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Autore: Uccellino Assurdo    10/08/2016    1 recensioni
Trieste ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e/ mani troppo grandi / per regalare un fiore; /come un amore / con gelosia. (Umberto Saba, Trieste)
Trieste, 1914. Nella città "crocevia di popoli e di culture" per eccellenza la storia dei due fratelli Vargas, Romano ed Alice, che vedono la loro vita sconvolta dall'avvento della Grande Guerra e dell' amore...
Nota: presente Fem/Italia del Nord
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Pensavate avessi abbandonato Buongiorno, Trieste! ? E invece eccovi l’ottavo capitolo! Questo capitolo era pronto da tempo ma ho dovuto fare dei tagli e dei cambiamenti per riorganizzarlo interamente, perché sarebbe altrimenti stato troppo lungo…ma lo studio, il lavoro e gli impegni della vita quotidiana mi hanno fatto rallentare. So che sono lentissima ad aggiornare e che è passato così tanto tempo che vi sarete dimenticati di questa fanfic, quindi a coloro che mi seguono le mie scuse ma anche la promessa che la storia proseguirà e si concluderà!
Come al solito per consigli, chiarimenti, domande, critiche, insulti commentate pure! Grazie a tutti.
 
 
 
 Cap. VIII
 
 
La mia terra (…),
lì dove la mia anima sembra una povera chitarra che piange
cantando
e scende il pomeriggio nelle acque oscure del fiume.(P. Neruda)
 
 
I
Madrid
La villa Fernandez Carriedo sia trovava al centro dell’immensa tenuta agricola che apparteneva da generazioni alla famiglia; ettari ed ettari di terreni baciato dal caldo sole spagnolo si stagliavano all’orizzonte. Non fu difficile farsi aprire i cancelli quando Antonio e Alice scesero dalla carrozza che li aveva portati fin lì, visto che il vecchio custode di guardia all’ingresso riconobbe subito il giovane padrone.
«Don Antonio, siete proprio voi?», chiese esterrefatto il buon Pedro; anche se aveva visto crescere Antonio e i suoi fratelli e li avrebbe riconosciuti a chilometri di distanza non riusciva a credere di trovarsi di fronte quel benedetto ragazzo. Ormai molti in quella tenuta erano convinti che non sarebbe più tornato dall’ Italia.
Antonio lo salutò come un vecchio amico più che come un servitore e l’uomo parlava proprio come se fosse un suo parente, un vecchio zio  o un nonno . «Pedro!», disse abbracciandolo.
«Don Antonio, siete diventato un uomo!», fece il più anziano, guardandolo con gli occhi umidi. «Qui nessuno vi ha dimenticato, vostra madre ha pregato ogni giorno di rivedervi, ogni giorno, da quando siete andato via. E anche i vostri fratelli, non fanno che parlare di voi! Oh, non sapete che gioia date a tutti nel ritornare!».
I due ragazzi che sedevano nel giardino che circondava la villa guardavano interrogativi le figure che si avvicinavano, accompagnate dal custode. Fu il fratello a riconoscere per primo la figura più alta: «Antonio?», fece incredulo. A quelle parole anche la ragazza sussultò. Era proprio lui , per quanto incredibile fosse.
«Antonio, Antonio, sei tornato!!», gridò Ferdinando  correndogli incontro come un forsennato e quasi investendolo. Si scambiarono velocemente e spasmodicamente frasi che Alice non capì, abbracci, pacche sulle spalle e sulla testa, strette di mano che per quanto potessero sembrare convenevoli, facevano trasparire tutto l’affetto di un fratello che si pensa perduto. La ragazza invece, rimase dove si trovava, incapace di parlare, muoversi, fare qualsiasi cosa, guardandolo come un’apparizione.  Antonio si volse verso di lei, donandole uno dei suoi sorrisi più belli: «Isabella…».
Lei contorse il viso in una smorfia di pianto, si diresse verso Antonio con piccoli passi veloci e febbrili e gli conficcò la testa nell’ incavo della spalla, abbracciandolo stretto, senza dire una parola.
«Non ci avevi scritto niente nell’ultima lettera! Ci hai voluto fare una sorpresa, vero?», continuava Ferdinando, «Adesso vado a chiamare nostra madre, dovrò stare attenta che non svenga appena ti vede, ma devo subito avvisarla!» e fece per fuggire di nuovo, eccitato, quando finalmente si rese conto della ragazza che accompagnava il fratello.
«Ma lei chi è?», chiese, poi fece come ad aver capito, «Ah, ma certo! Antonio, ella es tu novia!!» e la prese per mano.
«No, no, Ferdinando, non è la mia novia! Ve lo spiegherò più tardi con calma, comunque è una mia amica, si chiama Alice. Alice, questi sono i miei fratelli, Ferdinando e Isabella. Lo so che non capisci una parola ma vedrai che piano piano imparerai!»
«È italiana? L’hai incontrata a Trieste?», chiedeva ancora Ferdinando, «Allora, è la tua novia
«Non lo è», continuava paziente il maggiore. E Isabella aveva staccato la testa dalla spalla del fratello per guardare anche lei la novia italiana.
Alice guardava quella scena, lei che aveva appena lasciato tutto ciò che aveva amato, e non riusciva ancora a capacitarsi. La gioia esuberante di Ferdinando e quella sbigottita e muta di Isabella, l’atmosfera di unità familiare ritrovata, l’affetto smisurato e ancestrale fra fratelli…davvero Antonio aveva lasciato tutto quello? Davvero c’erano ancora una madre e un padre ad aspettarlo a casa?
Una snella e minuta figura di donna si fermò vicino al grande portone d’ingresso: evidentemente Pedro non aveva perso tempo ed era andato subito a chiamare la señora, che ora stava lì, con il sottile corpo avvolto nel sobrio ma fine scialle di filo, come se avesse avuto timore che, avanzando, la visione dinnanzi a lei fosse scomparsa come un vano sogno.
Due occhi colmi di lacrime e felicità saettarono su Antonio. «Fiijo meo», disse la madre abbracciandolo e baciandolo in fronte. «Ho pregato ogni giorno che Dio mi facesse la grazia di riportarti da me…e Lui mi ha ascoltato!». Il figlio non potè far altro che ricambiare l’abbraccio, indugiando in quella stretta più di quello che la reverenza consentiva a un figlio rispettoso nei confronti dei nobili genitori.
L’ accogliente sorriso della Señora si posò anche su Alice, invitandola a varcare la soglia di quella grande tenuta.
 
II
Trieste.
Romano aveva passato le ultime giornate, rincasando solo la sera tardi, al locale. Aveva imparato, nel breve tempo a disposizione, che davvero quegli uomini condividevano le sue idee  e forse valeva la pena fidarsi di loro. Fu con questo stato d’animo che decise di confidare ad Alfredo le sue preoccupazioni: se davvero l’unica soluzione che gli prospettavano era di abbandonare la città, realizzarla si sarebbe rivelato più difficile che rimanere a combattere per gli austriaci. Ogni giorno gli uomini triestini in età di leva venivano convocati alla Caserma Grande e il solo pensiero che tanti ragazzi come lui stavano andando a rischiare la vita mentre lui scappava come un coniglio gli era insopportabile.
 Tutti, tutti erano partiti per il fronte; Gilbert, Francis, quel maledetto Ludwig e persino Roderich che, nonostante la sua abituale compostezza e calma, non aveva avuto ripensamenti quando era stato chiamato al suo dovere.
«Se si trattasse di liberare questa città o di difenderla, io combatterei. Davvero, combatterei fino a morire», diceva quella sera a Alfredo. «Ma questa non è la guerra di Trieste».
«No, ma potrebbe diventare la guerra per Trieste», rispose l’uomo. Aveva pensato in quei giorni alla sorte di quel ragazzo; aiutarlo gli sembrava un dovere e una specie di obbligo morale nei riguardi del padre, il compagno sacrificato ai suoi stessi ideali. «Se ripari in Italia puoi arruolarti nell’esercito regio; se combatterai sarà per la patria che ritieni tua».
«Posso farlo anche in quanto cittadino di Trieste?».
Alfredo sorrise, guardando distrattamente il bicchiere che aveva in mano. «Ma tu non sei solo cittadino di Trieste…o sbaglio?».
«Che vuoi dire?».
«Tua madre…».
Romano si scosse. «Cosa c’entra mia madre?»
«Non era di Trieste».
«No, lei era originaria del Sud, poi la sua famiglia si trasferì… a Roma, mi pare. Ma continuo a non capire cosa c’entri questo».
Alfredo prese qualcosa dalla giacca, un foglietto scritto a penna. «Tu non sei solo, Romano. A Roma ti sono rimasti dei parenti». Allungò il pezzo di carta sul tavolo verso il ragazzo. «Mi sono permesso di fare qualche ricerca, basandomi su un paio di confidenze che tuo padre mi aveva fatto quando era ancora con noi. Tuo nonno è ancora vivo e vegeto a quanto pare e qui trovi il suo indirizzo. Se ti facessi adottare da lui, cosa della quale avresti diritto e forse anche dovere visto che sei l’unico parente rimastogli, saresti legalmente cittadino italiano».
Romano ascoltava allibito, guardando il foglietto.
«Direi che a questo punto puoi fare i bagagli e andare a trovare il caro nonnino, che ne dici?», esclamò Alfredo con allegria, come avesse magicamente risolto tutto. Ma il giovane gli rivolse uno sguardo rabbioso.
«Mio…nonno?!», sputò quel nome come se si fosse trattato di un’offesa. «Io non ho e non ho mai avuto alcun parente che non siano stati i miei genitori e mia sorella. Non ho intenzione di conoscere, parlare, rapportarmi in alcun modo con coloro che giudico solo estranei, né tantomeno sapere se sono vivi o morti!», esclamò, cercando di reprimere la rabbia che gli ribolliva dentro.
«Ma…»
«La questione è chiusa qua! Se devo lasciare la città lo farò… anche dovessi fuggire da una sfilza di proiettili o un intero esercito che mi bracca, anche se dovessi passare la vita a girovagare per l’Italia come un vagabondo, a fuggire come un criminale, a mendicare per le strade come un pezzente, a mangiare la terra su cui cammino e a riversare il mio sangue intero su un campo di battaglia!! Ma no andrò mai, mai da quel maledetto!» e finì quella sua incessante piena di parole solo per alzarsi di colpo e dare le spalle ad Alfredo che lo guardava ancora atterrito.
«Ragazzo, questo è il tempo di dimenticare e perdonare…», ebbe solo il tempo di dire.
Ma Romano si era ormai già avviato all’uscita, lasciando sul tavolo il foglietto stracciato.
Dimenticare? Come per anni quell’uomo si era dimenticato dell’esistenza di sua figlia e dei suoi nipoti per quanto la madre, e questo lui lo sapeva, continuasse a mandare lettere, notizie, foto e a parlare con i bambini di questo sconosciuto nonno che abitava in una città lontana lontana e, forse, un giorno sarebbe andato a trovarli. Ma questo mai avvenne e mai ci fu una risposta alle lettere che la madre, con ostinata e irriducibile speranza, si aspettava sempre di ricevere.
Perdonare? Aveva perdonato forse quell’uomo la propria figlia, per il solo affronto di aver amato un uomo che a lui non piaceva? Di aver scelto di seguire la sua felicità invece che sottomettersi ai capricci paterni? Eppure sapeva quanto lei continuasse, nonostante tutto, ad amare e ricercare quel padre che l’aveva ripudiata.
-Non ha fatto niente persino quando lei è morta, non ha mai cercato né me né Alice, pur sapendo che eravamo rimasti soli!- rimuginava amaramente Romano.
-E io dovrei strisciare da lui ad elemosinare la sua considerazione, il suo aiuto, addirittura il suo nome? Anche se fosse non mi accetterebbe mai, continuerei ad essere per lui quello che sono sempre stato fin da quando sono nato: nulla. Solo la traccia vivente dell’imperdonabile peccato di sua figlia, una macchia che non potendo essere cancellata semplicemente si fa finta che non ci sia, l’unica penosa vergogna di una vita irreprensibile!
Ad un tratto gli ritornarono in mente le parole di Antonio: Si vergognavano di avere un figlio come me. Come lui, certo, “in quel modo”, era comprensibile, eppure non riusciva ad associare Antonio a niente che non fosse onesto, pulito.Bello.
Vergognarsi di uno come Antonio, che tutti avrebbero voluto avere vicino…Ecco, se ci fosse lui adesso sicuramente lo avrebbe calmato con qualche frase conciliante, oppure lo avrebbe fatto sfogare fino alla fine in silenzio semplicemente ascoltandolo e Romano poi si sarebbe infuriato e gli avrebbe tirato addosso qualche parolaccia non meritata. Sorrise, ma si smorzò subito.
-Antonio- pensò, -ti farò vedere quanto anch’ io posso essere forte.
 
III
Madrid
I racconti, i ricordi e le domande di sei anni di vita non potevano essere esauriti in una manciata di ore, eppure i fratelli Fernandez- Carriedo si stavano mettendo d’impegno.
Alice per la prima volta dopo molti giorni tornò a sorridere, l’ atmosfera spensierata e lieta che avevano creato era riuscita a farle dimenticare per un momento tutta la tensione accumulata e faceva risorgere in lei la speranza che tutto si sarebbe risolto.
La madre guardava teneramente i figli e sorrideva fra sé e sè, seduta un po’ in disparte, come se si saziasse solo di sentire le loro risate e sapere che voltandosi li avrebbe visti. Si adombrò solo quando una delle serve venne a portare un messaggio.
Il signore era arrivato. Sì, ed era stato già informato della lieta notizia del ritorno del primogenito a quanto pare, perché voleva vederlo, lo richiedeva nel suo studio.
La madre guardò con attesa e preoccupazione il primogenito che senza dire una parola lasciò i fratelli ed Alice sotto il bel gazebo del giardino ed entrò in casa. Anche lei lo seguì.
Sei anni erano ormai passati da quando Antonio aveva visto l’ultima volta il padre, sei anni da quando era entrato l’ultima volta in quell’austero, freddo studio teatro di uno dei momenti più terribili della sua vita, sei anni da quando il padre si era congedato da lui urlandogli contro parole che mai un figlio vorrebbe sentirsi dire, sei anni da quando aveva visto quegli occhi guardarlo con tutto il disprezzo e il biasimo che si può convogliare in uno sguardo.
E adesso era tornato: con più esperienze, più anni, forse più giudizio e, soprattutto, accompagnato da una ragazza italiana. Che vittoria sarebbe stata per lui! Dopo gli studi il figlio torna a casa portando con sé non solo racconti e conoscenze nuove ma anche una moglie italiana; le malelingue che avevano iniziato e serpeggiare sei anni prima si sarebbero definitivamente spente e tutto sarebbe stato  come doveva essere: avrebbe vissuto con la sua bella consorte e preso parte all’amministrazione della sua tenuta , come voleva la tradizione, come adesso stava facendo suo padre.
«Buongiorno, padre», salutò educatamente Antonio. Aveva un nervoso sorriso sulle labbra, si avvertiva chiaramente l’ abisso rispetto al calore con cui aveva salutato poco prima la madre.
Juan Armando Fernandez Carriedo stava seduto alla grande scrivania della sua stanza; non si alzò, né un moto né uno sguardo lasciarono trapelare sorpresa o gioia nel rivedere il figlio.
«Così…sei tornato».
Il ragazzo fece un lieve segno con la testa in segno di assenso.
«Sono certo che in questi  anni hai avuto modo di pensare, di riflettere, di valutare le cose davvero importanti, di prendere le tue decisioni con maturità...» Si interruppe per prendere un sigaro, portarlo alle labbra e accenderlo.
« È un bene tu sia tornato in questo periodo:  la tenuta va riorganizzata e gestita ogni giorno con il doppio della fatica ed è il momento che te ne prenda carico anche tu , ti dovrai occupare tu delle questioni dei contadini, le paghe, i rapporti con loro…sei sempre stato bravo con queste cose, no?».
Gettò dalle labbra una folata di fumo, guardandolo. «Sapevo che sarebbe stata una buona idea mandarti per qualche tempo fuori».
«Qualche tempo? Sei anni!», esclamò mentalmente Antonio. «Sei anni in cui non ho potuto rivedere la mia terra e la mia famiglia, perché avevo paura di te!». Ma non disse niente, rimase impassibile ed ascoltare l’uomo davanti a lui che ancora non gli aveva dato, non un abbraccio, ma tanto meno una parola paterna di bentornato.
«Quella ragazza che hai portato…», iniziò a dire come se se ne fosse appena ricordato, «…hai intenzione di sposarla?». La domanda era naturalmente retorica, forse intendeva «quando hai intenzione di sposarla?».
Antonio sembrò raccogliere tutto il suo respiro nel rispondere: «La signorina Vargas non è con me nei rapporti che avete immaginato, tali da ipotizzare neanche lontanamente un matrimonio. Mi è stata affidata da…un caro amico. Una volta finita la guerra tornerò a prenderla e la riporterò a Trieste, dove spero che ci siano ad aspettarla ciò che resta della sua famiglia e dei suoi sogni. Fino a quel momento vi chiedo di trattarla come una figlia e di dargli la serenità e l’affetto che merita.»
« Tornare? Che significa?». Questa volta fu la signora a prendere parola. «Sei appena arrivato, dove vuoi andare? Tutta l’Europa è in guerra!».
«A Trieste ho lasciato qualcuno. Qualcuno che non voglio perdere, che voglio proteggere e se necessario… morire».
«Cosa intendi dire…?», chiese con apprensione la donna.
«In Italia accettano volontari. Andrò a combattere per la città dove ho vissuto in questi anni, per le persone che là ho imparato ad amare».
Un pesante sospiro fu la risposta del padre. «Per un attimo, un solo attimo, ho pensato che ti fossi ravveduto, che fossi, per così dire…guarito».
«Guarito? Questo che sono per voi, una malattia…»
«Antonio ma cosa dici? Tuo padre non voleva dire questo! », si affrettò a dire la signora, con tutti i lineamenti del viso in movimento per l’agitazione. Le mani tremavano cercando di accarezzare i figlio. «Ma tu cerca di ragionare, non puoi davvero voler andare a combattere in Italia! Per cosa poi? Non è il tuo paese, non è la tua gente, non è la tua guerra….».
«Lasciatelo perdere, ho sbagliato a credere che il tempo lo avrebbe fatto maturare: non è che ancora  un ragazzino che crede che la vita sia un gioco, che la guerra sia un passatempo», intervenne l’uomo. « Vorrà tornare con la coda fra le gambe a casa appena assaggerà solo lontanamente cosa significa combattere…»
« Vi chiedo perdono se non sono stato il figlio che desideravate, se vi ho deluso, ma tutto il vostro biasimo non riuscirà a farmi cambiare idea».
La madre non riusciva a trattenere il pianto, così diverso ora da quello di gioia che l’ aveva investita qualche ora prima mentre riabbracciava il figlio. «Antonio, cosa stai dicendo!? Virgen Santa, non puoi parlare così sul serio, non sai quello che dici!». Si rivolgeva ora a lui ora al marito, «E voi non lo permetterete, non permetterete che nostro figlio faccia una cosa del genere!».
Ma il viso dell’ uomo non faceva trapelare emozioni.
Il ragazzo prese delicatamente le mani della madre.« A lui non cambia che io vada o rimanga, l’unica cosa che vuole è non ledere l’onore della famiglia, non è forse vero? L’unica cosa che vi importa è che io non vi faccia vergognare». Riportò la mente a sei anni prima, quando in quella stessa stanza un ragazzino chiedeva in lacrime perdono per qualcosa che neanche lui sapeva.
«Ditegli qualcosa! Non fatemi perdere mio figlio ancora una volta!», esclamava la donna.
Il padre non fece una piega. «Oggi ti ho riaccolto dopo sei anni. Ma se te ne vai da questa casa considerala una partenza definitiva. Non voglio vederti mai più davanti ai miei occhi».
Antonio lo guardò dritto per un’ultima volta, fece un lieve, educato cenno di congedo ed uscì. Fu solo ormai fuori da quella stanza che riuscì a sciogliere il terribile dolore che aveva in gola, scoppiando, come tanti anni prima, in lacrime.
 
IV
Trieste
Romano cercò di fare mente locale per prendere il necessario per il viaggio che lo attendeva. Quella notte, approfittando delle tenebre e dell’aiuto offerto da Alfredo e dai suoi compagni, avrebbe lasciato Trieste.
«Ascolta, ho degli amici in alcune città italiane che ti daranno una mano, ho preparato delle lettere per loro in cui spiego la situazione», disse Alfredo quella sera. «In un foglio ho anche scritto l’ indirizzo di Roma che tu ben sai…indipendentemente che tu voglia usarlo o meno».
Romano accettò semplicemente il piccolo cartiglio senza parlare.
«Al confine troverai uno dei nostri che riuscirà a farti uscire dalla città…ma dopo te la dovrai cavare da solo, almeno per il momento. Probabilmente molti soldati triestini diserteranno e scenderanno in Italia fra non molto tempo».
«Me la caverò, tranquillo», rispose il ragazzo. «Grazie per tutto. Davvero».
L’uomo diede un paterno abbraccio d’addio al più giovane. «Che Dio ti accompagni, Romano. Adesso e se sceglierai di imbracciare un fucile per l’Italia».
Romano annuì. «Controlla tu la mia casa, ci ho lasciato tutti i ricordi felici e spero di ritornarci un giorno. Vorrei che Alice aprisse la finestra della sua stanza e si affacciasse su una città libera e senza guerra».
In cielo le stelle continuavano, serene,  a splendere su Trieste.
 
 
 
 
 
 
   
 
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