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Autore: Adeia Di Elferas    11/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gli ambasciatori della Contessa Sforza Riario erano partiti il prima possibile dalle rispettive città portando con loro tutte le richieste e le dichiarazione della loro signora, ben decisi a propugnare le sue ragioni, anche a costo di risultare irriverenti.

Settembre era cominciato con il ruggito feroce dell'agosto ancora ben riconoscibile, tanto le campagne apparivano più rinsecchite e patite che non nel cuore dell'estate e anche la popolazione si era fatta insofferente al clima chiuso e afoso.

Malgrado qualche breve avvisaglia di freddo, che sembrava promettere un nuovo inverno di ghiaccio e neve, il caldo era ritornato prepotente, in un ritorno di fiamma che stava scuotendo tutti quanti, nessuno escluso.

Nella rocca di Ravaldino l'aria si era abbastanza distesa, dopo la partenza degli ambasciatori, anche se Caterina spesso veniva vista pensierosa a una finestra, o nel mezzo del cortile. La sua espressione tesa tradiva le sue incertezze. Appena dopo aver visto partire i suoi legati, infatti, si era lasciata trascinare da uno dei dubbi peggiori che potessero attanagliarla in quel momento: e se Rodrigo Borja avesse risposto malamente a tutte le sue richieste, prendendola in giro e rifiutando la sua costosa, seppur preziosa, amicizia?

Giacomo notava il turbamento della moglie, ma non domandava nulla, né tanto meno cercava un modo diverso dal solito per sollevarla dalle sue tribolazioni. Era certo che fosse tutta colpa dell'estenuante attesa, proprio come quando aspettavano di scoprire l'identità del nuovo papa. Non appena i messi di Imola e Forlì fossero tornati da Roma, Caterina sarebbe tornata serena.

 

Ascanio Sforza aveva pensato accuratamente a chi scegliere, per quella delicatissima faccenda.

In effetti aveva dovuto scartare parenti migliori e di natali più altisonanti, ma quello che importava era il cognome.

Mentre Roma veniva lentamente invasa dagli spagnoli, in maggior parte portanti con tronfio orgoglio il cognome del papa, lo Sforza sentiva che era il momento di affrettare le cose.

Alessandro VI aveva avuto la carica, il voto di Ascanio aveva contribuito come e più degli altri, eppure non era ancora tranquillo sulla ricompensa che il papa avrebbe versato. Era fondamentale far arrivare a Roma il pretendente per la piccola Lucrecia il prima possibile.

Se il papa avesse trovato qualcuno di meglio, non ci avrebbe pensato un attimo a buttare all'aria tutto quanto e fingere che il patto segreto con lo Sforza non fosse mai esistito.

Rodrigo Borja si stava muovendo con una placida furia, tipica degli uomini con il caldo sangue latino che ribolliva nelle vene, nascosto dalla mollezza delle movenze e dalla cerosità dei sorrisi.

In un attimo aveva passato il suo vescovado di Valencia al figlio Cesare e altrettanto in fretta aveva elevato sempre di più non solo la figlia Lucrecia, divenuta in fretta una gemma nel panorama variopinto e sempre più spagnoleggiante di Roma, ma anche Giulia Farnese, diciassettenne di rarissima avvenenza, moglie pro forma di Orsino Orsini, nuora della spregiudicata Adriana de Mila e amica intima e inseparabile della dodicenne Lucrecia Borja.

Inoltre quella serpe in seno di Giuliano Della Rovere non faceva che caldeggiare l'elezione a vescovo di questo o quel parente del papa, nella speranza, aumentando il numero dei Borja in Vaticano, di arginare l'influenza di Ascanio, suo eterno rivale.

Perché Giuliano si ostinasse nel mostrarsi filospagnolo e filonapoletano, quando la sua famiglia aveva contratto un'alleanza solida con gli Sforza, Ascanio proprio non lo capiva. I figli di Caterina Sforza, a Forlì, rappresentavano una possibilità inaudita per le due famiglia: unirsi e diventare il polo maggioritario nella capitale. E invece Giuliano sembrava far finta di non ricordare e di non sapere. Anche quando qualcuno di congratulava con lui del fatto che il suo cugino di secondo grado era il figlioccio del papa appena eletto, egli faceva spallucce e commentava a mezza bocca: “Per quel che ci vuole, a farsi tenere a battesimo da un papa...”

Se in Vaticano già si vociferava di patti matrimoniali intrapresi dal papa per la figlia prediletta, Ascanio non vi dava troppo peso, ben sapendo che Alessandro VI non era incline a stringere patti senza prendere le dovute precauzioni. Quello spagnolo dalle mille anime non avrebbe mai permesso a un pettegolezzo fondato sulla verità di uscire dalle sue stanze private.

Aveva lo scettro del potere nella sua mano e così sembrava averlo pure la Spagna intera che poche settimane addietro aveva visto il decreto contro gli ebrei divenire effettivo e che pochi giorni dopo aveva finanziato la partenza dal porto di Palos di una certo Cristoforo Colombo che sosteneva di aver scoperto una nuova via navigabile per raggiungere le Indie. Se quel navigatore aveva visto giusto, allora i regnanti spagnoli avevano in mano il futuro economico del mondo e con uno spagnolo sul trono di Roma, potevano aspirare ad avere in pugno anche quello religioso.

Dunque era fondamentale per gli Sforza mettere un piede nella porta e aprire un varco. Bastava salire sulla scialuppa, per non affondare.

Ascanio aveva scritto il prima possibile a Giovanni Sforza, vedovo relativamente fresco di Maddalena Gonzaga.

Giovanni era un figlio naturale, ma, che diamine, aveva il cognome giusto ed era abbastanza malleabile e sufficientemente potente da poter rappresentare un buon partito per la figlia del papa.

Il signore di Pesaro non avrebbe di certo rifiutato l'invito del parente Cardinale a Roma. Non era nella sua indole, opporre rifiuti.

 

Quella mattina Caterina si svegliò con la testa pesante e un po' di mal di schiena. Si tirò su dal letto con una certa fatica e quando Giacomo schiuse gli occhi e la vide portarsi una mano alla fronte con espressione dolorante, le chiese subito come stesse.

La Contessa minimizzò, dicendo che probabilmente l'umidità della notte doveva averle dato fastidio: “Ora mi preparo e vado a cavalcare un po' e vedrai che mi passa tutto.” assicurò.

Dopo essersi preparata per la giornata, aiutata dalla sua fedele cameriera, Caterina augurò una buona giornata a Giacomo e andò alle stalle per prendere un cavallo.

Benché fosse molto presto, il sole era già incandescente e sembrava quasi che quel settembre volesse trasformarsi in un novello giugno, facendo ripartire l'estate tutta daccapo.

Caterina non volle cacciatori né scorta e si addentrò subito nel boschi più vicini alle città, in cerca di un po' di fresco.

Si sentiva un po' confusa, ma dava la colpa solo e unicamente al caldo. L'afa le toglieva il fiato e anche quando si fermò all'ombra delle piante, lasciando il cavallo libero di brucare un po', non trovò sollievo nell'erba fresca su cui stava seduta.

Non tornò alla rocca fino all'ora di pranzo. Aveva perso un po' il senso del tempo, mentre era nei boschi e comunque non avrebbe avuto la forza di seguire le sue solite attività mattutine, quel giorno, dunque restare fuori era stata la scelta migliore.

Davanti alla tavola imbandita, Caterina sentì lo stomaco rivoltarsi e lasciò il pranzo prima di tutti gli altri, adducendo come scusa i troppi impegni.

Gli unici a essersi davvero accorti che quel giorno qualcosa nella Contessa non andava erano il figlio Ottaviano e il marito Giacomo. Così, quando si era alzata da tavola senza aver quasi toccato cibo, entrambi l'avevano seguita con lo sguardo, senza avere lo spirito di fermarla e rincorrerla per chiederle cosa non andasse.

Tornata al Paradiso, per riposare, Caterina si portò una mano allo stomaco, tormentata dal senso di nausea e, prima di potersi trattenere, vomitò quel poco che aveva mangiato.

 

Alessandro VI riceveva ambasciatori e nobili dall'alba al tramonto, in quei giorni. Era come se una fila interminabile di adulatori avesse stabilito rigidi turni per potersi inginocchiare dinnanzi al nuovo Santo Padre e baciargli l'anello e il piede.

Tutti quanti gli parlavano con voce modulata, con una certa reverenza, qualcuno addirittura con paura e forse per questo Rodrigo restò un po' interdetto, quando si trovò davanti gli ambasciatori di Caterina Sforza.

Quattro, due per Imola e due per Forlì. Già questo lo stranì. Nemmeno fossero state due città grandi come Milano...!

E poi, il tono che i quattro usarono nel rivolgersi a lui, fu ancora più spiazzante.

“Parlo a nome della mia signora: la Contessa Sforza Riario, signora di Imola e Forlì.” cominciò Giovanni Delle Selle, mentre i tre che lo accompagnavano abbozzavano appena un inchino: “Io e Antonio Baldraccani parliamo per la città di Forlì, mentre Pietro Paolo Calderini e Michel Maccherelli sono qui per dar voce ai cittadini di Imola.” spiegò l'ambasciatore, finendo anche lui per fare una mezza riverenza.

Alessandro VI, ben lungi dal lasciarsi impressionare dalla disinvoltura con cui i messi della Sforza avevano per il momento evitato di baciargli l'anello e il piede, si alzò dal suo scranno dorato, contravvenendo all'etichetta, ma sicuro che nessuno – nemmeno il maestro di cerimonie – avrebbe avuto nulla da ridire. Che senso avrebbe avuto essersi fatto eleggere papa, se poi non poteva nemmeno far quel che più gli aggradava?

“Carissimi!” fece Rodrigo, allargando le braccia in modo plateale e andando ad abbracciare uno per uno i messi di Caterina Sforza: “Che piacere avervi qui alla mia presenza!”

Ne prese due sottobraccio e fece segno agli altri di accodarsi, mentre li portava verso una saletta più riparata, dicendo con voce bassa, ma sufficientemente alta da farsi sentire dagli altri presenti: “Come sta il mio figlioccio, il Conte Ottaviano? E la sua cara madre, la Contessa? Da troppo tempo non li vedo...”

E così, mentre raggiungeva una cameretta riservata, il papa riuscì a far credere anche ai più sospettosi che la mancanza di formalità degli ambasciatori di Imola e Forlì era dettata solo da una spiccata amicizia tra la Contessa Sforza Riario e Alessandro VI.

 

Con una scusa, Caterina era riuscita a tenere Giacomo lontano dal Paradiso quel pomeriggio e non si era sottratta a una sessione di addestramento insieme alla guardie della rocca.

In realtà aveva deciso di partecipare all'attività dei soldati sia per dissimulare lo strano stato in cui stava, sia perché la sua mente aveva perso un po' di lucidità, rendendole difficile valutare la sua reale situazione.

Sotto il sole impietoso di quel pomeriggio, la polvere del cortile si alzava e turbinava in grandi folate, mentre la Contessa e le sue guardie scelte tiravano con le spade spuntate. Si erano organizzati per fare un tutti contro tutti, prima di passare ai veri e propri duelli d'allenamento.

Giacomo, com'era ormai sua consolidata consuetudine, stava a lato, appoggiato al palo per i cavalli, all'ombra, vestito di seta e raso come un principe. Anche Ottaviano era presente, quella volta, perché aveva deciso di prendersi un paio di giorni di pausa dallo studio. Sua madre non aveva obiettato, pensando che fosse un bene che suo figlio cominciasse a dimostrare un interesse anche per la vita militare, seppur molto flebile.

Caterina stava parando n colpo alto e, di concerto con un altro soldato, mandò a gambe all'aria un terzo che aveva provato a disarmarla. Quei movimenti, ormai del tutto meccanici, le stavano costando molta più fatica del solito. Si sentiva pesante, rallentata e di quando in quando la vista le si offuscava, facendole perdere per un istante l'orientamento.

Quando l'annebbiamento durò qualche secondo di troppo, la Contessa comprese che non era il caso di proseguire. Alzò una mano, cominciando subito a slegarsi i laccetti del casco di cuoio imbottito e, dando a voce alta la colpa al caldo, chiese di interrompere la mischia per qualche istante.

Le guardie, pronte come sempre a obbedire alla loro signora, smisero tutti contemporaneamente di menar fendenti e assunsero pose più rilassate, per far riposare i muscoli e riprendere fiato.

Caterina, mentre la testa le martellava e la schiena le doleva senza pietà, gettò il caschetto in terra, o meglio, lo sentì scivolargli via dalle mani, e subito cercò di raggiungere un punto d'ombra, certa che sottrarsi al sole sarebbe già stato un ottimo inizio per riprendersi.

Giacomo si era accigliato, nel vederle ordinare così una pausa. Non era da lei. E anche quello sguardo vacuo che stava facendo e il modo incerto in cui camminava...

Quando ancora si stava chiedendo se fosse il caso di convincere Caterina a ritirarsi per riposare un po' al fresco del loro Paradiso, Giacomo vide sua moglie stramazzare a terra priva di sensi, sollevando una nuvoletta di polvere.

Prima che qualcuno degli altri uomini presenti avesse la prontezza di muoversi verso la Contessa che giaceva a terra, Giacomo, con un paio di ampie falcate, la raggiunse, gettandosi sul terreno secco senza nemmeno pensare – una volta tanto – ai suoi abiti dalla foggia pregiata.

Imitando lo slancio del Governatore Generale, praticamente tutte le guardie si affrettarono a chinarsi accanto alla Contessa, cercando di farla rinvenire.

“Presto...!” fu l'urlo strozzato emesso da Giacomo, mentre sollevava di peso la Contessa e, benché ella non fosse propriamente un fuscello, cominciò a correre rapido, decidendo istantaneamente di portarla della sua camera alla rocca, piuttosto che al Paradiso dove sì, sarebbe stata più comoda, ma decisamente più esposta a pettegolezzi e maldicenze: “Portiamo nella sua stanza e chiamate un medico!”

Nel passare proprio accanto a Ottaviano, Giacomo, che teneva stretto il corpo caldo e febbricitante della sua amatissima moglie, incrociò lo sguardo del ragazzino, trovandolo freddo e distante. Il primo, irrazionale, ma comunque plausibile pensiero che attraversò la mente del Governatore Generale fu: 'è stato lui'.

Ottaviano, mentre seguiva con la coda dell'occhio lo stalliere ripulito che portava a braccio sua madre nella rocca, non provava altro se non paura e rabbia. Paura, perché se sua madre fosse stata preda di una malattia improvvisa e incurabile e fosse morta, non ci sarebbe più stato nessuno, tra lui e le sue responsabilità di Conte. E rabbia, perché nemmeno in quel frangente delicato, Ottaviano riusciva a digerire la presenza del maledetto Governatore Feo, né tanto meno riusciva a sopportare il modo in cui quel pezzente aveva mostrato apertamente la sua preoccupazione, gettandosi con solerzia sulla Contessa, come fosse normale, come se non dovesse, almeno per pudore, nascondere al mondo il suo illegittimo attaccamento a una donna che non meritava.

 

“Voglio essere per lui un buon padre – disse Alessandro VI, mentre faceva servire il vino ai quattro ambasciatori della Sforza – e in quanto alla cara Contessa, che non abbia a temere: ho tutta l'intenzione di lasciarle tutto ciò che già papa Sisto IV le aveva concesso.”

Giovanni Delle Selle ringraziò con un cenno la bella serva che gli aveva versato il rosso romano e tornò a fissare Rodrigo Borja, cercando in lui i segni dell'ipocrisia.

“Ho tutto l'interesse a essere buon amico della Contessa e buon padrino per suo figlio, il Conte.” fece Alessandro VI, appena più burbero, ma sempre con il sorriso sulle labbra.

“La Contessa contraccambia la vostra amicizia. Tanto che ha fatto suonare tutte le campane a festa e ha proclamato che in tutte le sue terre si gioisse per l'elezione al soglio pontificio di vossignoria, che siete il padrino di Ottaviano.” fece notare Calderini.

“Certo, certo...” annuì Borja, un po' annoiato da quel teatrino.

Aveva conosciuto abbastanza da vicino la Sforza, per sapere quello che intendeva fare, mandando ambasciatori tanto bellicosi alla sua corte. La Tigre cercava di fare la voce grossa, ma senza inimicarselo troppo. Gli ricordava che era a capo di città poste su una via che, presto o tardi, sarebbe interessata anche a lui e gli faceva capire che era disposta a collaborare, ma solo se lui dimostrava buona volontà.

'Ha una bella testa, non c'è che dire' dovette ammettere nel pensiero Rodrigo, ricordando come costatazioni simili si fossero rincorse nella sua mente anche ai tempi dell'ardita impresa della Sforza a Castel Sant'Angelo.

'Se il prezzo che chiede sarà ragionevole – valutò tra sé il papa, mantenendo un sorriso pacifico di facciata – potrei anche comprarmi la sua lealtà, che mi farebbe di certo comodo...'

“La Contessa ha delle richieste da farvi.” disse Baldraccani, bevendo qualche sorso: “Prima di tutto, un Giubileo di tre anni. Qui c'è l'elenco delle chiese...” e porse un foglio di pergamena autografo di Caterina Sforza.

Rodrigo lesse rapidamente: due chiese francescane, quella delle monache della Torre, quella dei padri priori osservanti... Non era nulla di trascendentale. Era evidente che la Contessa era in cerca di soldi facili per rimettere in sesto qualcosa – probabilmente qualche convento che avrebbe permesso di sottrarre alla fame un po' di forlivesi e imolesi – e un Giubileo era senza dubbio un metodo rapido che non avrebbe gravato sulle casse dello Stato.

Rodrigo stava già per accettare con una certa noncuranza, quando Baldraccani proseguì: “Vuole dei padri confessori da Roma, che possano sciogliere i voti o commutarli e che possano assolvere ogni caso vescovile.”

Alessandro VI a quel punto restò un momento in silenzio. Guardò a turno i quattro che gli stavano davanti, chiedendosi se ci fosse sotto qualcosa di grosso, in quella richiesta.

Era solo un modo per rendersi amica la popolazione? Era la risposta a un bisogno effettivo dei sudditi della Sforza? Oppure era lei stessa a necessitare quei servigi?

Non poteva però rifiutare i padri confessori con tali poteri, se permetteva un Giubileo di ben tre anni...

Doveva decidere in fretta, perché immaginava che la Leonessa di Romagna non avrebbe preso bene un temporeggiamento da parte sua. Con l'aria che tirava a nord, non era il caso di inimicarsi una donna così irruente e così vicina.

Al massimo, si disse Rodrigo, quell'intrigante avrebbe sciolto qualche voto di cui si era pentita o stufata. O magari avrebbe disfatto un matrimonio e in tal caso a nessuno sarebbe importato un fico secco, dato che, se un marito c'era, nessuno ne era mai stato messo ufficialmente al corrente.

“E sia.” concesse il papa, magnanimo, chiamando subito un servo, per cominciare a mettere nero su bianco quel che serviva specificare per iscritto: “Ma il Giubileo durerà un anno. La proroga potrà essere richiesta per altri due, ma la richiesta andrà fatta alla fine del primo dalle monache o dai francescani.” concluse Alessandro VI, che aveva incluso la clausola solo per dimostrare di non aver seguito pedissequamente gli 'ordini' della Sforza.

 
   
 
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