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Autore: Old Fashioned    27/08/2016    12 recensioni
Seconda guerra mondiale, battaglia di Inghilterra. Un leggendario quanto inafferrabile pilota della Luftwaffe, soprannominato "Cavaliere di Valsgärde", compare durante le battaglie più cruente, abbatte il suo avversario e subito dopo scompare senza lasciare traccia.
Il Maggiore Stuart, del 19° Squadron, riesce finalmente ad abbatterlo con uno stratagemma, ma quando l'Asso tedesco sarà al suo cospetto le cose si riveleranno molto diverse da come se le aspettava...
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Valsgärde 25 Capitolo 25

Seguirono tre giorni d'inferno per il maggiore.
Per prima cosa, non sapeva nulla di von Rohr. Il prigioniero era ricoverato in infermeria, ma lui non osava andare a chiedere sue notizie. Evitava addirittura di accennare all'argomento se per caso incontrava il capitano medico al circolo ufficiali.
Il che salvava le apparenze, o almeno così si augurava lui, ma lo lasciava a rimuginare dolorosamente per ore sulle condizioni del giovane tedesco.
L'aveva visto prostrato, nemmeno in grado di reggersi in piedi. Si era ripreso nel frattempo? E le ferite si stavano chiudendo senza problemi? Mangiava adeguatamente? Stava bene?
Domande destinate a rimanere senza risposta, che gli toglievano sonno e concentrazione.
Quelle tormentose preoccupazioni non erano peraltro il solo motivo per cui passava le notti in bianco: anche altri pensieri, angosciosi e pressanti come e forse più dei primi, lo opprimevano giorno e notte.
L’aveva baciato. Un bacio profondo, ardente. Quello che avrebbe potuto scambiarsi con l’amore della sua vita, carico al tempo stesso di passione e tenerezza. Non ricordava di avere mai baciato neanche Margaret in quel modo.
Per quanto ci rimuginasse, però, l'accaduto non gli suscitava l’orrore che si sarebbe aspettato.
Anzi, gli era piaciuto baciare Hans von Rohr.
Quella era la cosa che lo sconvolgeva maggiormente: il fatto di non riuscire a provare repulsione per un atto che lui stesso fino a quel momento aveva sempre con veemenza definito ‘contro natura’.
Era una situazione assurda, paradossale: combatteva tutti i giorni contro i tedeschi, però si struggeva per uno di essi, arrivando al punto di provare un'innaturale attrazione nei suoi confronti.
Non aveva senso.
Eppure era ciò che stava accadendo, inutile fingere. Era un'ossessione anormale, disonorevole, che avrebbe potuto costargli la carriera, la libertà e forse anche la vita, ma non riusciva a togliersela dalla testa.
Gli sembrava anzi di essere posseduto, mosso da una volontà che non gli apparteneva. Ogni suo pensiero era per lui, da quando apriva gli occhi all'alba a quando li chiudeva la notte, sempre che riuscisse a dormire e non passasse anche quelle ore a rimuginare su di lui. Con la mente riandava in continuazione a quei pochi minuti trascorsi nell'infermeria, lo rivedeva anelante, con le labbra umide per il bacio appena ricevuto, gli occhi socchiusi e la testa appena reclinata all'indietro in un atteggiamento che evocava desiderio e arrendevolezza.
E invariabilmente quando pensava a lui in quel modo il cuore gli balzava nel petto e si sentiva le cosiddette farfalle nello stomaco.
Aveva l'impressione di essere intrappolato nelle sabbie mobili: più si dibatteva e più affondava.

Il quarto giorno fu il medico a cercarlo.
Entrò nel suo ufficio con un atteggiamento che gli parve cauto in maniera sospetta e poi rimase a fissarlo con un'aria stranamente irresoluta, come se dovesse dire qualcosa di molto spiacevole ma non trovasse il coraggio di farlo.
Il maggiore si obbligò a rimanere impassibile. Non può averlo saputo, si ripeteva, anche se non riusciva a liberarsi dell'impressione di avere la colpa scritta in fronte come una specie di marchio di Caino.
“Ebbene, capitano Allen, cosa c'è?” domandò, col tono in apparenza più tranquillo e noncurante del mondo.
Il medico parve farsi decisamente imbarazzato. Evitando lo sguardo del suo superiore, dopo qualche secondo di esitazione esordì: “Ecco, signore, si tratta del prigioniero.”
Stuart sentì un brivido gelido percorrergli la schiena. Sa tutto! pensò angosciato, e subito si buttò a vagliare le possibilità di salvezza che gli si presentavano: negare? Indignarsi? O era meglio ammettere quello che era successo e cercare comprensione nel capitano Allen in quanto medico?
Forse aveva sbagliato a comportarsi come se von Rohr non esistesse nemmeno. Quell'atteggiamento di ostentato disinteresse era diventato in realtà una spudorata ammissione di colpa. Del resto, se il tenente fosse stato un prigioniero come tutti gli altri, non avrebbe visto nulla di male nell'informarsi ogni tanto delle sue condizioni.
Ma von Rohr non era un prigioniero come tutti gli altri, questo ormai doveva essere chiaro ad ogni uomo della base.
La voce del capitano lo distrasse bruscamente dalle sue tormentose meditazioni: “Temo per la sua incolumità, maggiore.”
Stuart ebbe la stessa sensazione di quando si apre il paracadute dopo centinaia di metri in caduta libera. Rimase metaforicamente appeso al salvifico ombrello, contemplando con surreale calma ciò che prima aveva visto come la morte certa che gli veniva incontro a velocità vertiginosa.
“Per... la sua incolumità?” ripeté perplesso, faticando ad articolare le parole per via della bocca secca.
“Suppongo non ignori che il caporale Grice ha il dente avvelenato con i tedeschi,” spiegò Allen.
L'altro annuì. Il sottufficiale aveva perso una parte della famiglia nel corso di un bombardamento e non faceva mistero del suo odio per i nemici.
“L'ho sorpreso un paio di volte ad aggirarsi intorno all'infermeria,” riprese il capitano medico, “e quando gli ho chiesto cosa stava facendo mi ha dato risposte piuttosto insolenti.”
“Mi sta chiedendo di punirlo, capitano?”
“No, signore. Le sto chiedendo di riportare il prigioniero nella sua cella. Mi sentirei molto più tranquillo sapendolo ben chiuso e al sicuro.”

Di nuovo nella chiesa, von Rohr giaceva immobile sul letto. Non ricordava molto del trasferimento dall'infermeria alla sua vecchia prigione. Durante la degenza il medico aveva largheggiato con la morfina, probabilmente pensava che non fosse in grado di sopportare un po' di dolore, e quindi aveva passato tutto il tempo immerso in uno sgradevole dormiveglia. Aveva qualche vago ricordo di qualcuno che lo aiutava a mangiare o gli cambiava le fasciature, ma il resto era nebbia.
Non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato. Quanto mancava allo scadere della settimana?
Perché una cosa la ricordava bene, nonostante i sedativi: Tra una settimana verrò a prendere quel dannato nazista.
Rammentò che quando era piccolo la sua governante tentava di spaventarlo dicendogli che se avesse fatto il cattivo il diavolo sarebbe venuto a prenderlo, e lui regolarmente si appostava dietro la porta della sua camera con qualche oggetto contundente per sorprenderlo prima che lo facesse lui.
Bei tempi.
Sospirò. Allo svanire degli effetti della morfina la lucidità pian piano ritornava, e con essa tutti i pensieri che il farmaco gli aveva fino a quel momento impedito di elaborare.
All'inizio era stato tutto molto semplice: gli inglesi sono nemici, sbagliato dare confidenza, giusto tentare la fuga con ogni mezzo.
Poi le cose si erano complicate, esattamente come una pianta che quando nasce è composta da un solo stelo, ma crescendo fa spuntare diramazioni e germogli.
Gli inglesi avevano acquisito connotazioni umane, tanto per cominciare. Non erano più un generico nemico da tenere a distanza, si erano trasformati in una persona con un carattere ben definito, con principi e ideali.
Una persona che gli aveva fatto battere il cuore, e che aveva suscitato in lui sentimenti che fino a quel momento non aveva mai provato per nessuno.
L'aveva baciato. Così, senza nemmeno pensarci. Un attimo prima era aggrappato al suo collo per non cadere, un attimo dopo aveva la bocca incollata alla sua come aveva visto accadere solo nei film.
E la cosa tragica era che ci aveva provato gusto.
Gli era piaciuto, era successo proprio quello che gli avevano sempre descritto i ragazzi che avevano già avuto delle esperienze: si era sentito leggero, euforico e con la testa fra le nuvole. Poche volte aveva provato qualcosa di così bello in vita sua.
E tutto questo con un maschio.
Avrebbe potuto invocare la debolezza, per quello che era accaduto, l'ottundimento derivante dai sedativi, ma sarebbe stata solo una patetica ipocrisia. Alla fine era successo come per il vino: aveva bevuto il primo sorso per calcolo, ma poi la cosa gli era piaciuta e non era più riuscito a porsi un limite.
Si mise cautamente seduto. Come tutte le volte che rimuginava su argomenti particolarmente impegnativi aveva bisogno di camminare, quindi scese dal letto e seminudo com'era prese a passeggiare su e giù. Gli effetti della morfina lo rendevano fastidiosamente instabile e zoppicava ancora un po' per via dei punti nella coscia, ma come sempre si impose di perseverare.

Quando nel tardo pomeriggio il maggiore tornò alla canonica, von Rohr era talmente assorto nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno di lui.
La tenda era rimasta leggermente aperta, e da quello spiraglio Stuart poteva vedere il ragazzo che percorreva a passi lenti la navata, la testa china in un atteggiamento di faticosa ponderazione.
Pensò che sarebbe stato facile attraversare il corridoio alla chetichella e raggiungere le sue stanze senza farsi sentire, ma stranamente non si decideva a farlo. Il suo unico movimento anzi fu un impercettibile passo di lato, che lo portò ad occultare la sua persona dietro la tenda, così che se von Rohr avesse guardato da quella parte non sarebbe riuscito a scorgerlo.
E poi rimase lì a spiarlo, con un atteggiamento a metà fra la meraviglia di osservare un animale selvatico nella foresta e la morbosità del voyeur che sbircia attraverso il buco della serratura.
Il ragazzo non indossava che la biancheria intima. Le ferite più gravi erano ancora bendate, ma le altre stavano cominciando a guarire e non erano ormai che scure linee sottili.
Stuart fissava rapito il portamento orgoglioso delle sue spalle larghe, la sua schiena muscolosa, e il modo in cui la stoffa bianca delle mutande si tendeva sulle natiche sode ad ogni passo.
Poi, quando von Rohr si girava per tornare indietro, lasciava indugiare lo sguardo sui muscoli addominali, che si contavano ad uno ad uno, e sui fasci dei quadricipiti, che ad ogni passo guizzavano tonici. E qualche volta lo sguardo si spostava anche in mezzo alle gambe.
Si sorprese a deglutire.
In quel momento il giovane ufficiale si immobilizzò bruscamente e alzò nella sua direzione occhi che fiammeggiavano d'ira.
Il maggiore ebbe la consapevolezza che il tedesco si era accorto della sua presenza, e si sentì perduto. Che fare? Filarsela con discrezione? Passare come se niente fosse? Rimanere immobile nella speranza che von Rohr stabilisse di essersi ingannato?
Difficile fregare l'aquilotto con trucchi così meschini.
“C'è qualcuno?” chiese infatti il giovane, facendo un paio di passi in avanti. Continuava a scrutare con uno sguardo così acuto che dava l'impressione di riuscire a vedere anche attraverso la spessa stoffa della tenda.
“Stuart?”
“Hans,” lo chiamò il maggiore spostandosi nel suo campo visivo.
“Mi stavi... mi stava spiando?”
Il tedesco continuava a fissarlo. Stuart notò che era riaffiorata l'espressione rabbiosa e diffidente dei primi tempi, e se ne sentì profondamente dispiaciuto.
“Io...” il maggiore si frugò in tasca. “Io volevo restituirti il tuo distintivo della Hitlerjugend. So che ci tieni.”
Glielo tese attraverso le sbarre come aveva fatto la prima volta. L'aveva recuperato dal mucchio di stracci insanguinati che erano stati l'uniforme della Luftwaffe di von Rohr e l'aveva conservato sapendo quanto il giovane ufficiale tenesse a quel piccolo oggetto.
“Cosa sarebbe, lo zuccherino per ammansire il cavallo?” lo gelò il tedesco, fermandosi a qualche metro da lui.
Mentre Stuart s'arrabattava per trovare una risposta, l'altro impetuosamente lo rimbrottò: “Tu... lei mi stava guardando il posteriore!”
Il che avrebbe forse fatto ridere, se la frase non fosse stata proferita con un tragico misto di rabbia e delusione.
“Hans, io...”
Von Rohr arretrò, ma era ancora malfermo sulle gambe e inciampò in un'asperità del pavimento, finendo lungo disteso per terra. Tentò di alzarsi, ma una fitta di dolore troncò il gesto a metà.
Rimase ad ansimare semisdraiato, in un atteggiamento che ricordava quello del Galata morente, e Stuart non riusciva a pensare ad altro che alla sua avvenenza e a come in quella posizione egli fosse più bello che mai.

Superato l'attimo di smarrimento, il maggiore spalancò il cancello e corse da lui.
Vedendolo arrivare, Hans von Rohr si irrigidì. In realtà non sapeva nemmeno lui perché si stesse comportando in quel modo. Forse un qualche istinto atavico, o un'antica diffidenza nei confronti del nemico che comunque non mancava di farsi sentire.
Ipocrisia borghese, di cui era opportuno liberarsi: se non avesse voluto baciare Stuart, se non avesse voluto intimità con lui, non avrebbe dovuto fare altro che tirarsi indietro. Il fatto che ciò non fosse successo denotava chiaramente che certe cose non erano accadute contro la sua volontà.
Quindi che senso aveva adesso risentirsi per le occhiate lascive che l'inglese gli aveva rivolto?
Peraltro doveva ammettere che non gli dispiaceva la vicinanza del maggiore: Stuart riusciva a comunicargli al tempo stesso la passione di un amante e la tenerezza del vecchio amico a cui si può dire tutto. Era una persona rassicurante, alla quale si sarebbe volentieri affidato, se per la sua mentalità fosse stato concepibile affidarsi a qualcuno.
Quindi lasciò che gli circondasse il torso con le braccia, e che lo aiutasse a rialzarsi. Gli piacque, anzi, sentire le sue mani calde che lo accarezzavano, e aspirò con un certo piacere il lieve odore di colonia che emanava. Era profumo di pulito, e lui amava le cose pulite.
Quando furono in piedi, il maggiore sommessamente gli disse: “Non dovevi alzarti, sei ancora troppo debole.”
Von Rohr, che gli stava circondando il collo con un braccio, semplicemente rispose: “La debolezza non va assecondata.”
Dopo quella frase rimasero in silenzio, dritti al centro della navata, i cuori che battevano l'uno contro l'altro all'unisono.
Poi le loro labbra si unirono in un bacio. Non il divorarsi febbrile della volta precedente, ma un lento assaporarsi, un addentrarsi l'uno nell'altro come appassionati d'arte alla scoperta di una collezione preziosissima e nascosta.
“Voglio fare l'amore con te,” disse Hans von Rohr quando il bacio terminò.
La richiesta colse Stuart talmente alla sprovvista che si staccò da lui e lo fissò sconcertato. La perentorietà di quel giovanotto aveva immancabilmente il potere di spiazzarlo.
“Non... non è necessario, se non vuoi,” balbettò incerto, distogliendo lo sguardo dal suo. Non è che non avesse mai preso in considerazione l'idea di portarselo a letto, i suoi sogni ne erano la prova, ma un conto erano le fantasie, un conto era fare davvero l'amore con un maschio.
“Se te l'ho chiesto è perché lo voglio,” rispose imperterrito il ragazzo. “Ora che ho capito quello che sento per te, voglio andare fino in fondo.”
“Credo che neanche uno Spartano dei tempi di Licurgo mi avrebbe fatto una dichiarazione del genere,” mormorò interdetto il maggiore.
“Arrivati a questo punto, fermarsi sarebbe da ipocriti,” disse l'altro per tutta risposta, “le cose si fanno fino in fondo, o non si fanno per nulla.”
Stuart si astenne dal domandargli se quella determinazione adamantina fosse dovuta ai sentimenti che provava per lui o alla sua necessità di coerenza.
Alzò lo sguardo: von Rohr lo stava fissando.
“Non adesso,” gli disse, “tra un po' sarà servita la cena in mensa, e verranno a portare da mangiare anche a te. Non credo sarebbe opportuno che ci sorprendessero.”
L'altro rimase in silenzio.
“Stanotte. Verrò da te stanotte,” gli assicurò il maggiore, rinculando verso il cancello. “Stanotte” ripeté prima di uscire.

Stuart arrivò in mensa piuttosto frastornato. Come gli accadeva sempre, man mano che si allontanava dal giovane prigioniero una sorta di malia lo abbandonava e le cose cominciavano ad apparirgli sotto una prospettiva decisamente diversa.
Nella fattispecie, aveva appena promesso a un maschio che avrebbe avuto un rapporto sessuale con lui. Il che non era solo immorale e contro natura, era anche proibito. Se l'avessero scoperto ci avrebbe rimesso i gradi e sarebbe finito nel carcere militare.
Fu assalito da un dubbio atroce: e se fosse stato proprio quello il perverso intendimento del giovane nazista? Magari il Terzo Reich disseminava qua e là ufficiali avvenenti che in realtà avevano il compito di sedurre e trascinare nella perdizione i loro omologhi delle nazioni nemiche.
Ci ragionò un po' su. Piuttosto macchinoso come piano, mandare dei bei ragazzi nella speranza di far cadere in tentazione gli ufficiali inglesi. Forse sarebbe stato meglio paracadutare delle ragazze, se lo scopo era quello, magari vestite in modo succinto.
Con lui aveva funzionato, comunque.
Era a quell'imbarazzante punto delle sue elucubrazioni quando lo raggiunse Poynter. “Il tuo simpatico inquilino si è ristabilito?” gli domandò il capitano per prima cosa.
“Che vuoi che ne sappia?” gli rispose bruscamente Stuart, ancora turbato dai sospetti su cui stava ragionando.
L'altro fece spallucce. “Te l'hanno riportato in casa, immaginavo avessi dato un'occhiata a come sta.”
“E perché avrei dovuto?” ringhiò il maggiore. Nel rispondere aveva alzato leggermente la voce, e più d'uno dei piloti si girò stupito a guardarlo.
A quella vista, Stuart corresse immediatamente il tiro: “Volevo dire, non ho avuto tempo. Ma suppongo stia bene, altrimenti non l'avrebbero fatto uscire dall'infermeria.”
Prima che Poynter potesse ribattere spostò la conversazione sui nuovi aerei in arrivo. L'argomento interessava a tutti e in breve von Rohr venne dimenticato in favore delle prestazioni dello Spitfire.
Le discussioni divennero anzi così animate che dopo un po' nessuno si accorse che lui aveva smesso di prendervi parte.
Questo gli diede l'agognata possibilità di riflettere su quello che sarebbe successo di lì a poco.
Naturalmente avrebbe potuto rifiutarsi. Il prigioniero era chiuso in cella e inerme. Gli sarebbe bastato semplicemente passare davanti alla sua prigione ignorandolo e tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Molto semplice, in teoria, ma inattuabile in pratica, dal momento che se von Rohr non aveva fisicamente alcun potere su di lui, in realtà dal punto di vista morale ne aveva moltissimo.
La sua determinazione, per esempio. Poteva forse dimostrarsi vile, di fronte ad un coraggio che sfiorava l'incoscienza?
Poteva dimostrarsi tentennante e incerto, di fronte a una volontà che sembrava in grado di smuovere le montagne?
Senza contare che una parte di lui ardeva di desiderio al pensiero di ciò che sarebbe successo. Una parte che rievocava in continuazione la voluttà del lungo bacio che si erano scambiati e gli sussurrava suadente che un piacere ben più grande era in attesa di essere delibato.
Ringraziò che la giacca dell'uniforme scendesse ben sotto l'inguine, perché altrimenti non avrebbe saputo come giustificare l'imbarazzante gonfiore che gli deformava il davanti dei calzoni.
Trascorse il tempo che mancava all'ora di ritirarsi come un condannato in attesa dell'esecuzione.
Quando si decolla, vi è un punto della pista che viene definito di non ritorno, perché passato quello non è più possibile interrompere la manovra.
Ciò che stava per accadere, Stuart lo capiva bene, era il suo personale punto di non ritorno: una volta fatto ciò che aveva in animo di fare, tutto sarebbe cambiato. Le prospettive sarebbero state stravolte, i valori redistribuiti.
Di nuovo pensò ai cavalieri di Wolfram von Eschenbach, che pur essendo nemici erano comunque uniti dall'etica e dall'onore.


   
 
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