che la verità fosse che io avevo paura di provare qualcosa che non fosse dolore.
E quindi avevo bisogno di alternarlo a ogni altro sentimento.
Di avere amore e sofferenza, gioia e tristezza, vita e morte.
Pensavo che fosse l’unico modo possibile per sopravvivere.
 
Almeno finché non arrivò Gerard.
 
E vederlo piangere così spontaneamente, vederlo soffrire e sbiadire giorno dopo giorno, sapere che la sua morte sarebbe potuta essere dietro ogni angolo, dietro ogni porta, sono queste le cose che mi hanno distrutto.
Realizzare che il dolore non era più qualcosa con cui diluire la felicità per renderla meno forte, ma era invece la base di tutto. Il nucleo più infimo di ogni sguardo, tocco, istante di quotidianità.
Non potevi decidere dove metterlo perché risiedeva in tutto. Risiedeva ovunque.
C’era una base di consapevolezza che faceva così male da non poterla ignorare.
E c’erano lacrime di cui io sapevo ma che avevo deciso di non vedere o di dimenticare.
 
Ricordai una volta - una notte - in camera di Gerard.
Eravamo a letto e io circondavo il suo corpo da dietro.
Era una posizione un po’ inconsueta, perché solitamente era lui a farlo. Era lui a stringermi. Ed erano le sue braccia attorno a me.
Ma quella notte avevo percepito che qualcosa era diverso, perché Gerard aveva lo sguardo pieno di preoccupazione.
Io gli chiesi se andasse tutto bene. Lui annuì. Quando gli accarezzai una guancia capì che non ero ancora convinto.
Ricordo bene il suo sussurro debole: “sono solo un po’ stanco” - disse.
Io aspettai finché i suoi respiri non divennero regolari e ben scanditi e il suo corpo sereno sotto le mie braccia.
Passò mezz’ora, forse meno, e poi lo sentii mancare, il suo fiato. Fu davvero solo un secondo, ma è proprio quel secondo che mette fine a un ritmo ormai stabilito. È quel piccolo dettaglio che fa la differenza.
Fu quel respiro mancato a iniziare tutto.
Gerard cominciò a tremare piano sotto di me, poi fece uno scatto, come se morso dal dolore.
Io iniziai a scuoterlo quando mi accorsi che il suo cuscino diventava umido per delle lacrime involontarie.
Mi sporsi quasi abbastanza da sovrastare Gerard col mio corpo, e intanto sussurravo il suo nome.
Si svegliò di soprassalto, quella notte, e mi guardò con due occhi che non gli appartenevano.
Uno sguardo fitto, denso, pullulante.
E io mi resi conto che non avevo mai visto la paura così da vicino. Almeno non una paura così pura.
Con probabilità se ne accorse anche lui. Credo che si vide riflesso nei miei occhi. E nascose il viso contro il mio collo, lo sfiorò con le labbra e ci riportò in una posizione simile a quella iniziale.
Solo che nessuno dei due stringeva più l’altro, perché entrambi avevamo bisogno di quell’abbraccio.
Ci tenemmo forte a vicenda.
Io non seppi mai cosa accadde realmente quella notte. E lui non me parlò mai.
 

 
Non so per quanto tempo rimasi perso nei miei ricordi.
La voce di Gerard arrivò da lontano ma arrivò vicina.
Fu chiarissima, trasparente.
 
«Avrei voluto dirti che era colpa tua, sai? Ti avrei portato qui, letto quella poesia, e poi forse ti avrei chiesto di andare via da casa mia, dalla mia vita. Ma non credo di avere ancora voglia di farlo.
Prima stavo cercando un fazzoletto, in cucina, e spostando la macchinetta del caffè ho ritrovato questa Polaroid. Te la ricordi? L’hai scatta tu un paio di mesi fa»
 
La guardai brevemente perché non avevo nemmeno bisogno di ricordarla.
Era una foto che avevo scattato a Gerard mentre dormiva, con le prime luci dell’alba che accarezzavano le lenzuola bianche e azzurre e i muri della stanza.
Lui era poggiato su un fianco e io lo fotografai dai piedi del letto. Mi sembrò assurdamente bello.
Ricordo anche che rimasi per qualche minuto a osservarlo, poi mi rivestii e tornai a casa prima che fosse mattina.
 
«Sì, la ricordo.»
 
«Per caso l’ho girata, prima, e ho letto quello che mi avevi scritto. Ricordi anche quello?»
 
«'Mi è impossibile rimanere. Mi è impossibile andare via. Ché io sia sempre ai piedi del tuo letto- '»
 
«'- ché tu possa sempre risvegliarti tra queste nostre lenzuola'» - terminò Gerard - «Quando ho letto la tua lettera ho pensato che fosse colpa mia, che la tua sofferenza fosse colpa mia. Che le tue colpe fossero in realtà le mie. Ho pensato tanto in queste settimane, credo sia inevitabile. Si deve pur trovare un modo per processare ciò che non si può esteriorizzare.
E fino a qualche minuto fa avrei voluto gettarti addosso tutto il mio disprezzo. Avrei voluto essere capace di disprezzarti, forse. Ma in realtà non ce l’ho con te, perché non ci sono colpe a dividerci.
C’è solo- c’è solo vita a tenerci lontani. E la vita a volte è troppo più grande di me o di te o di un letto. Non può iniziare e finire tra delle lenzuola, Frank. Ci sono pericoli da correre, parole da urlarsi contro, dolori da affrontare, e se tu non vuoi affrontarli con me allora va bene. Ma non posso assumermene le responsabilità. Non posso portare da solo il peso di tutti i rimorsi e dei pentimenti.
E non voglio pentirmi. Non ho più tempo per farlo, capisci?
E lo so che provi rabbia anche tu. Lo capisco dal modo in cui mi guardi. Ti fa rabbia vedermi così, ma credo te ne faccia ancora di più il fatto che non eri qui, con me, mentre diventavo la persona che adesso hai davanti.
Fa tanta rabbia l’essere assenti dalla vita delle persone che amiamo, vero? Io ci penso sempre; mi sento così ogni giorno. E ti chiedo scusa se prima ho pianto davanti a te, non cerco la tua compassione, avevo solo bisogno di farlo.
E ho anche bisogno di te. L’ho realizzato quando ho letto la lettera e ho capito che non saresti più tornato. Forse l’ho realizzato troppo tardi, forse non ho fatto nulla per dimostrartelo.
Ma la verità è che non so più risvegliarmi in un letto che non profumi anche di te. Non so sfiorare una mano che non sia la tua. Non ho nemmeno avuto il coraggio di buttare il tuo spazzolino.»
 
Ridemmo entrambi.
Entrambi con le lacrime agli occhi.
 
«Ma se questi ultimi mesi con me non sono quello che vuoi, se pensi di non poter sopportare il loro peso, allora va via. Mi va bene, ti capisco. Però ti prego, per favore, se esci da quella porta non tornare più indietro, perché io non ho più la forza per sopportarlo.»
 
Io avevo iniziato a tremare, senza accorgermene. In quel momento pensai a tante cose. Provai a immaginare un futuro con una persona malata, provai anche a immaginarne uno senza, perché sapevo che sarebbe arrivato quel momento.
Pensai alla mia camera e a quanto fossero scuri i suoi muri. Non so bene perché. Però ci pensai.
Poi mi guardai attorno e feci un calcolo veloce.
Undici. C’erano almeno undici cose, in quella stanza, che mi ricordavano di noi. E che inevitabilmente ricordavano a Gerard di me. Erano tutte lì, e mi sembrarono tutti buoni motivi.
Senza rendermene conto, smisi di tremare e iniziai a parlare.
 
«Nei mesi in cui siamo stati insieme tu hai provato a tenermi lontano da qualsiasi cosa non andasse bene nella tua vita. Ma io non ti ho mai chiesto di farlo. Quando ti ho conosciuto, quella mattina, c’era qualcosa nelle tue parole, nei tuoi gesti, che emanava tristezza, e io lo sapevo. Io l’ho capito. Ma non sono andato via. Non puoi pretendere di escludermi da una parte della tua vita perché io non pretendo di vivere con te solo la parte facile. Voglio dirti che va bene, che puoi lasciarti andare adesso. Puoi soffrire, Gerard. Puoi arrabbiarti, se ti va. Puoi piangere quando ne hai voglia senza scappare via da me. Puoi svegliarmi nella notte quando stai male o quando hai paura. E soprattutto puoi provare paura. E quando sarai pronto a condividere tutte queste cose con me, non dovrai chiedermi scusa, perché provare dolore non è una colpa. E tu non sei colpevole.»
 
«Sei un ragazzino Frank. Non fraintendermi, non voglio dire che tu non sia grande abbastanza o maturo abbastanza… dico solo che sei giovane. Hai un futuro davanti e dei piani da fare, delle persone da incontrare. Queste potrebbero essere le notti di cui un giorno parlerai ai tuoi figli, se ne avrai, o che ricorderai insieme ai tuoi amici. È questo il momento in cui dovresti iniziare a vivere, Frank. Dovresti essere felice o fare di tutto per diventarlo. E io non voglio portarti via dalla tua vita.»
 
«Ma è te che voglio ricordare Gerard. È di te che vorrò parlare ai miei figli, se ne avrò. Sei tu la persona con cui vivere queste notti. Non voglio diventare grande e pensare ai miei diciassette anni come all’età in cui non avevo nulla di concreto. E non voglio ricordare quella notte in cui sono uscito dalla porta di casa tua lasciandoti da solo, perché non voglio portarti dentro come un rimpianto. Voglio stare bene quando penserò a ciò che sei stato per me.»
 
«Ne sei sicuro Frank?»
 
«Mi sono guardato attorno, prima, e in questa stanza ci sono almeno undici cose, undici posti, undici ricordi che abbiamo condiviso. Ti sembra un numero abbastanza alto l’undici?»
 
Lui abbassò il viso, improvvisamente timido.
Le sue labbra ci curvarono dolcemente in un sorriso che io vidi solo per metà.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su di me aveva un’espressione seria, solenne, come se il nostro fosse un giuramento.
 
«Mi sembra un buon inizio» - mi disse, con gli occhi che brillavano.
 
Mi mossi lentamente e lo abbracciai, ancorando le mie mani alle sue spalle e stringendo forte il tessuto del suo cardigan. Non ci staccammo mai del tutto.
Io poggiai la fronte sulla sua, provando a sfiorargli le labbra, ma Gerard fu più veloce e passò il naso sul mio collo, seguendo la linea della mia mascella fino all’orecchio.
Il suo fu solo un sussurro, ma io sentii il sangue pulsare e lo stomaco esplodere.
Gerard aveva qualcosa che lo rendeva sensuale in ogni gesto.
 
«Voglio sentirti più vicino»
 
«Anch’io, mi sei mancato» - E lo intendevo sul serio.
 
Di Gerard mi era mancato ogni aspetto. Non solo il sorriso, non solo i miei occhi riflessi nei suoi, ma anche il solletico del suo respiro sul collo, la sensazione del suo corpo premuto contro il mio.
Mi mancava sentirmi disarmato, lasciarmi andare e pensare con le mani. Capire solo quel tocco, ragionare solo su quei centimetri di pelle su cui poggiavo le labbra.
 
Quando sentii la bocca di Gerard schiudersi e la sua lingua sulla mia, non mi sembrò un inizio.
Era troppo familiare. Sapeva troppo di casa per poter essere un inizio.
Fu come rivivere un ricordo nel presente: era il numero dodici.
Non era un inizio ma una creazione.
Stavamo costruendo una storia da raccontare che non sarebbe più stata solo mia ma nostra.
Sarebbe stato ciò che di Gerard avrei portato con me.
 
E realizzai che non era quel tramonto in casa sua e nemmeno una Polaroid.
Non puoi racchiudere una storia in qualcosa che è così breve, così piccolo.
Per me Gerard fu un istante.
Fu il secondo in cui i suoi occhi si aprirono sui miei e io vi scivolai dentro.
E ancora oggi non credo di credo di essere mai risalito a galla. 

 
 
  
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