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Autore: AintAfraidToDie    28/04/2009    5 recensioni
Odio questa storia - l'ho sempre odiata.
La odio, sì. Perché è stata scritta per me.
[ Frerard, ofcourse. ]
Dedicata a tre persone speciali.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: I hate this story.
Genere: Introspettivo; Triste; Romantico
Rating: Arancione
Avvisi: Slash; OneShot; Death Character
Personaggi: Frerard
Riassunto: Odio questa storia - l'ho sempre odiata.
La odio, sì. Perché è stata scritta per me.


Dedicata a tre persone speciali.


“ I hate this story. ”


You know that I hate this - my - story.
Because it was written for me.*

Lo sai che io odio questa - la mia - storia
Perché è stata scritta per me.


Ero a conoscenza del fatto che al mondo esistessero poche regole per vivere bene, o perlomeno decentemente; sfortunatamente io le avevo già infrante tutte. Dire che mancavo di spirito distruttivo era una grande e grossa bugia, eppure non avevo mai fatto nulla per essere odiato e disprezzato, ma ancor meno per essere amato. Durante la mia assurda quanto inutile infanzia, le uniche persone che erano state capaci di sopportarmi per fin troppo tempo portavano dietro al proprio nome il mio stesso cognome. Questa cosa mi aveva notevolmente nauseato e fatto pensare.
Non necessitavo di falsi legami sanguigni che mi tenessero incatenato per forza a persone che molto probabilmente mi odiavano; non necessitavo di nulla.
Quasi certamente il mio vivere era libero e dannoso, quasi inutile. Me ne rendevo perfettamente conto, eppure riuscivo non so come ad accontentarmi di quell'enorme vuotezza che mi contraddistingueva. Ma se ero stato creato forse un motivo c'era; lo pensavo continuamente. Non volevo essere ricondotto ad una scopata andata male, proprio no. Mi ritenevo semplicemente un piccolo verme assopito, incapace ancora di rompere il guscio nel quale si era nascosto perché troppo debole e stanco. Ma lo sapevo, avevo solo bisogno di forze esterne.
Ce l'avrei fatta ad uscire e diventare farfalla, prima o poi.
Perciò continuavo speranzoso a vivere come una nullità quasi scadente, magari anche fastidiosa, aspettando quel qualcosa che mi avrebbe fatto rinascere. Poi conobbi - persi -  lui.

~

Il piccolo quanto spoglio parco giochi del paese era l'unico posto più risanante per i miei nervi, inevitabilmente provati da intere infinite giornate passate dietro una scrivania a ordinare fogli ed a scarabocchiare numeri. Mansioni stupide e snervanti che costituivano la principale attività che il mio nuovo lavoro mi obbligava a compiere; posto che avrei sicuramente abbandonato dopo pochi giorni. La mia esistenza che cambiava nel lasso di qualche minuto, questa era la mia routine.

Estraniandomi dal mondo, tracciavo quasi invisibili linee su uno spiegazzato fazzoletto bianco. Un comune strato di carta fine che aveva per poco arrotolato il mio intero pasto composto da un caffè nero e da un'insalata scondita; da quel giorno non mangiavo più carne.
La mia fedele matita, impugnata saldamente nella mano destra, si muoveva con ardore infierendo sul piano che gli offrivo, gli occhiali dalle lenti scure scendenti sul setto nasale m'impedivano per poco la vista. Ma non c'era nessun sole ad infastidirmi, anzi.
“Tra qualche minuto inizierà a piovere.” pensai. Il vapore umido che s'innalzava dal terriccio circondante, le urla di protesta dei bambini obbligati a tornare a casa: tutto ciò preannunciava l'arrivo di un bel temporale fulminante. Eppure la mia personale montatura occhialuta anonima e nera non abbandonava mai il mio volto, giorno e notte mai privo di qualcosa che riuscisse a mascherarmi; la mia era una credenza alimentata col tempo, quasi come se i miei occhi potessero ferire. Le mie pupille non erano mai state niente di speciale, ma dopo allora me le sentivo sporche. Se qualcuno mi avesse guardato dritto nei bulbi oculari, ero sicuro che avrebbe capito.
Avrebbe visto la paura, avrebbe visto il disgusto. Avrebbe visto la sofferenza.

“Lo sguardo è lo specchio dell'anima, Gee.”

Odiavo i miei occhi e li nascondevo. Se facevo la figura dell'idiota, poco importava.

Continuai a starmene seduto sulla mia abituale panchina scrostata anche quando il cielo grigio di pioggia cominciò a tuonare in festa, mentre indaffarati passanti mi correvano davanti. Respiravano ansimi affannati nella fretta dell'andare a casa, certi che qualcuno li stava sicuramente aspettando, in un mio non so dove immaginario. Chissà perché mi piaceva così tanto ferirmi fantasticando sulle vite altrui, magicamente migliori della mia; ormai adoravo farmi del male.
Dopo quel giorno avevo perso residenza, avevo smarrito le redini del mio controllo.
Avevo dato di matto, credo. Troppo impegnato a consolare il mio dolore con qualsiasi robaccia chimica e stupefacente, mi ero lentamente allontanato dalla mia ex-vita. Addio, ho detto.

Ho pianto.
Ho pianto così tante lacrime di sangue da sentirmi troppo freddo.

L'idea di starmene ore e ore sotto l'acqua a prendermi una qualsiasi malattia mi allettava molto; niente lavoro e una gradevole scusa per starmene a letto per tutto il giorno, fino a sentirmi troppo stanco ed annoiato pure per dormire. La mia pigrizia era forse giustificata dal mio enorme rimuginare, eppure non pensavo mai niente, in realtà.
Quel che facevo non si poteva catalogare come vivere, lo sapevo. Non lo era più, perlomeno. Ciò che mi faceva inconsapevolmente andare avanti era tempo che si segnava sul mio volto, che cambiava i miei connotati fisici e lasciava intatto il resto. Era tempo, sì. Tempo che passava e basta. Ed io non ero un bravo attore, ma nessuno riusciva a capirlo. Non sapevo fingere di poter stare bene; non potevo credere di sapermi riprendere senza lui.
Non ostentavo disperazione o tristezza e non ero cattivo; sotto la mia maschera formata da indifferenza e da impressionistica superiorità non si nascondeva nient'altro che un “andate al diavolo” generale. Al mondo esistono avvenimenti, sensazioni e persone che riescono a cambiarti in meglio o in peggio. In quel momento lo capii e pensai di aver smarrito la mia umanità, ma in quel parco ero ormai solo e nessuno mi salvò.

Il foglio scribacchiato cominciò ad accartocciarsi su sé stesso, quasi come se il mio fitto marcio interiore avesse potuto distruggerlo solo venendoci a contatto. Quelle parole scritte con finto odio e disprezzo continuavano a lampeggiare come manifesti al neon dentro il mio cervello, cercando di assumere una malignità che troppe volte non mi contraddistingueva. Ma ce la dovevo fare.

A volte nella mia testa qualcosa si è sfilacciato; un filo che si spezza è come un tic che ti spinge ad uccidere, pensai. Ho sentito che mi sarei rotto, che avrei sbagliato qualcosa. La mentalità umana è troppo complicata da decifrare ed allora viene sintetizzata in pochi giudizi, ci diciamo. Ma qual'è il vero problema esistenziale che ci assilla, allora? La mia intera persona era stata diluita in piccole gocce di schifo, forse spazzatura; come oppormi al volere umano, al destino che mi era stato ingiustamente designato? La mia situazione mi appariva più grande di quel che era, quasi intricata. Aspirai aria fugacemente, come a volermi liberare di qualcosa, ma un odore di fritto e di erba tagliata mi invase le narici e mi stordì non poco. Pensai che avevo fame, fame d'amore e di affetto. Pensai a lui.

La mia vita di crisalide era finita; grazie a lui avevo finalmente vissuto da farfalla.
Ero riuscito ad abbandonare almeno un po' la tremenda indifferenza che mi aveva sempre attanagliato, riuscivo finalmente a guardare il mondo da una prospettiva diversa, forse felice. Ma anche al più stupido degli ignoranti era noto, la vita di tali animali era fin troppo breve. Eppure lui c'era stato, eppure lui aveva provato a trattenermi in vita. Il mio ragazzo; un tipetto moro dagli occhi scuri, quasi un bimbo pimpante e birichino - il suo nome era Frank e da parecchio tempo riposava sotto almeno cinque metri di terra. Era un piccolo cerbiatto troppo cresciuto, il mio Frankie. Si sentiva intatto difronte alla crudeltà umana, riusciva a sorridere in ogni momento ed era terribilmente sincero. Ma non quella sincerità cattiva, proprio no. Lui si poteva accomunare ad un minuscolo diamante maledettamente levigato, ma tuttavia pregiato. Non pensava, viveva e basta, senza cognizione di tempo o di momento. Esisteva bene e nemmeno se ne accorgeva.
In realtà eravamo molto differenti, lo sapevamo bene. Quasi in complementari, ma ci necessitavamo come una droga ed il nostro rapporto si fondava su amore condiviso e nient'altro.

Poi però cadde. In un'anonima strada buia, dopo l'ennesima serata passata insieme e con quella sua dolce smorfia da furbacchione ancora stampata in volto. Cadde perché non sapeva camminare bene; lui inciampava sempre. Un piccolo tonfo per terra nel bel mezzo delle strisce pedonali, il suo corpo leggermente disteso sul freddo asfalto ed un ginocchio sicuramente sbucciato. Si girò e mi sorrise.

“Sono proprio un imbranato, vero Gee?”

Successivamente una macchina rossa, forse una Toyota vecchio stile. Almeno duecento chilometri orari, un ubriaco al volante ed un'assurda sfrecciata sulla tangenziale. Il piccolo corpicino nel mio Frankie fu tranciato a metà dai fischi del freno a mano; il suo sorrisetto ancora intatto sulle labbra ed infine il nulla. Dalla mia bocca nemmeno un urlo, forse solo uno stridulo accenno di pianto; perché tutto accade troppo in fretta quando inciampi in una strada.
Il sapore degli schizzi intestinali delle sue budella era ancora orribilmente stampato nel mio palato. Avevo visto il suo sangue estendersi per interi metri, inghiottire cartacce sporche e bagnarmi la tela fine delle scarpe. Ricordai l'odore della sua morte; sì, odorava di benzina. Ed avrei voluto strapparmi con uno scatto gli occhi, perché io il mio amore morto non lo volevo vedere.
Assaggia il sapore del liquido vitale umano senza nemmeno rendermene conto; o forse no, lui era un cerbiatto. L'ho amato e poi l'ho mangiato. Non è stata colpa mia!; mi sono ripetuto col tempo.
 
Ma se l'avessi fermato? Se l'avessi baciato? Se l'avessi stretto a me ancora per un po'?

Se. Però. Ma. Quando.

Avrei voluto vomitare fino a non sentirmi più lo stomaco, vomitare tutti i miei ricordi e rinascere vegetale. Forse sarei morto, ma non sarebbe cambiato nulla. Non c'era più niente per me, nemmeno l'Inferno.


“Tu dici non hai niente.
Ma ti sembra niente il sole?
 La vita?
 L'amore? **”


Adesso non c'era vita, non c'era amore e non c'era nemmeno il sole. Da un quarto d'ora buono il cielo continuava incessantemente a piangere, e mi ritrovai scioccamente a sperare che quell'acqua potesse magicamente diventare un non so quale acido. Un componente chimico così forte e brutale da riuscire a scorticarmi la pelle, a farmi soffrire. Forse anche solo per farmi capire, per darmi la prova che in fondo vivo lo ero ancora. Eppure mi bagnai, mi continuai a bagnare, ma non successe nulla. Cos'ho fatto? Cos'ho perso? Cosa... cosa sono diventato?

Cominciai a ridere istericamente, rompendo il silenzio idilliaco e tombale creatosi tra i fulmini ed il ticchettio esasperante delle gocce a contrasto con il ghiaino. Accartocciai con un gesto quasi rabbioso il fogliaccio scritto, ormai diventato una specie di pappa grigia e sporca. Lo strappai con furia, quasi come volessi distruggere del tutto i miei pensieri. E risi, sguaiatamente, senza ritegno. Ancora quel nauseante puzzo di cibo nelle narici, sicuramente appiccicato ai vestiti, e l'acqua che s'insinuava nelle mie vesti nere di cotone, che si attaccava al di fuori degli occhiali. Tante piccole forme d'acqua che mi oscuravano la vista, che m'infastidivano gli occhi.
Poi mi buttai per terra; o forse cascai anch'io, chi lo sa. Sfrusciai i miei ginocchi ricoperti da ormai fradicia stoffa di jeans nera contro i tanti sassolini ruvidi della strada, mi abbandonai del tutto all'acqua e smisi di pensare. Grattai la mia gola assumendo un tono roco e stridulo, estesi la mia ugola e risi ancora, sempre più.

Ah. Ah. Ah.

Mi accasciai completamente disteso, la faccia sprofondata in una pozza formatasi grazie ad un piccolo dislivello del piazzale. Il mio corpo era del tutto bagnato ma non sentivo niente, solo un ulteriore freddo che mi cresceva dentro. Poi l'immagine di lui, i suoi occhi, ed allora fui contento di portare ancora gli occhiali. Anche se piangevo, potevo mentirmi per un'ultima volta.

Non c'era un cuore nel mio petto, non c'era luce nella mia vita, e fu un'idea fulminante e malsana quella che mi si formò nella testa facendomi quasi sorridere. Premetti il mio volto dentro quell'acqua sporca e nera, molto probabilmente lugubre, ma tuttavia illuminante. Cominciai a soffocare i miei respiri; se mi ci mettevo d'impegno sarei riuscito a farcela.
Dal liquido si prende vita e forse avrei potuto morirci, cercando di arrestare gli spasmi violenti del mio corpo e la voglia di alzarmi che mi faceva tremare le orbite degli occhi. Combattevo con il mio stesso ego e sentivo che avrei potuto vincere. Un'ultima prova di coraggio Gee, mi dissi.

Non sei poi così debole, no?

Ed ecco la mia morte deplorevole, pensai all'improvviso. Sarei finito sui giornali e mi avrebbero preso per pazzo; ma la mia non era una via di fuga, proprio no. Era solo l'alleviamento del mio dolore. Solo questo.  


I will never let you fall.

Non ti farò mai cascare.

I'll stand up with you forever.

Resterò in piedi con te per sempre.

I'll be there for you through it all.

Ci sarò qui per te a discapito di tutto.

Even if saving you sends me to heaven.***

Anche se salvarti mi manderà in Paradiso.



L'avevo promesso. Te l'avevo promesso, ve l'avevo promesso.

Ma mi è sempre e solo riuscito sbagliare. So fare poco. Sbagliare, cascare, uccidere.

Adesso avevo imparato anche ad affogare.



Nient'altro.



Owari



Note:
* Ispirazione grazie a “I hate this song” by Secondhand Serenade.
** citazione un po' stramba per me, ma penso che le parole siano più che azzeccate e molto belle. “Meraviglioso” by Negramaro.
*** “Your guardian angel” by The Red Jumpsuit Apparatus.

Rivivo di luce propria, oh yeah!
Ma questa piccola OneShot depressa sta a significare qualcosa che di triste ha ben poco - la posto per festeggiare, ecco. Sorrido alla vita per almeno cinque minuti, e forse lo faccio solo grazie a voi.
Festeggio il ritorno della mia Twinna.
Festeggio i nostri primi due giorni, Micia.
Festeggio l'esistenza della mia mamma, la migliore del mondo.

Lo so; questa fic parla del suicidio multiplo e collettivo del Frerard, ma poco m'importa - è un lavoro sofferto e già un bel po' ammuffito, ma onestamente riesce quasi a piacermi.
Ordunque vado a sistemare i miei muffin da poco cotti - malatamalatamalata - sperando che qualche anima pia mi lasci un gradito commento. *W*

Lova ya all. Voi tre soprattutto. <3


AintAfraidToDie
  
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