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Autore: Arva    08/08/2016    1 recensioni
Torus, un giovane mandaloriano che "di giorno" fa l'armaiolo e il mercenario, nel tempo libero si diletta nell'esplorare asteroidi e durante una spedizione in quel del campo di Vergesso fa una scoperta che lo costringerà, molto probabilmente suo malgrado, a riallacciare legami che pensava di avere seppellito da tempo.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Torus era confuso.

Se ridiceva la stessa frase con la voce fonda e lenta di un presentatore di documentari sulla fauna del suo pianeta natale, poteva quasi sembrare l’esordio di un holo-cartone, eppure non lo era per niente.

Si trovava sprofondato nel sedile del pilota, con un parallelepipedo di metallo largo non più di trenta centimetri e alto forse nemmeno una decina che ricordava una custodia per mirini telescopici; ne aveva fatte svariate negli ultimi anni, anche se non ne aveva mai vista una interamente di metallo. Gli spigoli erano arrotondati sebbene gli fosse impossibile capire gli strumenti che avevano prodotto quell’oggetto perché era completamente liscio: nessun segno di saldatura, niente marchi di una fresa o scanalature di punzoni, niente di niente.

Di norma si preferiva usare materiali plastici, che al massimo si deformavano senza ustionare qualunque cosa toccassero durante le operazioni in luoghi molto caldi. Gli era successo un paio di volte di trovarsi in ambienti simili, una volta Sullust e l’altra Tatooine, e ricordava che tutto ciò che aveva di metallico a contatto con la pelle gli aveva lasciato delle piaghe che, letteralmente, “lèvati”.

Era giovane e ignorante, ai tempi, d’altronde, e presto aveva imparato a non commettere quell’errore.

 

Ricordava di avere visto alcune spade laser Jedi contenute in custodie simili, ma molto spesso erano decorate lungo il coperchio o gli spigoli; questa no, era liscia, priva di qualsivoglia ornamento che non fosse un piccolissimo simbolo a forma di stella a quattro punte sul tirante del lucchetto.

A giudicare dal colore chiaro, doveva essere elettro, anche se in quel momento non aveva gli strumenti necessari per eseguire un’analisi metallometrica; avrebbe dovuto accontentarsi di ciò che gli dicevano gli occhi. Decise, quindi, di aprire la piccola scatola, il sussurro degli alberi veshok come costante compagno da quando l’aveva recuperata, incastonata nella parete della caverna che aveva visitato prima.

 

Tirò il piccolo tacchetto metallico con la stella sopra e, accompagnato dal sibilo di pistoni nascosti da qualche parte lungo il corpo del contenitore, venne ricompensato da una visione che non fece altro che accrescere la sua confusione.
Adagiato su un’imbottitura di velluto blu scuro, un frammento di quella che a una prima osservazione gli parve semplice ossidiana dalla forma vagamente di losanga, che però, se esposta all’arcigna luce blu della carlinga, restituiva lievi bagliori violacei che correvano lungo tutta la sua lunghezza. Concentrandosi un momento sull’oggetto, si accorse di due che sul momento non aveva notato.
Se il frammento gli era all’inizio sembrato perfettamente nero e liscio, puntandoci contro la torcia innestata nell’elmo in realtà era coperto da una miriade di scalfitture, graffi e altri segni probabilmente del tempo, dai quali periodicamente emergeva fiochissima luce viola quando la luce elettrica li abbandonava.
Il rumore del sottobosco mandaloriano si intensificava quando osservava l’oggetto, per affievolirsi quando, invece, spostava lo sguardo.

 

“Osiik…”Vedi Note a fondo pagina

 

Con una goccia di sudore freddo grande quanto un proiettile anticarro che gli scorreva lungo la schiena, decise di chiudere la scatola e tornare a casa: aveva un sospetto del motivo per cui, da un lato, quando aveva divelto il contenitore dalla roccia il segnale aveva smesso di comparire sugli scanner e, dall’altro, perché Kot avesse deciso di fargli visita di nuovo proprio quel giorno.
Quando si trattava di avere sospetti o fidarsi della propria sensazione di pancia, Torus raramente sbagliava, inutile dire che quella volta sperava con tutto il cuore di avere preso un proverbiale granchio: se aveva ragione, stava ripetersi un ciclo dal quale voleva stare il più lontano possibile.

 

Intanto che accendeva i motori, impostava nel navi-computer la rotta per Manda’yaim e incaricava R7 di smettere di preoccuparsi e caricare l’iperguida, tuttavia, sentiva un pensiero infiltrarsi nella sua mente dalla porta di servizio o dal montacarichi per il pranzo.
E se, tramite quello stesso Kot, avesse potuto avvicinarsi di più al Manda?
Provvide subito a sopprimerlo, quasi spaventato dalle conseguenze che avrebbe potuto avere: Kot e Manda erano stati separati da che i Taung avevano conquistato Mandalore, sostanzialmente da quando il Manda era nato, e fino a quel momento la politica era stata di convivenza, sebbene non sempre pacifica. Se così era, c’erano ragioni perché rimanesse in quel modo.
Le due cose non dovevano mescolarsi.

 

§ ° §

 

“Tranquillo, Tor’ika, andrà tutto bene.”

 

L’unica risposta fu uno sbuffo disilluso.

 

“Oh, andiamo, non fare quella faccia, ché poi ti vengono le rughe.”

 

Torus dovette trattenersi dal non scoppiare a ridere, se voleva continuare la pantomima. D’altronde, trovarsi sdraiato su un “tavolo chirurgico” che altro non era se non una lastra di duracciaio sterilizzato recuperata dal fianco di un corazzato, sterilizzata e dotata di supporti per contenere droidi riottosi era una situazione di per sé quanto meno interessante.
China su quello che, se avesse ancora avuto il proprio braccio originale, sarebbe stato il midollo osseo opportunamente privato di tutte le varie piastre protettive e adagiato su un supporto esterno al “tavolo”, la figura minuta ma densa di muscoli di una ragazza in una tuta da meccanico, dalla folta chioma di capelli blu quasi fluo brandiva con nonchalance una torcia a microfusione per circuiti e, da dietro un paio di occhiali scuri spessi quanto il torace del mandaloriano, tracciava nuove linee di calibrazione lungo i cavi verdi dopo avere sostituito quelli neri con un’altra matassa rossa brillante.
A confronto con il resto dell’officina, immersa nella più nera oscurità, l’arto metallico smontato era letteralmente inondato dalla luce bluastra di un faro alogeno orientato direttamente sul groviglio di cavi come una gigante blu immersa nel vuoto cosmico: Torus a malapena riusciva a vedere di avere indosso solo i pantaloni della tuta da volo.

 

Torquoise Dala, per gli amici Torque o Dal’ika, era una persona che definire “tutta d’un pezzo” era un eufemismo: un passato da pilota di mezzi pesanti in almeno una ventina di conflitti armati sparsi per tutta la Galassia, si era guadagnata il proprio senso dell’umorismo sornione, il fisico muscoloso e attraente e una buona dozzina di cicatrici come una donna mandalariana modello.
Col sangue dei propri nemici, la testardaggine e la preparazione. Si erano conosciuti alcuni anni prima, quando Torus aveva da poco fatto ritorno su Mandalore e lei ancora combatteva attivamente: il loro primo incontro era avvenuto durante una riunione di clan all’Oyu’baat, la cantina in Keldabe City che fungeva da centro di potere informale del sistema di Mandalore, quando, durante una rissa, si erano trovati schiena contro schiena a scambiare pugni e calci con un gruppo di avventori ubriachi.
Lo scontro si era protratto per svariati minuti, cosa frequente da quelle parti, e Torus, ancora debilitato dai molti traumi subiti negli ultimi mesi, era stato trascinato via da Torque fino all’insediamento più vicino del suo clan quando una bottiglia di metallo lo aveva colpito alla tempia facendogli perdere i sensi.

 

Da allora, essendo sia molto simili per interessi ma molto diversi per carattere, avevano legato e molto spesso avevano preso contratti e taglie insieme, arrivando a un livello di intesa quasi istintivo; da lì, l’apertura dell’officina insieme fu solo una questione di tempo.
Torque prese l’iniziativa, volendo fare una pausa dalla vita senza certezze della mercenaria e mettere a frutto la propria conoscenza estesa di motori e meccanica, mentre Torus decise di aggregarsi come armaiolo perché stava passando un periodo in cui aveva un estremo bisogno di vicinanza da un lato e di qualcosa di concreto da fare che lo aiutasse a smettere di pensare a ciò che era stato e farsi un’identità nuova.

Il resto era storia: si fidavano ciecamente l’uno dell’altra.

 

“Non sei tu quella con una torcia calda dentro un braccio.”

 

Lei sorrise sotto la maschera.

 

“Non sono io quella che si è fatta tirare in testa una stazione del trono magnetico, Tor’ika.”

 

“Punto tuo.”

 

Scambi come quello, che fra persone che non si conoscevano potevano tranquillamente risultare in un duello d’onore, fra di loro erano normali e Torus oramai aveva smesso di offendersi per poi iniziare ad apprezzarli.
Dato che la sessione prometteva di essere ancora lunga, quindi, decise di rilassarsi chiudere gli occhi e approfittare del momento di manutenzione per riposarsi: ne aveva bisogno e la presenza di Torque certamente aiutava.

 

“Dal’ika, hai sentito le notizie?”

 

Lei annuì lentamente intanto che da un cassetto dell’enorme rastrelliera di attrezzi estraeva un paio di pinze minuscole per spostare un cavo di modo che fosse più facile innestare le guide nel lato interno dell’avambraccio.

 

“C’è fermento, c’è puzza di guerra nell’aria: pare che i radicali abbiano costituito un movimento nuovo.”

 

“La Guardia della Morte?”

 

Torque annuì nuovamente e Torus sentì un altro brivido corrergli lungo la schiena. C’erano state tensioni ideologiche sul ruolo che i mandaloriani avrebbero dovuto assumere nel grande scacchiere galattico e gli estremisti, spesso collegati a clan guerrafondai e cultori delle “vecchie tradizioni” della loro cultura, propugnavano posizioni sempre più intransigenti e pericolose come scatenare nuovamente una crociata delle dimensioni delle Guerre Mandaloriane ora che la Repubblica era poco più che un erbivoro assopito nel pisolino della digestione.

 

“Cosa dice il mand’alor?”

 

“Mereel dice che non vuole permettere che succeda una cosa del genere, ma oramai sanno tutti che si combatterà. Magari non subito, magari non oggi, ma forse domani, dopodomani, chi lo sa.”

 

“Quindi dovremo scegliere una parte, prima o poi: i Resol’nare parlano chiaro.”

 

Mando’a bal mand’alor, diceva la filastrocca, “La lingua e il signore”: parlare il mando’a e rispondere sempre alla chiamata del Signore Supremo erano due degli obblighi più famosi per ogni mandaloriano che si volesse definire tale.

 

“Prima o poi, sì, ma spero il più tardi possibile. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno adesso è una guerra civile.”

 

Torus sorrise malinconico mentre cercava di trovare la forza per raccontarle il vero motivo per cui era sdraiato sul suo tavolo chirurgico a farsi rimestare le interiora in tranquillità: era difficile più perché temeva le conseguenze di ciò che stava per raccontare più che della reazione dell’amica. Non ricordava di avere provato paure simili da molto tempo.

 

“E’ tornato.”

 

“Come? Chi?”

 

Il mercenario non aprì gli occhi intanto che sentiva Torque fermarsi.

 

“Kot. E’ tornato.”

 

La ragazza si tolse lentamente gli occhiali, lanciandogli sguardi a metà fra il preoccupato e il diffidente; Torus non poteva biasimarla: si trovava nella stessa situazione in prima persona, a non credere a ciò che stava succedendo e contemporaneamente essere spinto dall’istinto a comportarsi come il cacciatore che fronteggia un predatore vero: coltello alla mano, in cauti e ampi movimenti circolari prima di scattare e affondare la lama in un colpo solo.

Peccato che un esempio così nobile fosse sprecato per lui, in quel momento.

“Come sarebbe ‘è tornato’? Dall’incidente hai smesso di botto di sentirlo, come fa a essere tornato, così, all’improvviso?”

 

“Non lo so, Dal’ika… non ne ho la più pallida idea. So solo che fino a prendere quella scatola me ne stavo più o meno tranquillo, poi la trovo, tempo di tirarla a bordo e aprirla ed ecco che si aprono le dighe dell’inferno.”

 

“Quindi pensi che siano collegati, i due eventi?”

 

Torus fece per stringersi nelle spalle, sebbene l’arto semi inutilizzabile non glielo permettesse.

 

“Hai idee migliori? Me lo sento: la sensazione andava e veniva in base a quanto attentamente guardavo il frammento dentro il contenitore. Se non sono collegati quelli, non so cosa lo sia.”

 

Fu lì che arrivò la domanda che meno di tutte si era aspettato, anche se era una delle prove lampanti per cui in quel momento aveva così tanto bisogno della vicinanza di Torque.

 

“Hai paura?”

 

“Ricordi in che stato ero quando ci siamo conosciuti. Se c’è qualcosa che temo, è quello.”

 

Torque non disse niente, ma il mercenario sentì la propria inquietudine iniziare a sciogliersi sotto l’abbraccio caldo e sudato della ragazza, che gli cinse il collo con le braccia stringendo con forza tale quasi da soffocarlo; si tolse la maschera per posare la fronte sulla sua, gli occhi verdi di lei dritti in quelli castani, ora aperti di Torus.
Dal’ika sorrideva, il volto che improvvisamente assumeva un’aria molto più marcatamente più femminile del solito, e Torus sentiva di non volere altro che quel momento non finisse mai.

 

“Non sei solo, Tor’ika. Ci siamo guardati vicendevolmente le spalle quando eravamo sul campo di battaglia, non ho intenzione di smettere adesso che la Forza o chi per essa è tornata a farti visita.”

 

Solo in quel momento, Torus iniziava a capire cosa significasse avere un clan che combattesse per lui e, soprattutto, un clan per cui lottare fino a che le stelle non si sarebbero spente.

 

Note a pie' di pagina

Osiik: “merda” in mando’a

Tor’ika: diminutivo affettuoso di Torus in mando’a. Quando ci si rivolge a qualcuno che si conosce bene, spesso si prende la prima sillaba del suo nome e ci si associa la desinenza “‘ika”.
   
 
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