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Autore: SherlokidAddicted    11/08/2016    2 recensioni
[ Wholock | Johnlock ]
- Voglio sapere chi è lei e che ci fa qui. –
- Sono il Dottore! – Dice porgendomi la mano ed aspettandosi che io la stringa, cosa che però non succede. Assottiglio lo sguardo e lo scruto con attenzione mentre, deluso dalla mia mancata stretta, abbassa il braccio e lo riporta lungo il fianco.
– Il suo vero nome. –
- Beh, è questo il mio nom… -
- Non il nome con cui si fa chiamare, ma il suo vero nome, quello che nasconde a tutti da sempre, forse perché ha fatto qualcosa. Oh, allora è così! Ha fatto qualcosa di brutto, qualcosa di inaccettabile di cui si pente, talmente tanto che si vergogna ad utilizzare il suo vero nome e si nasconde dietro un titolo che la fa sentire meno in colpa di quanto vorrebbe, non è così… Dottore? – Gli occhi del mio nuovo conoscente si strabuzzano non appena mi sente pronunciare quelle parole con quel tono indagatore che mette la maggior parte delle persone che mi stanno attorno in soggezione, lui compreso.
- Oh, è proprio bravo come dicono… –
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The side of the Angels'
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Angeli piangenti



Quando è entrato nell’appartamento, seguendomi fino al salotto, si è sfilato il lungo cappotto marrone e lo ha lasciato lungo disteso sul divano. Non ci siamo detti una parola, gli ho solo offerto una tazza di tè. Poco dopo, John ci ha raggiunti. Quando ha visto il Dottore lo ha fissato a lungo, poi ha sospirato e lo ha salutato con un cenno della testa.

Adesso siamo seduti in salotto, ognuno sulla propria poltrona, ma il Dottore ha soltanto deciso di aggirarsi per la cucina e analizzare ogni dettaglio, toccare le nostre cose come se fosse casa sua. Alzo un sopracciglio quando lo vedo afferrare il barattolo di marmellata di limoni. Svita il tappo e ci immerge dentro un dito per poi portarselo alle labbra. Il mio sguardo di rimprovero lo blocca con la mano a mezzaria, quindi sospira rassegnato e lo ripone nello scaffale.

- Prima che lei possa iniziare a spiegarci cosa succede… - Dico dopo un leggero colpo di tosse. – Deve spiegarmi chi o cosa è lei. – Il Dottore aggrotta la fronte contrariato e si avvicina lentamente a noi. Sembra offeso, forse per il “cosa”?

- Vengo da Gallifrey, è un pianeta che si trova nella costellazione di Kasterborous. –

- Non ho mai sentito parlare di questa costellazione. – Esordisce John mentre entrambi lo fissiamo sedersi sul tavolino di fronte al divano.

- Pensavo fossi un esperto in queste cose, John! – Dico guardandolo con delusione.

- Non parliamo del Sistema Solare qui! – Dice il mio amico allargando le braccia con fare disperato, poi si rivolge al nostro conoscente. – Sbaglio? –

- Non sbaglia. Aspetta ma… davvero non conosce il Sistema Solare? – Di nuovo von questa storia! Ancora mi chiedo perché sia importante sapere cosa ci sia al di fuori di questa Terra. Sbuffo sonoramente e butto la testa all’indietro con fare disperato. John risponde per me, affermando che pur essendo un genio non conosco una cosa futile come questa. – Ma è il Sistema Solare! – Esordisce il Dottore con un’espressione mista tra lo sbalordito ed il divertito.

- Non vedo che differenza possa fare, non m’interessa sapere intorno a cosa giriamo. – La risatina del Dottore riecheggia nella stanza, quindi stende le gambe e scuote la testa.

- Oh, se solo visitasse ogni posto di questo universo, sono sicuro che cambierebbe idea. –

- Cosa però impossibile. –

- Non per me. – Sto per controbattere alla sua affermazione, i miei occhi vagano indagatori su di lui, ogni cosa che dice mi lascia spiazzato, ogni scoperta che faccio su di lui mi sembra sempre impossibile, ma lui continua impertinente a parlare. – Sono un Signore del Tempo. Viaggio con la mia nave e vado ovunque ho voglia di andare. E faccio del mio meglio per risolvere certi problemi di natura aliena. – John è perplesso. Ce ne erano capitate tante, di tutti i colori, ma avere a che fare con un alieno… devo ammettere di essere ancora scettico sulla faccenda.

- Che è accaduto a Luke? – Chiede John mentre fa tamburellare le dita sul proprio ginocchio.

- Beeeeh… - Inizia lui, sistemandosi bene gli occhiali sul naso. – Angeli piangenti li chiamano, o assassini solitari. Sono delle creature di un altro mondo, nessuno sa bene da dove provengano, antiche quasi quanto l’universo stesso. All’apparenza sembrano delle normalissime statue di pietra, degli angeli che si coprono il viso, ma non per piangere come tutti pensano. Sono sopravvissuti così a lungo perché appunto hanno un sistema di difesa molto efficiente. Non possono essere guardati. Quando una qualunque creatura vivente posa lo sguardo su di loro diventano letteralmente di sasso, e non puoi uccidere un sasso. – Detto ciò prende la tazza in cui il suo tè ancora fumava. Ne beve un sorso abbondante, poi riprende la sua assurda spiegazione. – Ovvio che un sasso non può ucciderti ma se distogli lo sguardo o batti le palpebre, allora sì che si può. – Mi lascio sfuggire un sorriso completamente incredulo. Tutto ciò sembra così assurdo che è ovvio che non può essere vero… ma ciò che mi stupisce ancora di più è che John sembra credere ad ogni singola parola. – Si nutrono del tempo che una creatura vivente avrebbe potuto vivere senza il loro intervento. Sono velocissimi quando nessuno li vede, ed in grado di afferrarti e catapultarti nel passato. Questo è il modo in cui continuano a sopravvivere. Luke è stata la sfortunata vittima. –

- Un modo per fermarli? –

- Oh, un modo ci sarebbe, ma bisognerebbe prima trovarli. – Ascolto la loro conversazione con fare annoiato, poggiando la guancia sul pugno chiuso e guardando un punto indefinito della parete dietro al Dottore. Cerco con tutto me stesso di sembrare meno indifferente a quei racconti e a quelle parole, anche perché quello strano tipo sembra l’unico in grado di poter mettere in chiaro le cose, ma la faccenda è così assurda che non riesco a crederci. – Non possono guardarsi negli occhi a vicenda, si trasformerebbero in pietra per sempre e resterebbero delle normalissime statue. Quello che dovremmo fare, in sostanza, è questo, soprattutto per evitare altre vittime. – Con un ultimo abbondante sorso, finisce la sua tazza di tè, leccandosi poi le labbra con fare deliziato.

- Non sembra così facile. – Commento con tono annoiato mentre afferro il violino accanto alla poltrona per strimpellare qualcosa con le dita.

- Non lo è, infatti. Li sto ancora cercando, ma sono troppo veloci e mi sfuggono ogni volta che sono sul punto di individuarli. –

- Quanti sono? – Chiede John mentre si alza per recuperare la tazza vuota del Dottore. Lui lo ringrazia con un cenno della testa, piegando leggermente gli angoli della bocca in un leggero sorriso.

- Due, ne sono sicuro. –

- E adesso andiamo a prenderli con la sua navicella spaziale e li riportiamo sul loro pianeta? – Chiedo con ironia, mentre la mia risata fa irritare John che mi fissa con uno sguardo di rimprovero.

Come fai, John? Come fai a fare in modo che io ti dia ascolto? Nella mia vita nessuno ci è mai riuscito: Mycroft, i miei genitori, la signora Hudson… ma perché sembra che tu riesca a farmi credere nelle cose impossibili come queste? Come mai ti do retta come un cagnolino dà retta al suo padroncino?

- Lo scusi. –

- Non c’è da preoccuparsi, molte delle persone che incontro sono scettiche all’inizio. – Mi guarda e si porta l’indice e il pollice sotto il mento, accarezzandone la pelle liscia – Vuole una prova definitiva per potermi credere, vero? – Io lo guardo a mia volta, continuando a muovere le dita sul mio amato violino, ma non rispondo. – La avrà. – Un’altra volta, il mio sorrisino scettico spunta sul mio viso, ma lui sembra non farci abbastanza caso, perché si alza dal tavolino e fa ondeggiare le braccia per sgranchirsele al meglio. – Bene, direi che adesso vado. Devo tornare a cercare queste bestioline, ma mi farò vivo, come al solito. – Mentre lo dice afferra il lungo cappotto marrone e lo indossa.

- Sta già dando per scontato che la aiuteremo a fermarli? –

- Certo che mi aiuterà. – Dice con una naturalezza impressionante. – Sembra che i nostri Angeli abbiano una strana attrazione per questo appartamento. – Detto ciò, varca la soglia e sparisce al piano di sotto, lasciando me e John a fissare sconcertati le scale. Cosa voleva dire con quella frase?

- Che altre prove ti servono? – Mi chiede John, allargando le braccia.

- Delle statue di pietra che si muovono non appena volti lo sguardo… ma ti prego! – Mormoro con voce impastata mentre faccio muovere delicatamente le dita sulle corde per pizzicarle.

Il suo sbuffo mi fa bloccare con le mani sulle corde, apro gli occhi per guardarlo e noto che si è messo di nuovo seduto sulla sua poltrona. Ha chiuso gli occhi e si sta massaggiando le tempie con una mano. Conoscendomi avrei continuato a suonare, anzi… mi sarei alzato, avrei preso l’archetto e sarei andato davanti alla finestra per farlo, ma non questa volta. Capisco che ha l’emicrania. Ne soffre spesso da quel giorno.

È buffo sotto un certo aspetto, se ci penso. Passo la vita con dei serial killer alle calcagna, affrontando pericoli di ogni genere, e ciò che uccide Mary e la piccola… è un ubriaco alla guida. Magari non è buffo ma visti tutti i rischi che corro, come può accadere che qualcosa della vita mondana ti porti via ciò che ami?

Posso ancora benissimo ricordare quel periodo, o meglio, quel giorno.

Era notte fonda, io non stavo dormendo, ero impegnato nei miei esperimenti. Stavo sistemando sul vetrino una sostanza trovata sul corpo di una vittima a Hyde Park, quando dalla porta d’ingresso sentì un continuo battere di pugni che mi fecero sussultare dalla mia postazione. Fui tentato di urlare alla signora Hudson di andare a controllare, ma sapevo quanto la mia padrona di casa avesse il sonno pesante, durante la notte. Quindi mi alzai con uno sbuffo. Tutto potevo immaginarmi: un cliente disperato, magari con un problema di cuore, o con un problema abbastanza serio visto il modo in cui bussava, ma mai mi sarei aspettato di trovare John in lacrime disperate, a testa bassa e che si reggeva allo stipite della porta, quasi nell’orlo di una crisi di nervi.

Mi si aggrappò al collo in un abbraccio stretto, poi pianse sulla mia spalla finché non lo trascinai in casa. Sul mio viso si poteva notare la preoccupazione e l’ansia.

- John, che è successo? – Gli chiesi, prendendogli il viso fra le mani. Incrociai i suoi occhi e lessi il suo dolore, un dolore atroce.

Me lo raccontò. Mi disse che quella sera erano tornati a casa in auto, che lui era sceso per primo per aprire la porta d’ingresso, lei era rimasta a prendere le ultime buste della spesa, abbassata verso il sedile posteriore. Accadde tutto in un attimo.

Era morta sul colpo, e con lei anche la bambina in grembo. Non ebbe il tempo di arrivare in ospedale, era troppo tardi.

Poggio di nuovo il mio violino sul pavimento, accanto alla mia poltrona, poi mi alzo con calma e raggiungo la sua. Si accorge che mi sono avvicinato solo quando emetto un leggero tossicchio, al quale lui apre gli occhi e solleva leggermente la testa per puntarli su di me.

Che strana sensazione, quando mi guarda.

- Tutto bene? – chiedo, cercando di sembrare annoiato, ma qualcosa di me fa intuire che non lo sono affatto, che mi sto preoccupando davvero per lui.

- Perché me lo stai chiedendo? –

- Per iniziare una… conversazione? – Mormoro, non risultando abbastanza convincente, motivo per cui lui inizia a ridacchiare, spostando la mano dalla fronte per poggiarla sul bracciolo della poltrona.

- Una conversazione? –

- Si fa così, no? – John si alza e, con mio notevole disagio, finisce proprio di fronte a me, siamo talmente vicini che quasi i nostri petti si sfiorano.

Controllo, Sherlock, controllo!

Cerco con tutto me stesso di mantenere quell’espressione fredda e sicura, ci riesco quasi perfettamente… dico quasi perché non riesco a contenere alcune reazioni del mio corpo, non sto qui ad elencarvele perché le trovo strane e inusuali io stesso. Per fortuna, sembra non notare nulla.

- Ascolta, Sherlock. Mi fa piacere che tu ti preoccupi per me, ma non devi, io sto bene. –

- Io non mi sto preoccupando… e comunque non stai bene, hai l’emicrania. – John accenna un sorrisetto divertito, poi scuote appena la testa.

- Sei preoccupato, e sto bene, devi stare tranquillo. L’emicrania passerà. – So che non è così, ma non voglio controbattere per nessun motivo, ed è così strano perché controbattere è una delle mie specialità.

Poco dopo, mi afferra la mano, e nello stesso momento sento il cervello scollegarsi dalla realtà. Non mi sembra di ragionare razionalmente, il mio respiro si è mozzato senza che io riuscissi a mantenere quell’aria da persona fredda e distaccata.

- Adesso sembra che sia tu a non stare bene… - Mormora lui, con le sopracciglia aggrottate. È confuso, ma anche preoccupato, e… dannazione, non riesco a smettere di guardargli le labbra. Così sottili, così belle.

Chissà come starebbero sulle mie…

D’un tratto, un movimento nella stanza mi distrae e mi fa tornare lo Sherlock di sempre. Appena alzo la testa e guardo dietro il mio amico, mi accorgo che non siamo più da soli.

Proprio in cucina, accanto al frigorifero, mi accorgo con mio grande stupore, che una statua di un angelo è apparsa dal nulla. È proprio simile a quelle che il dottore ci ha descritto, si copre gli occhi con le mani e tiene le ali leggermente aperte.

John non capisce il perché del mio cambiamento di espressione. Sono sicuro che se potessi guardarmi in questo momento, avrei gli occhi strabuzzati come mai li ho avuti. Quindi si gira, e quando nota quello che ho visto io, fa un balzo all’indietro, gridando un “Da dove cazzo è sbucata fuori?”

Io sono imbambolato, continuo a fissarla e non riesco a spiegarmi tutto ciò. Mentre John si guarda intorno per controllare che non fosse passata da qualche finestra lasciata aperta, io chiudo gli occhi e scuoto la testa, cercando in tutti i modi di svegliarmi da quello che credo sia solo un sogno.

Quando li riapro, la statua è a 50 centimetri da me, le mani protese in avanti, come a volermi afferrare, la bocca spalancata che lascia intravedere i denti appuntiti come quelli di un cane rabbioso. Con un urlo indietreggio e John, distratto dal mio lamento spaventato, mi raggiunge e si mette davanti a me, come a volermi difendere.

- Come diavolo è riuscita a muoversi? Cristo, Sherlock, continua a guardarla. – Le parole sembrano essermi morte in gola, perché non emetto alcun suono, ma decido di seguire il consiglio di John e non le stacco gli occhi di dosso. – Che facciamo adesso? – Subito dopo averlo chiesto, la stanza viene inondata da una folata di vento. Intorno a noi fogli di giornale, documenti e cartacce si diffondono sul pavimento come sospinti da esso. D’un tratto uno stranissimo e forte rumore ci costringe a coprirci le orecchie. È seguito dal suono di una porticina cigolante che si apre e, senza che nessuno se lo aspettasse, la voce del Dottore ci arriva forte, chiara e rassicurante.

- Indietreggiate verso la mia voce, ma continuate a guardarla. Fate presto! – Ubbidiamo subito e cerco di indietreggiare, allungando le braccia all’indietro per non andare a finire su qualcosa. Mi sento afferrare dal Dottore e sospingere dentro quella che sembra una cabina telefonica blu della polizia. Finisco seduto sul pavimento, per colpa della forte spinta dell’uomo. La porta viene chiusa subito dopo l’ingresso di John. Ciò che vedo davanti a me va oltre l’impossibile.




Note autrice:
Buonassssera gente, come state?
Puntuale di nuovo. Che ne pensate di questo incontro con gli Angeli?
Secondo voi, come reagirà Sherlock alla vista del Tardis?
Al prossimo chapter
  
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