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Autore: Mirin    16/08/2016    0 recensioni
Yoshino Yukinohana, un brillante procuratore distrettuale della misogina e razzista Tokyo. Shikaku Nara, geniale fisico teorico le cui idee sono inevitabilmente destinate a cambiare il mondo in modo radicale. Shibi Aburame, uno dei migliori avvocati della capitale nipponica, l'anima nera quanto il colore della pelle, o così pare, l'esemplificazione vivente secondo la quale nulla deve per forza rimanere com'è.
Dal capitolo quarto:
“L’avvocato Aburame non è stupido” Yoshino ribatté, cercando di trattenere un ringhio, “di certo non si farebbe infinocchiare in questo modo.”
“Yoshino, io sono un uomo” Tarou si inclinò verso di lei, gli occhi scuri, non particolarmente belli, brillavano, “ed un uomo non guarda così tutte le donne. Una bella donna la si fissa, ci si compiace della sua fisicità, ma lui era… ipnotizzato da te.”
[...]
“Lei vuole che io lo seduca” Yoshino tradusse, un cipiglio da falco inaspriva la dolcezza orientale dei suoi connotati. “Lei vuole che io giochi con lui come il gatto col topo."

[ShikakuXYoshinoXShibi - ispirato a Rinne, Your Other Self di Kiarana]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Shibi Aburame, Shikaku Nara, Yoshino Nara | Coppie: Shikamaru/Ino
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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GLI AVVERTIMENTI VALGONO SEMPRE, QUINDI PROCEDETE CON CAUTELA, EH?
 

7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 9.18


“Dimmi che hai un po’ di tempo per me” attaccò Asuma, perentorio, dall’altro capo della comunicazione.
Yoshino roteò gli occhi. “Ti bastano dieci secondi?”
Era fuori dalle doppie porte del Tribunale minore. La difesa di Tokuma aveva richiesto un incontro con il pubblico ministero -ovvero lei- per discutere delle prove rimaste all’accusa. Ovviamente, l’avvocato sapeva che il tutto era solo una tattica di Shibi per temporeggiare: aveva ancora il coltello dalla parte del manico e questo non poteva non farla sentire deliziosamente esaltata.
“No, bambolina” Asuma sbuffò, “vediamoci al distretto. Ti va bene per pranzo?”
“Sì, penso di riuscire a liberarmi per mezzogiorno” rispose lei. “Mi porti fuori, vero?”
“Certo, e ti offro pure champagne ed aragosta se poi ti fai mettere a novanta, miss Tacchi a spillo.”
“Perché devi sempre rovinare ogni nostro momento?”
“Perché sei una delle poche donne che sta al gioco.”
La Yukinohana non poté non sorridere. “È comunque una battuta di pessimo gusto. Ci vediamo dopo.”
Asuma la salutò di rimando, riagganciando. Forse stava ridacchiando anche lui.
La signorina attese qualche minuto il direttore del proprio ufficio, Nakajima Tarou. Quel caso contro gli Hyuuga era importante per la procura ed anche se lei si era occupata delle indagini assieme alla polizia, non aveva potuto compiere un passo senza la stretta sorveglianza del suo jyuuyaku, il coordinatore.
Tarou-san era un brillante avvocato, ma ormai aveva fatto il suo tempo e preferiva occuparsi della criminalità da dietro le quinte: gli piaceva indulgere nel cibo greasy e nel gioco e, dopo la morte della moglie, era un cliente abituale delle donnine allegre. Era un uomo buono, fondamentalmente, ma un po’ troppo vizioso per i gusti di Yoshino. D’altro canto, il suo gusto per le belle ragazze l’aveva portato a sviluppare quel senso di protezione che ora provava per lei, quindi non poteva lamentarsi.
Si vide raggiungere a piedi da un ometto grasso col fiatone, quindi sorrise. Eccolo là.
“Tarou-san” lo salutò lei, porgendogli la mano. “Trovato traffico?”
“Sì. È incredibile quanta gente ci sia per strada a quest’ora” rispose l’uomo, burbero, stringendole le dita di rimando. “Aspetti da molto?”
“No, si figuri” Yoshino zittì le sue scuse con un gesto conciliante della mano, “entriamo?”
“Certamente” lo sguardo castano di Tarou si affilò. Lo spirito di giustizia che lo animava era una delle cose che Yoshino più ammirava di lui, nonostante i suoi parecchi difetti. A differenza della sua kohai, però, Tarou era più esperto nella messa in pratica della regola ‘buon viso a cattivo gioco’; questo, nella sua carriera all’interno del sistema giuridico, lo aveva aiutato parecchio, mentre l’impulsività di Yoshino le aveva sempre remato contro.

La donna si prese un secondo per osservarli da dietro il vetro. Un uomo che lei immaginava fosse Hyuuga Hiashi, in piedi dietro al suo avvocato, indossava un appariscente completo grigio perla opaco, scarpe di camoscio ed un orologio d’oro che sembrava più un lingotto sciolto sul polso. Nel complesso, Yoshino doveva ammettere che non stava male, era semplicemente troppo chiassoso per i suoi gusti.
Shibi, invece, era vestito di una giacca grigia scura abbinata a pantaloni stretti dello stesso colore, camicia bianca ed una cravatta scarlatta. Era seduto dietro al tavolo della stanza, le scarpe italiane di pelle nera erano appoggiate saldamente al pavimento, mentre le dita cariche di anelli -due sulla mano destra e tre sulla sinistra- sostavano intrecciate davanti al volto. Sembrava estremamente concentrato, cosa che non sorprese Yoshino: anche lei aveva raccolto tutta la sua attenzione nel cammino dalla strada all’ufficio.
Tarou le aprì la porta con fare da gentiluomo e Yoshino, dopo avergli rivolto un cenno con la testa di ringraziamento, entrò.
“Buongiorno, Hyuuga-san, Aburame-san” esordì lei con atteggiamento spigliato e voce squillante, “io sono l’avvocato Yukinohana Yoshino e presiedo al caso Ichiraku. Lui è il mio supervisore, Nakajima Tarou.”
Hiashi strinse la mano a lei, mentre Shibi -in piedi- era occupato a stringerla al suo capo. Nel medesimo istante, Yoshino si rese conto che in pochi secondi avrebbe dovuto porgere la mano anche al suo avversario. Sentì una stretta allo stomaco, ma la nascose perfettamente.
Allungò il braccio verso l’altro avvocato, uno sguardo di sfida, come a sussurrargli ‘vediamo se ne hai il coraggio’. Shibi, d’altronde, non esitò nemmeno un momento: il contatto fu breve, ma Yoshino percepì tutta la sua forza. La Yukinohana flesse il bicipite, imprimendo tutta la sua sicurezza in quel gesto. Si guardarono negli occhi per tutto il tempo, cercando un segno di debolezza, ma non ce n’erano. La donna si chiese se quello sfioramento non lo turbava per davvero o se fosse un così bravo attore.
Si sedettero tutti e quattro, i due avvocati l’una di fronte all’altro, mentre i rispettivi accompagnatori stavano alla loro destra.
“Come saprà, miss Yukinohana-”
“Chiedo scusa, avvocato Aburame, ma preferisco che mi ci si rivolga come avvocato Yukinohana.”
Shibi acconsentì con un gesto del capo. “Mi perdoni, avvocato Yukinohana. Come stavo dicendo, io ed il mio cliente abbiamo richiesto questo consulto alla pubblica accusa per valutare la situazione attuale del caso.”
“Potrebbe spiegarsi meglio?” Yoshino fece la finta tonta. Sapeva bene dove Shibi voleva andare a parare.
“Perdoni la franchezza, avvocato” l’uomo allargò le braccia, cercando di apparire ancora più dominante, non solo con le parole ma anche attraverso la propria gestualità, “ma senza Gotta la vostra linea d’accusa non regge. Il vostro migliore testimone è stato sfortunatamente dichiarato non idoneo a presiedere all’udienza preliminare e senza di lui le vostre prove sono circostanziali e dunque irrilevanti ai fini del processo.”
Yoshino sentiva la pressione che Shibi stava esercitando su di lei con il suo discorso. Le stava mettendo ansia, ricordandole che in quel momento aveva poco o nulla per incriminare Tokuma. Le analisi del sangue di Ayame avrebbero rilevato la presenza di una dose di Rohypnol nel suo sistema circolatorio, ma se nessuno aveva visto Tokuma versarlo nel suo drink, non poteva di certo provare che fosse stato lui a somministrarglielo. Le telecamere di sicurezza purtroppo non avevano registrato nulla di compromettente, mentre il barista che era intervenuto a separare Ayame dal suo aggressore, l’unica altra persona che aveva visto i fatti, non aveva voluto testimoniare contro gli Hyuuga.
Il sorriso di Yoshino si allargò, schiacciando ogni suo timore al momento. ‘Mostrati sempre sicura delle tue capacità, Snowdrop. Questo farà innervosire i tuoi avversari e gli farà credere che sarai sempre tu ad avere la posizione predominante.’
“Il pubblico ministero si preserva i prossimi giorni per rielaborare la propria linea d’accusa” Yoshino spiegò educatamente, “quando sarà il momento, ci premureremo di informare la difesa. È tutto?”
“Veramente no” lo Hyuuga si intromise, una mano poggiata sul tavolo, il corpo di poco sporto in avanti, “nel caso in cui non aveste prove per incriminare il mio… parente… le accuse sarebbero ritirate, è esatto?”
“Senza dubbio” confermò la donna avvocato, “il processo sarebbe archiviato e Tokuma-san scagionato.”
“E della sua fedina penale?” chiese ancora Hiashi, lo sguardo penetrante fisso su Yoshino. Il suo accento era molto più pulito di quello del suo difensore legale ma, nonostante tutto, non possedeva la sua eleganza nel parlato. Era una differenza che nessuno se non un avvocato poteva notare, ma Hiashi era più rozzo, più indelicato, meno sottile: il suo corpo parlava ed esprimeva la tensione del momento, voleva avvicinarsi ai due magistrati in cerca di risposte chiare, misurandosi con loro in un campo meno pericoloso di quello della dialettica. Shibi, al confronto, era una statua.
“Fino a quando non sarà dichiarato colpevole, non correrà rischi riguardo a questo processo” chiarì Tarou, catturando l’interesse di Hiashi.
“Se mai venisse dichiarato tale” aggiunse Shibi in tono casuale. Gli occhi di Yoshino si ridussero a due fessure.
“Le probabilità non sono così scarse quanto crede, avvocato Aburame” ribatté con asprezza, “un processo può sopravvivere anche senza un testimone oculare.”
“Senza dubbio” accondiscese l’uomo dalla pelle scura. I suoi occhi brillavano di una luce divertita che le faceva venire i nervi a fior di pelle. “Ma i casi sono molto rari ed inoltre si suppone che l’accusa sia in possesso di prove davvero schiaccianti, cosa che al momento non risulta.”
“Crede che questa sua aria proterva possa aiutarla nel corso del processo, avvocato Aburame?” Tarou le lanciò un’occhiata ammansente, che Yoshino ignorò.
“Temo che questi non siano affari che la riguardano, avvocato Yukinohana” Shibi mise insieme una falsa espressione contrita, “piuttosto, se mi è concesso darle un consiglio, fossi in lei mi concentrerei sul cercare delle prove degne di questo nome… e da un punto di vista professionale, evitare di dare in escandescenze davanti alla giuria.”
Dannatissimo schifoso figlio di puttana! “Dare in escandescenze? Non sono mai stata così calma.”
“Eppure ha il collo proteso, gli occhi lucidi” lui analizzò, quel suo sorriso mellifluo ancora al suo posto, “il respiro leggermente accelerato e la mano serrata attorno all’avambraccio. Sembra che qualcosa la irriti profondamente. Forse, proprio questa mia… mh, come l’ha chiamata?... ah sì, aria proterva?”
“Lei è davvero molto bravo a leggere gli altri” Yoshino gli riconobbe. Cercò di sciogliere il più possibile la sua postura, accavallando le gambe. “Eppure, se mi permette, nemmeno lei è così rilassato come ci tiene ad ostentare. La sua mascella si contrae quando è in silenzio e l’ho vista deglutire almeno cinque volte nell’ultimo minuto. Gola secca?”
Le iridi nere dell’avvocato sembravano più profonde mentre si fissavano in quelle nocciola del suo avversario. Il ghigno lezioso cedette per un istante, poi ricomparve. “Fa molto caldo oggi” spiegò, “e purtroppo questi vestiti non sono affatto comodi. Credo che Nakajima-san possa comprendere la situazione, non è così?”
“Allora è il caso che vi liberiamo in fretta da questo impiccio” Yoshino si alzò in piedi, seguita dal suo superiore che si aggiustò la cravatta, “non credo che ci siano altre questioni aperte, mi sbaglio?”
“Assolutamente” chiarì il legale dalla pelle nera. “Buona giornata.”
Hiashi uscì per primo, scuro in volto. Tarou-san si avviò verso l’uscita davanti a Yoshino, prima che Shibi la richiamasse: “avvocato Yukinohana, ancora una parola, per favore.”
Yoshino si voltò indietro, Tarou la imitò. Vedendo che Shibi non accennava a parlare, il procuratore mandò avanti l’altro uomo. I due si scambiarono una serie di sguardi, parlando silenziosamente: Tarou le intimò di non fare niente di avventato, Yoshino lo rassicurò che non c’era nulla da temere. Non aveva forse dimostrato di saper tenere testa al suo avversario?
“Prego, avvocato Aburame” la donna lo invitò a riprendere il discorso, avvicinandosi alla scrivania in equilibrio sui tacchi a spillo. Mentre osservava il suo volto squadrato, mascolino, la travolse la consapevolezza del fatto che erano soli per la prima volta dopo anni. Si sentiva estremamente a disagio in quella situazione, ma cercò di non farlo notare a lui: avrebbe potuto usarlo a suo vantaggio.
“Se avesse bisogno di contattarmi in merito a qualunque cosa riguardante il caso, non esiti a chiamarmi” lui trasse da una delle tasche interne della giacca un biglietto da visita. Il profumo ricco ed intenso del suo dopobarba colpì le narici di Yoshino mentre prelevava il cartoncino dalle sue mani di velluto scuro.
“Su tutti i biglietti da visita segna il suo numero privato?” lei lo stuzzicò, sollevando un sopracciglio. “Immagino che sarebbe sommerso di telefonate, se fosse così.”
“Solo se desidero essere costantemente informato riguardo alla materia in questione” il suo sorriso ora era molto meno artificioso, più caldo. “E lei, zelante com’è, non ha la stessa sensazione?”
“Ammetto che mi succede” Yoshino si morse il labbro. Che diavolo stava facendo? Non stava mica flirtando con Shibi?
“Se mi desse il suo numero, la comunicazione sarebbe molto più agevole” Shibi azzardò. Da come teneva le spalle contratte, Yoshino dedusse che fosse parecchio sulle spine nonostante il tono disteso.
“Ha quello del mio ufficio, no?” il sorriso che gli scoccò era languido mentre gli voltava le spalle, “e, a proposito, avvocato Aburame, sta continuando a deglutire. Ipotizzo che la gonna corta le faccia sempre lo stesso effetto.”
Shibi rise. “È ancora una brillante deduttrice, avvocato Yukinohana. Ma lei si è accorta di quanto le tremano i polsi ad osservarmi le mani?”


7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 10.16


“Regola numero sette dell’Istituto Sarutobi: è vietato introdurre all’interno delle aule, degli uffici e dei Dipartimenti bevande alcoliche di qualunque tipo” recitò Inoichi, scribacchiando furiosamente su un foglio di carta.
“Allora brindiamo al nostro problema di alcolismo!” gridò Chouza festoso. Sollevò in aria il proprio bicchiere e colpì con un rumore secco di vetro quello del compagno biondo, poi quello di Shikaku.
“Brindiamo anche alla Diciannovesima Conferenza Mondiale sulla Fisica Teoria di Los Angeles” aggiunse Inoichi con un sorriso. “Tra pochi giorni abbandoneremo i nostri letti vuoti-”
“Parla per te.”
“Già, infatti.”
“-per respirare l’aria frizzante di scienza e sperimentazione!” lo Yamanaka non si fece abbattere dai commenti dei suoi due migliori amici e colleghi. Certo, sapeva che Chouza era sposato da un ventennio e Shikaku, dal canto suo, conviveva con la sua compagna da altrettanto tempo, ma lui dopo l’esperienza con Perdita aveva deciso di lasciar perdere le donne. L’unica donna della sua vita era la sua Irene, ma lei sembrava preferire la sua assenza, ed Inoichi poteva capirla: non era mai stato bravo quanto gli altri due a fare il padre.
“Ancora una volta senza niente tra le mani” specificò un po’ amareggiato Shikaku, gettando il capo all’indietro contro lo schienale alto ed imbottito della sedia girevole.
“Non dire queste cose” lo esortò il compagno paffuto con una forte pacca sulla spalla, “siamo solo stati sfortunati quest’anno. E poi parli proprio tu, che hai avuto quella sovvenzione ridicola dall’Università dopo la tua ultima equazione!”
“Quattro anni fa” precisò il Nara.
Si versò un altro bicchiere di sakè, Inoichi e Chouza si scambiarono uno sguardo: c’era di sicuro qualcosa che turbava Shikaku. Fino a qualche giorno prima, non poteva chiudere bocca riguardo a quanto strafiga sarebbe stata quella convention, di quanto si meritassero una pausa dal lavoro, di quanto orgoglioso sarebbe stato mostrando a Shikamaru parte del loro mondo in cui lui si accingeva ad entrare.
“Hai sentito?” l’Akimichi si rivolse al padre di Irene, “pare che uno dei team della California Institute of Technology stia lavorando a qualcosa di grosso che presenterà alla Conferenza. Dannati americani, sempre un passo davanti a noi!”
L’esca era stata tirata. Se c’era un’occasione che Shikaku non si lasciava mai sfuggire era quella di inveire contro gli abitanti del Nuovo Continente. Giapponese fiero e orgoglioso com’era, la xenofobia faceva parte del suo patrimonio genetico: uno dei motivi per cui lui e Yoshino spesso si trovavano a litigare. ‘Se parteggi per quelli là non sei una vera giapponese!’ biascicava lui, parecchio ubriaco, al che la sua donna lo mandava a spezzarsi la schiena sul divano.
Dopo il secondo minuto di silenzio tombale, Inoichi si piazzò davanti a lui.
“Okay, parliamone” poggiò un piede sul bordo della sedia del Nara, inclinandola verso di lui, “sono pronto a giurare sui miei capelli tinti che sia successo qualcosa a casa tua. Qualcuno sta male?”
Shikaku scosse il capo. “Dai Ino, lascia perdere.”
“Non lascia perdere un cazzo!” sbottò Chouza, “amico, non ti vedo così da quando la nazionale giapponese ha perso contro la Cina a basket nei Giochi Asiatici dell’anno scorso. E tutti in questa stanza sanno quanto hai pianto nel tuo fazzoletto i settemila yen che avevi scommesso contro Zhou del Dipartimento di Storia.”
Inoichi inclinò la testa, cercando di leggere l’espressione di Shikaku. “A me sembrano pene d’amore. Ricordo che avevo la stessa faccia quando Dita mi ha cacciato di casa la prima volta.”
Shikaku sospirò. Odiava quando quel coglione di Inoichi iniziava a parlare di Perdita, gli veniva una stretta al cuore per la pena. Certo, ormai tirava fuori l’argomento ‘Dita’ ogni volta che voleva scansarsi un fosso -fosse una cena con il resto del Dipartimento o un incontro con i suoi genitori ad Osaka- e la stessa Yoshino lo prendeva a calci nel sedere fino al luogo da lui evitato, ma nonostante tutto Shikaku ricordava bene la sofferenza di Inoichi quando, tornato di nuovo in Giappone con la piccola Irene, l’aveva affidata alle cure sue e della sua consorte. Non poteva negargli nulla, non con quell’immagine stampata in testa.
“È successa una cosa con Yoshino” confessò lui, evitando lo sguardo degli altri due.
“Avete litigato?” chiese Chouza, poco convinto. Quei due litigavano di continuo, l’altro non sarebbe così demoralizzato per un semplice battibecco. Certo, nel corso della storia della loro coppia c’erano stati scenari parecchio distopici, con Yoshino che se n’era andata di casa per qualche giorno, ma ne avrebbe sentito parlare da Shikamaru quando era andato a stare da lui un paio di giorni prima.
“No, affatto” Shikaku prese un bel respiro, “riguarda la sua ultima causa. Ve ne ha parlato, no? Il processo contro la famiglia Hyuuga.”
“Sì, ne ho letto anche sul giornale” Inoichi annuì, “sembra una cosa bella tosta. Ma che c’entra il suo lavoro, scusa? Dici sempre che è una manna il fatto che ti lasci la casa libera!”
“Sì, ma il suo avversario… l’altro avvocato, cioè…” una ruga profonda incise la fronte dell’uomo “…è quel negro bastardo.”
“COSA?”
“NON FARAI SUL SERIO!”
Le facce di Inoichi e Chouza dicevano abbastanza dei trascorsi del trio con il primo fidanzato della sua compagna. Quel pomeriggio di ottobre di ventidue anni prima era marchiato a fuoco nelle menti di tutti loro -e non solo nella mente, nel caso di Shikaku. Gli amici erano in disaccordo su diversi argomenti, il che era normale, non potevano di certo concordare su ogni cosa, altrimenti quell’amicizia non sarebbe sopravvissuta trent’anni; ma l’unica cosa su cui le loro idee convergevano era sull’astio comune contro Aburame Shibi.
“Chi pensava che avremmo mai sentito parlare di Tuentiiuanu-shi dall’ultima volta?” Inoichi era seduto all’indiana sulla scrivania di Shikaku, le braccia conserte e l’aria seria sul volto.
“Non chiamarlo Tuentiiuanu-shi, Mr. Twentyone, mi fai venire i brividi” Chouza lo guardò male, versandosi altro sakè, “chiamalo col suo nome: negro bastardo.”
“E Yoshino? Nel senso, lei com’era quando l’ha detto?” il tono di Inoichi era di partecipazione nei confronti del compagno con i capelli neri, “era tipo: ‘sai, il mio avversario è Tuentiiuanu-shi’ o tipo ‘sai, il mio avversario è Tuentiiuanu-shi’ ?”
“E quale sarebbe la differenza?”
“Che il secondo è più malizioso!”
“Ma che cazzo hai nel cervello, la segatura? E ti ho detto di non chiamarlo Tuentiiuanu-shi!”
“Me l’ha detto a letto” rivelò Shikaku, “dopo che avevamo fatto sesso. Non che volesse farlo, l’ho costretta io. Era frustrata e volevo sapere perché… e lei se ne esce sussurrando il suo nome.”
Inoichi e Chouza si scambiarono un altro sguardo. Doveva essere stato un bello shock per l’uomo con il volto sfregiato, venire a sapere in una situazione così intima il ritorno di un nemico che aveva creduto sconfitto per molto tempo. Sinceramente, fosse stato Chouza in quel casino, si sarebbe precipitato nudo a casa di Shibi per spaccargli la faccia ed intimargli di stare lontano dalla sua donna. C’era anche da dire che Chouza era parecchio più alto di Shikaku, che dall’alto del suo metro e settanta non poteva competere col metro e novantacinque di quel bastardo.
“È solo un bastardo, Shikaku” Chouza fece per afferrargli la spalla, poi si rese conto che il compagno non avrebbe gradito, “un hafu. Senza offesa, Inoichi.”
Inoichi fece una smorfia come se avesse succhiato un limone, ma invitò a gesti Chouza ad andare avanti.
“Tu e Yoshino avete superato cose peggiori di questa. Un bastardello negro con gli occhi a mandorla non te la porterà via. Lei è una madre di famiglia, una donna responsabile e cavolo, Shikaku, è persa per te. Lo ha già lasciato una volta per stare con te. Credi che dopo vent’anni tornerebbe con quello?”
Shikaku lasciò che un sorriso mozzo curvasse le sue labbra sottili. “No. Non se è sana di mente.”
Ovviamente, tutta quella sicurezza di cui faceva sfoggio era minata alla base dalla consapevolezza di quanto Yoshino fosse fuori di testa, all’epoca, per quel fottuto negro. Yoshino era innamorata di lui, innamorata persa, e lui di lei. Era passato tanto tempo, tanto abbastanza da considerare quel passato morto e sepolto, ma aveva visto con i suoi stessi occhi l’ansia che l’aveva assalita durante il suo racconto degli avvenimenti in aula. Altri avrebbero creduto fosse paura di lui come avvocato, ma non il compagno che aveva vissuto con lei per due decadi: Yoshino era terrorizzata dal fatto che, contro di lui, non sarebbe riuscita a dare il massimo. Perché? Perché, nonostante quello che Shikaku aveva ipotizzato fino alla settimana prima, i ricordi della sua vita precedente erano ancora vivi e vegeti. Ed anche quelli di Shikaku.

 

24 giugno 1994, Campus dell’Istituto Sarutobi, Tokyo, Giappone sud-occidentale.


“Ti sei divertita stasera, Yoshino-chan?” Shikaku era alticcio, ma abbastanza in sé per riaccompagnarla a casa, nel suo mini appartamento all’Università Senju, in mezzo ai ricconi ed agli snob. Lei non era ricca di famiglia, si manteneva grazie alle borse di studio ed ai lavori che svolgeva presso la sede della ‘azienda legale’ del padre del suo fidanzato, quel negro di Aburame Shibi. Questo la rendeva ammirevole agli occhi di Shikaku… e per questo ancora più dannatamente desiderabile.
“È stata una serata parecchio piacevole” Yoshino gli sorrise, il rossetto della sua migliore amica Tsume le macchiava la guancia destra. “E grazie per esserti offerto di riaccompagnarmi, se fossi andata via con Tsume forse non ci sarei nemmeno mai arrivata, alla Senju.”
Shikaku si perse mentre la guardava. Cazzo, cazzo, era così bella. Come era riuscito quel tizio a beccarsi una perla così rara, così pura?
“Shikaku-sempai.”
“Eh?”
“Devi ancora mettere in moto.”
Shikaku scosse la testa. “Già, già… è che sei davvero stupenda stasera, Yosh.”
“Grazie” rispose lei, cortese, allacciandosi la cintura di sicurezza. Era educata, ma fredda.
“Non avrò mai una chance, non è così?” Shikaku lo disse in tono leggero, ma si sentiva davvero male. Era la prima volta che soffriva per una donna, e quella donna era una studentessa dell’università rivale che stava da anni con un hafu di colore. Non riusciva a crederci.
Lei sospirò. “Shikaku-sempai, con te mi diverto molto, è bello… quello che abbiamo.”
“Ma?”
“Ma sceglierò sempre lui. In qualunque occasione, a qualunque bivio, io sceglierò sempre Shibi. Lui è quello che voglio e quello che ho sempre desiderato. Non riesco ad immaginarmi la mia vita senza di lui.”


 
Ancora a distanza di anni ricordava quella frase, quello sguardo smarrito che lei aveva ogni volta che parlava di lui, l’aria innamorata dipinta sul suo volto quando lui la stringeva a sé. Chiunque avesse visto Shibi e Yoshino da ragazzini avrebbe detto che avrebbero passato l’intera esistenza assieme; eppure Yoshino era con lui, aveva scelto lui. Non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, date le circostanze.
Shikaku sapeva, però, perché era così odiosamente in pena. Dopo vent’anni, Shibi aveva ancora un vantaggio su Shikaku, un vantaggio che lui stesso era inconsapevole di avere: il vantaggio costituito da una bugia troppo grande per non essere fermentata in una bomba ad orologeria.

7 giugno 2015, Quartiere di Ikebuko, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 12.21


La Miss aveva detto di non potersi fermare a pranzo, quindi si stavano concedendo un veloce aperitivo al chiuso in un angolo del bar, sotto al condizionatore.
“Allora, quali sono queste novità importanti?”
Asuma stava bevendo con calma la sua soda all’uva. Adorava quella roba, era una delle poche bevande spazzatura che davvero gli piaceva. Era aspra e dolce allo stesso tempo, frizzante in bocca, e poi sapeva abbastanza di uva da ricordargli un po’ il vino. Certo, la mancanza di alcool era un grosso problema, ma per uno che si stava disintossicando era l’unica cosa che potesse permettersi. Già quel sorso di Cuba Libre la sera prima lo aveva fatto sentire in colpa per ore, non era proprio il caso di sgarrare.
“Prima di tutto, Miss Tacchi a spillo, sono dispiaciuto di informarti che in questo locale non servono aragosta ed è troppo presto per lo champagne” Asuma ghignò, “quindi rimanderemo la nostra piccola seratina di divertimento alla prossima.”
“Dai, Asuma, non ho tempo da perdere, muoviti” la signorina sembrava irritata. Asuma immaginava ci fosse qualcosa che avesse pestato la coda alla piccola cerbiattina, quindi decise di non inimicarsela per quell’oggi.
“Poi, ho delle novità su Tokuma” aggiunse. “Pare che il nostro caro vecchio amico si sia chiuso in casa e non accetti di vedere nessuno. Secondo un mio informatore-”
“Perché sento che sei andato a letto con questo informatore?”
“Hai detto tu di spicciarmi, no? Questo non è un dettaglio importante” il Sarutobi si diede un certo tono, sollevando un sopracciglio. “Il dettaglio importante, piuttosto, è che è un altro a gestire la sua fetta di profitti nel clan, un certo Minoru. Alla Omicidi non se n’è mai sentito parlare, tu ne sai qualcosa?”
Yoshino scosse la testa. “Non mi dice niente. Andrò a vedere in archivio, ma ho già controllato tutti i reati commessi dagli Hyuuga negli ultimi cinque anni e Minoru non è mai stato schedato.”
“Mh, fallo comunque, potrebbe portarci verso altre piste” suggerì Asuma. “Oh, tra l’altro, il grande capo ed il cioccolatino si sono visti ieri.”
“Davvero?” chiese Yoshino, interessata. “E di che hanno parlato?”
“Di questo non ne ho la più pallida idea” confessò Asuma, alzando le spalle, “li ho solo visti conversare al Takamagahara ieri notte. Ero troppo lontano per sentirli e non ho voluto farmi notare.”
“Mh, hai già fatto abbastanza per adesso” l’avvocato fece schioccare le labbra, sorseggiando il suo Aperol Spritz. “Qual è la prossima mossa?”
“Ho intenzione di spiare un po’ la vita di Minoru” il detective disse, “qualche appostamento, un’indagine un po’ più approfondita. Sono riuscito a scoprire dove vive, è già un bel passo avanti.”
Yoshino annuì, soddisfatta. “Credi che questo ci aiuterà a trovare delle prove contro Tokuma?”
“Ci darà sicuramente modo di capire in che giri fosse invischiato” Asuma le rispose, “ho come la sensazione che non tutte le illegalità di Tokuma partissero da ordini del grande capo. I reati che ha commesso… sono troppo appariscenti per uno Hyuuga, anche per uno della Casata Cadetta. Per me, Tokuma aveva altro tra le mani.”
“Potrebbe darsi” Yoshino non voleva entusiasmarsi troppo per le deduzioni del poliziotto. Non aveva mai conosciuto un uomo più capace nel suo mestiere, sì, ma in quel momento l’ultima cosa di cui aveva bisogno era distrarsi dal suo compito principale. “Fai in modo di raccattare più informazioni possibile. Devo sapere da dove viene il Rohypnol, Asuma, devo sapere da chi l’ha comprato e come provare che sia stato lui a darlo ad Ayame.”
“Di questo me ne occupo io” garantì lui. “Tu cerca di tenermi quel rottweiler rognoso fuori dai piedi, d’accordo? Troverebbe di certo un modo per allontanarmi dalle indagini, se venisse a conoscenza del mio coinvolgimento.”
Il rottweiler rognoso doveva essere Shibi. Pensando alla forma del cane, Yoshino non poté non ammettere di vedere la somiglianza. I rottweiler, però, avevano un sorriso molto più simpatico.
“Consideralo fatto. Chiamami se hai altre dritte, d’accordo?”
“Certo. Ah, Miss Tacchi a spillo?”
“Che c’è ancora?”
“Adoro il tuo profumo.”
Yoshino si voltò bruscamente, allontanandosi senza nemmeno ringraziare. Quello che indossava era il suo preferito, lo Chanel n° 5… che era anche il profumo che Shibi e Shikaku in assoluto più amavano.

Yoshino diede un’occhiata al suo orologio da polso. Segnava le quattro e mezza, quindi mancavano solo trenta minuti prima che potesse tornare a casa. Aveva bisogno di una lunga doccia rilassante lontano da ogni fonte di stress.
Quella era senza ombra di dubbio la mezza giornata più spossante che aveva avuto nell’ultimo periodo: tra la normale stanchezza che il lavoro le procurava, la tensione dell’ultimo caso, quella continua altalena emotiva alla quale era sottoposta da quando si era scoperta avversaria di Shibi, Yoshino avrebbe tanto voluto dormire per tutto il giorno e svegliarsi lontano da quell’enorme casino che era diventata la sua vita da qualche giorno a quella parte.
Non che la situazione a casa fosse meglio, per carità. Shikaku era diventato nervoso, Yoshino lo percepiva. Si sforzava per non mostrarlo, ma lei sapeva che c’era un tarlo a rodergli il cervello. Forse era solo eccitato per la convention che si sarebbe tenuta tra cinque giorni, eppure lei non ne era del tutto convinta.
Irene sarebbe passata a cena ed almeno questo la rallegrava. Era un mese che non vedeva la sua figliastra/nuora ed aveva sinceramente voglia di distrarsi con uno dei suoi racconti assurdi. Il tutto dopo aver fatto la sua doccia rilassante, senza dubbio.
Qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. Era la persona che Yoshino meno voleva vedere in quel momento.
“Avanti” disse a Tarou con un sospiro profondo.
L’uomo si sedette sulla sedia di fronte alla sua scrivania, soppesando le parole da dire. Yoshino intuiva che fosse alla ricerca di un discorso per riprendersi ai suoi occhi, ma che poi ci avesse rinunciato. Già dopo l’incontro con il difensore degli Hyuuga, lui e la sua sottoposta avevano avuto una discussione. La materia del dibattito era ciò che aveva reso Yoshino così irritabile per tutto il resto della giornata.
“Senti, lo so che non è nel tuo stile” mise in chiaro il suo capo. “Va contro la tua etica e tutto ciò in cui credi, la parità dei sessi, il valore di una donna.”
“Mi fa piacere che lei lo abbia compreso, Tarou-san.”
“Ciononostante” lui piegò la testa mentre ammetteva quella variabile nel suo sermone, “tu hai un’arma contro di lui, un’arma che nessun altro in questo ufficio ha. Fosse stato gay, persino io avrei fatto lo smorfioso.”
“L’avvocato Aburame non è stupido” Yoshino ribatté, cercando di trattenere un ringhio, “di certo non si farebbe infinocchiare in questo modo.”
“Yoshino, io sono un uomo” Tarou si inclinò verso di lei, gli occhi scuri, non particolarmente belli, brillavano, “ed un uomo non guarda così tutte le donne. Una bella donna la si fissa, ci si compiace della sua fisicità, ma lui era… ipnotizzato da te.”
L’avvocato batté le palpebre e distolse lo sguardo. Sapeva benissimo di cosa parlava il suo jyuuyaku, conosceva quell’atteggiamento di Shibi. Tarou insisteva col dire che anche quella mattina l’aveva fissata a quella maniera, ma lei non se n’era minimamente accorta.
“Non ti sto dicendo di fartelo” Nakajima chiarì, “certo, se tu volessi arrivare fino in fondo-…”
“Tarou-san, la prego.”
“Quel cioccolatino pende dalle tue labbra. Tutto quello che devi fare è fargli credere che lui abbia una chance: escici insieme, fatti portare in un posto carino, fai la preziosa. Ammorbidiscilo fino a quando non diventa creta nelle tue mani, poi schiaccialo al processo.”
“Lei vuole che io lo seduca” Yoshino tradusse, un cipiglio da falco inaspriva la dolcezza orientale dei suoi connotati. “Lei vuole che io giochi con lui come il gatto col topo.”
“Esattamente” l’altro era persino più convinto di quanto lo fosse alla mattina, “è ciò che ti consiglio di fare. Non c’è in gioco il tuo onore, Yoshino, non sei sposata e quindi non c’è nessun marito che tradiresti facendo un po’ di scena con quell’hafu.”
“Shikaku non è mio marito, è vero” Yoshino sbuffò, “ma sto con lui da vent’anni e di certo si sentirebbe tradito se io iniziassi ad uscire insieme ad un altro uomo!”
“Tu esci con altri uomini continuamente!” Tarou era allibito.
In parte era vero. Yoshino era una delle poche donne della sua età che andava senza problemi a pranzo con i suoi colleghi maschi, li vedeva anche fuori dal lavoro, e non solo loro. Aveva alcuni amici uomini e Shikaku non aveva mai fatto una grinza: la sua fiducia in lei era cieca. Shibi, però, era tutto un altro paio di maniche.
“Aburame è un discorso diverso.”
Lo sguardo a mandorla di Tarou si assottigliò, indagatore. “C’è stato qualcosa tra voi?”
“Questi non sono affari suoi, Tarou-san” il sibilo che emise Yoshino avrebbe fatto accapponare la pelle persino ad un serpente. Il coordinatore si ritrasse, impaurito. Ora capiva cosa intendessero i suoi sottoposti quando dicevano che Yukinohana sapeva essere spaventosa.
“Senti, Yoshino, io non posso certo costringerti a fare quello che non vuoi” lui si alzò, incamminandosi verso l’uscita del cubicolo, “ma voglio che tu sia consapevole di quanto aiuterebbe la tua causa fingere di essere interessata ad Aburame Shibi. Porterebbe giustizia ad una ragazza innocente e spezzerebbe una delle centinaia di gambe della famiglia Hyuuga, un obiettivo a cui molti prima di te hanno aspirato e che nessuno mai è riuscito a portare a termine. Ostinarsi a perseguire degli ideali astratti invece che raggiungere uno scopo concreto, un sogno… ne vale davvero la pena?”

7 giugno 2015, Quartiere di Roppongi, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 22.21


Alla fine, Yoshino e Shikaku erano riusciti a convincere Irene a passare la notte lì.
“Ma ho tutti i vestiti a casa…”
“Non dire scemenze, Ino, l’armadio di camera tua è pieno.”
“Domani avrei lezione…”
“Ti accompagna Shikamaru, tanto lui deve andare in università comunque.”
Non era stata un’operazione particolarmente difficile. Irene non vedeva l’ora di svegliarsi di nuovo con i suoi genitori adottivi, quindi, dopo aver dato una mano a Yoshino per sparecchiare, si era fiondata nella sua vecchia stanza con Shikamaru. Ora i due stavano ridendo sul letto, indicando le migliaia di figurine attaccate sotto la mensola. Erano membri di boyband coreane e giapponesi della sua pre-adolescenza, con quei tagli di capelli assurdi e i vestiti da anime.
“Hanno l’eyeliner più dritto del mio!” commentò la ragazza, aveva riso così tanto che le colavano le lacrime. Shikamaru non riusciva nemmeno a respirare.
“Manteniamo lo spettacolo adatto alle famiglie, mh?” Shikaku si appoggiò allo stipite della porta con le braccia incrociate. Stava sfruttando tutta l’aria tenebrosa che gli donava il proprio volto sfregiato per terrorizzarli come faceva quand’erano bambini, “conoscete le regole.”
“Sì, papà” Shikamaru non sembrava tanto impressionato mentre abbracciava Ino. “Ce ne staremo qui, tranquilli tranquilli, mentre tu e mamma fate sesso in camera vostra.”
L’uomo annuì. “Sono felice di sentirtelo dire. E tu dopo tornatene nella tua stanza, intesi?”
Il Nara più giovane roteò gli occhi. “Sì, sì, non preoccuparti. Ti dispiace?”
Shikaku non riuscì a trattenere un sorriso mentre chiudeva la porta.
All’inizio, non ammetteva che loro stessero chiusi dentro da soli con le luci spente, ma dopo un po’ ci aveva fatto l’abitudine. Era stato difficile ricordare che, nonostante l’affetto che provasse per la piccola Irene, lei non era figlia loro. L’avevano cresciuta fin da bambina, aveva mangiato ogni giorno alla loro tavola fino a diciassette anni, l’avevano mandata a scuola, ma la biondina era un membro esterno della loro piccola famigliola felice.
Il fatto che lei e Shikamaru alla fine si fossero innamorati l’uno dell’altra non era così scandaloso come all’inizio non poteva fare a meno di pensare: non erano fratelli, anzi, erano stati compagni di vita fin dalla tenera età. Sapevano prendersi cura l’uno dell’altra, si conoscevano a menadito e se c’era qualcuno a cui lui avrebbe affidato ad occhi chiusi quell’idiota di suoi figlio, quel qualcuno era proprio Irene.
Un hafu, un giapponese… due mondi diversi che si miscelavano l’uno nell’altro… quella chimica inespugnabile… oh, sì, gli ricordava un’altra storia.
“Siete incorreggibili, tutti e due” sussurrò Yoshino, ridacchiando al sentire le mani di Shikaku scorrere lungo i suoi fianchi. Lui le posò un bacio sul collo, senza dire nulla.
“Lasciami finire i piatti, aspettami a letto.”
Il compagno fece come gli era stato ordinato, poggiandosi sul letto matrimoniale con le braccia a sostegno della nuca. Non era particolarmente voglioso, non quella sera, voleva solo che lei gli dedicasse delle attenzioni. Il lavoro le prendeva la maggior parte della giornata, quando tornava a casa aveva solo voglia di riposare e Shikaku la capiva: anche lui, certe volte, non vedeva l’ora di mettersi a dormire. Quella notte, però, voleva coccolarla ed essere coccolato. Tra qualche giorno sarebbe partito ed avrebbe passato quattro giorni senza di lei… doveva fare il pieno di Yoshino.
La sentì svestirsi piano, cercando la camicia da notte a tentoni sotto il cuscino. La seta frusciò contro la sua bella pelle, poi contro il copriletto di cotone, infine contro gli abiti di lui. Lui le circondò le spalle, si voltò su un fianco per guardarla. Avvolta in quel color porpora, la luce della luna che esitava sui suoi zigomi e le illuminava le labbra, era una visione. Era più bella in quel momento che in quella sera del ’94, perché ora era sua e di nessun altro.
“Un penny per i tuoi pensieri” disse, accarezzandogli la bocca con un dito.
“Sei bellissima” lui bisbigliò. Lambiva la sua guancia con la mano libera, le spostava i capelli via dal volto.
“Che hai?” lei cercava i suoi occhi, dubbiosa, si stringeva a lui in cerca di una risposta più esauriente. “Perché lo dici con questo tono così… malinconico? È successo qualcosa?”
“No, no” mentì lui. “Ti lamenti sempre che non ti faccio mai un complimento e quando cerco di essere romantico mi chiedi se c’è qualcosa che non va?”
“Non è il complimento che mi turba” Yoshino lo baciò con delicatezza sul mento, poi nella piega del collo. Shikaku l’attirò a sé con un braccio attorno alla vita. “È il modo in cui lo dici. Sei strano negli ultimi giorni, da quando…- ah.”
La consapevolezza la colpì come un fulmine a ciel sereno. Certo, come poteva essere stata così stupida? Non c’erano altre spiegazioni.
“Sei geloso?” gli domandò piano. Shikaku si prese del tempo per pensare, per analizzare il proprio stato d’animo.
“No” decise infine, premendo le labbra contro la sua fronte, “non sono geloso. È che quest’idea di te e lui… mi spaventa, Yosh.”
“Da quando in qua sei così insicuro, mh?” Yoshino tracciò il contorno delle cicatrici sul suo volto, il tono soffice di quando cercava di rassicurarlo su qualcosa. Anche quel gesto, quello di sfiorare i suoi sfregi, era un rito: serviva a ricordargli che loro stavano insieme nonostante quell’ostacolo, nonostante quella sofferenza. “Nemmeno quando mi facevi la corte eri tanto tentennante, e a quell’epoca…”
“È appunto per questo” Shikaku ribadì, abbracciandola più forte. I suoi capelli odoravano di vaniglia, l’essenza del suo balsamo, e sul collo percepiva una goccia del suo profumo francese. A volte si sorprendeva di cosa il destino avesse riservato ad uno come lui, ad un piccolo topo di biblioteca; sentiva di meritarselo appieno, ma anche sapendolo, non riusciva a scacciare quel sentimento selvaggio e primordiale di gioia. “Tu avevi perso la testa per lui.”
“E poi l’ho persa per te” Yoshino gli afferrò i lati del viso, portandolo alla sua altezza, “Shikaku, avevo diciotto anni quando mi ero fidanzata con lui, ero ancora una bambina. Io l’ho lasciato per vivere la mia vita, per inseguire il mio mondo perfetto, al fianco di un uomo che mi considerasse sua pari, divisa senza problemi tra una famiglia che amo ed il lavoro che ho sempre sognato. Tu hai permesso che il mio sogno si avverasse. I litigi vanno e vengono, ma io e te abbiamo resistito a tante cose ben più gravi di una mia vecchia cotta.”
Shikaku sorrise. “Sì, hai ragione. Non so cosa mi sia preso, sarà questa allergia estiva…”
Yoshino gli diede un buffetto dietro alla nuca. “Non vuoi perdermi. Questa me la lego al dito, Nara.”
“Mi rubi anche le battute, adesso?” il sorriso era diventato giocoso, “sono io che me la lego al dito.”
La risata di Yoshino esplose mentre lui la schiacciava sul letto, baciandole la gola. Le molle del materasso cigolarono in protesta, ma entrambi le ignorarono. Lei fece scorrere le mani sulla sua schiena, tirandolo di più a sé mentre i suoi baci salivano a caccia della sua bocca. Si baciarono intensamente, prima di sentire battere sul muro dietro di loro.
“Cerchiamo di mantenere lo spettacolo adatto alle famiglie, eh, ragazzi?” la voce di Shikamaru li riscosse.
“Ora lo uccido” Shikaku sembrava infuriato.
Yoshino continuava a ridere mentre lo spingeva giù al suo fianco. Posò la guancia sul suo petto, godendosi la sensazione del pizzetto del suo uomo che le grattava sulla cima della testa. Anche Shikaku si arrese con un sospiro, riconoscendo che la magia fosse finita, ma senza rinunciare a tenerle un braccio dietro la schiena.
“Ti amo” mormorò lei, poggiandosi con il mento proprio sopra il suo cuore. Gli occhi nocciola dalle intense sfumature color cioccolato non erano mai stati più dolci di quel momento, più sinceri. Shikaku non poteva dubitare, non quando lei gli parlava così.
“Lo so.”

8 giugno 2015, poco fuori Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 2.34


Quella giornata di lavoro era stata estremamente intensa. Era stanco, spossato, stressato e non vedeva l’ora di mettersi a dormire.
Il getto di acqua tiepida scorreva lungo il suo corpo, incanalandosi nelle piccole fosse dei suoi muscoli contratti. Poggiato con le mani sulla parete di marmo beige, si stava godendo quella carezza rigenerante prima del suo terapeutico bicchiere di scotch irlandese. Era solo, del tutto solo.
“Ti dispiace se mi unisco?” una voce maliziosa, di provocazione, di sfida. Ad occhi chiusi, sorrise.
Did I ever say ‘no’ to you?” ribatté l’uomo con la pelle scura, voltandosi a guardare la sua visione.
Che viso stupendo. Che corpo meraviglioso. Non poteva non sentirsi attratto da quella dea di puro alabastro.
Lei si mosse adagio, facendolo impazzire con quella sua camminata elegante, il suo passo felpato da pantera. Lui non spostò mai gli occhi da lei, la osservava, la scrutava, voleva che si sentisse desiderata, posseduta. Lei era completamente sua.
Gli allacciò le braccia attorno ai fianchi, il seno soffice premuto sotto i suoi pettorali. Era piccola e deliziosa come un bignè, uno di quelli che lei adorava gustare nei bistrot francesi che avevano visitato insieme quando erano più giovani. Neanche in punta di piedi sarebbe riuscita a baciarlo, ma a lui andava benissimo così: adorava tutto di lei, la sua statura, le proporzioni del suo corpo, i capelli di seta, la grana elastica e morbida della pelle, il suo profumo, la sua voce. Se esisteva un sinonimo di perfezione, quello era il suo nome.
“Che stai aspettando, sweetheart?”
Shibi si svegliò tutto d’un colpo, sudato ed ansante. Un sogno erotico alla sua età… maledizione! Dannata gonna, dannato testosterone, dannata Yoshino! Quella donna era proprio come il vino, più invecchiava e più diventava prelibata.
Chiuse gli occhi per cercare di trattenere le immagini, ma ogni volta che riusciva a catturarne una, questa diveniva sfocata. L’unica cosa che si stampò nella mente era il ricordo caldo delle sue braccia chiare che lo stringevano, che lo abbracciavano… lo aveva desiderato a lungo, troppo a lungo.
Hiashi non era stato contento dell’esito dell’incontro con l’accusa, ma Shibi gli aveva fatto notare che quelle cose le sapevano già di per loro anche senza l’intervento del pubblico ministero. Se le indagini non fossero andate più in profondità, sarebbero stati coperti contro ogni evenienza.
“Non hanno niente tra le mani” gli aveva assicurato l’avvocato, “se pure trovassero quella droga nel sangue della ragazza, non possono provare che sia stato Tokuma a dargliela. La ragazzina ha bevuto decine di cocktail quella sera e nessuna camera di sorveglianza ha ripreso niente… è stato furbo, quel coglione, glielo concedo. Abbiamo già… convinto… il barista a non testimoniare al processo, siamo anni luce avanti a loro. Piuttosto…”
Hiashi si era fermato con il bicchiere a mezz’aria quando Shibi lo aveva fulminato con un’occhiata eloquente.
“Sei proprio sicuro di non volerti interessare degli affari di Tokuma?”
“Non ci sono altri affari” lo Hyuuga sottolineò la frase con tono duro, stringendo la presa, “mi fido dei membri del mio clan.”
“Fa’ come ti pare” Shibi aveva alzato le spalle, sconfitto, “ma quel coglione deve averla pur presa la droga da qualche parte, no?”
Hiashi non aveva risposto. Shibi conosceva il perché: il suo socio sapeva bene che lui aveva ragione, ma purtroppo aveva le mani legate. Mettersi a scavare nella vita professionale di uno della Casata Cadetta sarebbe stato un suicidio per la sua immagine di fronte alla famiglia. Nel caso in cui non fosse stato abbastanza veloce a trovare un fondamento dei suoi sospetti, i membri più anziani avrebbero voluto la sua testa su un vassoio d’argento… letteralmente.
Era certo che Yoshino si stesse muovendo di nascosto a tutti loro, cercando indizi, prove, qualunque cosa. Hiashi non aveva torto su una cosa e cioè che quando Yoshino si impuntava su qualcosa, la otteneva ad ogni costo. Era inarrestabile, una vera forza della natura. Persino all’università si era dimostrata l’alunna migliore della sua generazione, nonostante le sue discendenze poco consone a quel tipo di studi.
Era attratto da lei in maniera inconcepibile. Non era solo il suo aspetto esteriore, era la sua personalità, era il suo essere così poco convenzionale, così inaspettata, come un’oasi nel deserto o una pioggia torrenziale dopo una secca. L’atteggiamento professionale poteva andare a farsi fottere, con Yoshino intorno; non riusciva a resisterle e, giù nel profondo, sentiva che per lei era la stessa cosa. I loro sguardi bruciavano l’uno per l’altra, le mani fremevano.
‘Che cosa stai aspettando, sweetheart?’ gli aveva chiesto lei nel sogno con un sorriso provocante. Shibi non poteva che darle ragione: che stava aspettando? Non aveva niente da perdere a giocare la sua partita con lei, sia dentro che fuori dal tribunale.
Era certo di poter vincere in entrambi i campi. In ogni caso, però, sarebbe stato il match più interessante che gli fosse mai capitato di disputare.


Ladie’s a gentleman! (note d’autrice):
Forgive me Lord, for I have sinned.
No, scherzi a parte, gente, adoro che in questo capitolo ci sia un sacco di Shibi. Ruota praticamente tutto intorno a lui ed è MERAVIGLIOSO, ma abbiamo ancora tanto da scoprire.
Tirando le somme:
A) Yoshino e Shibi stavano insieme durante il periodo universitario ed erano anche parecchio presi.
B) Shikaku gli ha rubato Yoshino.
C) Shikaku ha nascosto per moltissimo tempo una cosa a Yoshino, una cosa che potrebbe far tremare il loro rapporto dalle fondamenta.
Il prossimo capitolo (spero, spero che ci sia [per scaramanzia]), ve lo anticipo, sarà un po’ più poliziesco, con le indagini di Asuma e un piccolo zoom sugli Hyuuga più giovani. Guest star? Ovviamente, la mia donna preferita, Tsume Inuzuka! <3
Grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a qui, spero che questa storia vi stia prendendo tanto quanto ha preso me!
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori!
Kiss,
la vostra decisamente troppo accaldata Ladie.
   
 
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