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Autore: velvetmouth    29/08/2016    0 recensioni
Orlando è uno spregiudicato uomo d'affari che vive da anni a Londra.
Tommaso è uno scrittore in crisi creativa, ma sopratutto esistenziale.
Costanza è una giovane insegnante terrorizzata dal mondo esterno e in particolare, dagli uomini.
Nessuno di loro lo sa, ma presto le loro vite saranno sconvolte da qualcosa di dimenticato, di nascosto dalla patina fangosa degli anni. Un qualcosa che ha vissuto dentro di loro per tutto questo tempo e che adesso è pronto ad uscir fuori. Di nuovo, e con una forza micidiale.
Genere: Introspettivo, Suspence, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Ho questa foto di pura gioia
è di un bambino con la sua pistola
che spara dritto davanti a sè
a quello che non c'è

Sembrava una vita fa ormai, ma per lui era come se fosse successo il giorno prima.
Ricordava ancora la sensazione che aveva provato nell'immediato, quando era appena accaduto.
Un dolore, un dolore fisico tremendo e poi la nausea, talmente forte da far venire il mal di testa... Non avrebbe mai più provato una sensazione simile in tutta la sua vita, mai, neppure quando Sandra aveva avuto le doglie e lui le era rimasto accanto a stringerle la mano, la bile acida che per l'ansia gli risaliva su fino alle labbra.
Era un qualcosa di unico, di tristemente inimitabile, che ti si appiccica addosso ed è difficile da mandar via, da dimenticare... Non che non ci avesse provato, tutt'altro, anzi, aveva sperato, aveva sognato, aveva pregato di poterlo fare, di riuscire un giorno a svegliarsi senza sentire quel peso opprimente sul petto, quella macchia oleosa che lo insozzava indelebilmente, senza che niente o nessuno potesse mai mondarla una volta per tutte.
Ogni volta che abbassava le palpebre gli sembrava di rivivere certi momenti, di ritrovarsi piccino, con la bocca serrata e gli occhi spalancati, le membra e la testa fredde da fare male, come se non fossero sue, come se lui in realtà fosse altrove, lontano, in un posto dove il dolore non esisteva e il senso di colpa non lo dilaniava a piccoli morsi, straziandolo come una carogna.
Come in ogni sogno che si rispetti non riusciva mai a gridare né ad invocare aiuto ma Dio, quanto avrebbe voluto poterlo fare! Dire a quel bambino con i capelli scuri e gli occhi chiarissimi di fuggire via, di scappare più forte che avesse potuto, fino anche a sentire in gola il sapore metallico del sangue. E invece no, quel bimbo che era stato rimaneva seduto su di un muretto polveroso e cotto dal sole, le gambe penzoloni che oscillavano ritmicamente mentre incontrava il suo destino.
Quell'estate era impressa a fuoco nella sua mente, ma pure sul corpo. Ad inizio luglio era infatti caduto dalla bicicletta di suo cugino più grande e si era sbucciato tutta la gamba, dal ginocchio fino alla caviglia, ne portava ancora una vistosa cicatrice rossastra e un po' sbiadita.
Ancora ricordava le grida di sua madre quando gliel'avevano portato a casa in braccio, tutto quel sangue che gli colava dal piede.
Ma non era stato il male maggiore con cui avrebbe avuto a che fare in quei mesi; quella ferita si era cicatrizzata col tempo, l'altra la portava ancora aperta dentro di sè.

Le feste di Natale si stavano avvicinando ed i bambini erano già elettrizzati, non aspettavano altro che quel momento magico: le lucine luccicanti dell'albero, i pacchi dalle misteriose carte colorate, le coccole dei nonni e il permesso di rimanere svegli fino a tardi assieme ai grandi. Era fine novembre, ma era come se nell'aria si percepisse già il cambiamento, l' atmosfera che riunisce ed allieta.
Anche se la porta del bagno era chiusa, Alberto poteva sentire l'odorino di buono della cena.
Sandra doveva aver preparato l'arrosto con le patate, che le riusciva così bene da far venire l'acquolina già solo al pensiero.
Fu triste pensare che non avrebbe mai potuto mangiarlo per l'ultima volta. Fu tentato per un attimo di desistere, ma non per l'arrosto succulento, quanto per la meravigliosa vita che aveva: due figli piccoli, una moglie dolce e bellissima, una casa tutta loro, un lavoro rispettabile. Per tutti era certamente così, ma non per lui.
Si guardò allo specchio. Era anche un bell'uomo, lo era sempre stato, come pure era stato un bellissimo bambino.
A quel pensiero sentì un conato scuoterlo dalle viscere.
Si aggrappò forte al lavandino, talmente forte che le nocche gli si imbiancarono.
Poi, proprio mentre sentiva dal piano di sotto la sigla dei cartoni animati in tv e Sandra che chiamava i bambini a tavola, prese il rasoio che teneva nel primo cassetto, lo tolse dall'astuccio e con un due tagli si recise di netto i polsi.


-Allora io vado... Ci vediamo stasera!-
Neppure aspettò che lui si degnasse di sollevare la testa dal computer, inforcò semplicemente la porta d'ingresso e sparì, i tacchi che ticchettavano squillanti giù per la tromba delle scale.
Tommaso sbuffò, cancellando anche la riga di parole che aveva appena, faticosamente messo insieme.
- Fanculo, fanculo, fanculo, fanculo!-
Ripetè spazientito, come in un mantra.
La barra verticale riprese a lampeggiare nell'immensità vuota e bianca del foglio di testo, come a ricordargli il fallimento della sua intera esistenza.
In quei momenti di sconforto una rabbia cieca e cattiva si impossessava di lui. Era come se non si trattasse del se stesso che conosceva, ma di un altro, una sorta di Dr Jekyll e Mr Hyde che si alternavano dentro di lui.
Pensava ad Olimpia e a quanto fosse semplice la sua vita da impiegata, mica come lui che doveva sudarsi il pane con il suo talento, con la sua ispirazione. Arrivava ad odiarla, persino...Per lei era facile infilarsi in quel taullerino striminzito e sculettare avanti e indietro in ufficio, facendo sbavare il capo che infatti continuava a promuoverla a più non posso. Se la immaginava mentre faceva la troia con quella risata a bocca aperta, le labbra ovviamente pennellate di rosso e che utilizzava come arma di seduzione per i poveri polli che la trovavano attraente, quando invece a lui, quando esagerava col trucco, sembrava solo volgare. Arrivò persino a immaginarsela in ginocchio sotto la scrivania di qualche panzone incravattato, mentre quello le teneva la nuca con una mano inanellata e nodosa, facendole fare su e giù ritmicamente.
Gli venne talmente da vomitare che dovette alzarsi e in uno scatto d'ira per poco non rovesciò il tavolo da fumo con sopra il portatile.
- Sto diventando pazzo... Sto pensando a cose assurde, sto diventando pazzo...-
Rimase qualche istante con la fronte poggiata al vetro freddo, gli occhi chiusi nel vano tentativo di controllare il respiro.
Come poteva pensare quelle cose sulla sua donna? Questa era l'insonnia che parlava per lui: lo stava tramutando in un individuo astioso e pericoloso. Si faceva persino paura da solo, dato che schifo se lo faceva già da tempo.
Si trascinò fino in cucina, continuando a scuotere la testa sommessamente, come a voler scacciare quei pensieri insensati e ingannatori.
Aprì il frigo agguantando uno yogurt, controllò la scadenza e poi lo aprì ficcandoci dentro un cucchiaino recuperato dal lavabo.
Si sentiva sporco e infido, una vera merda d'uomo. Avrebbe voluto chiamare Olimpia, dirle che la amava e prometterle che quando sarebbe tornata a casa la sera avrebbe trovato la cena pronta e la casa pulita, ma sapeva benissimo di non riuscire nemmeno a portare avanti quei miseri buoni propositi. E poi sapeva che l'avrebbe disturbata solamente.
Ultimamente Olimpia mal sopportava i suoi cambiamenti d'umore e anche se Tommaso cercava di non darlo a vedere, intimamente era terrorizzato all'ipotesi che lei potesse lasciarlo. Ipotesi che comunque si stava pericolosamente concretizzando in realtà.
Si accese una sigaretta, aspirando nervosamente il fumo che poi ributtava istantaneamente fuori, neanche fosse stato un treno a vapore. Se fosse rimasto chiuso in quella casa sapeva che l'unica cosa che avrebbe finito non sarebbe stato affatto un capitolo del libro, quanto il pacchetto mezzo vuoto che aveva lì sul tavolo. Perciò arraffò il computer, le chiavi di casa e il cappotto e scese giù le scale del condominio, diretto in biblioteca.
Quando uscì dal portone l'aria di novembre lo accolse in una nuvola gelida, che lo fece rabbrividire fin dentro le ossa.
Iniziò a camminare, il berretto calato fin sopra gli occhi e la testa bassa nel vano tentativo di proteggersi da quel fastidiosissimo vento nordico.
Prima di entrare in macchina controllò se per caso Olimpia gli avesse mandato un messaggio durante la pausa di metà mattina, ma l'icona a forma di carta da lettere rimase immobile. Sbuffò, si tolse i guanti poggiandoli sul cruscotto e poi mise in moto.
La biblioteca era un luogo di pace.
Il silenzio che la avvolgeva lo tranquillizzavano come poche altre cose. Adorava sopratutto il frusciare di pagine, unico suono in sottofondo a centinaia di mani che sfogliavano altrettanti libri, vecchi volumi e giornali d'epoca.
Si sedette al solito posto, un tavolino leggermente defilato posto sotto una delle grandi vetrate in stile liberty.
Prima di tirar fuori il portatile dalla custodia si diede una rapida occhiata attorno, anche quello una sorta di tic abitudinale che compiva prima di mettersi a lavoro.
Olimpia gli aveva fatto più volte notare che sembrava un pazzo mentre si guardava attorno con aria circospetta e le spalle incurvate.
Non lo faceva per un motivo preciso era più un atto propiziatorio prima di porre le mani sulla tastiera, prima di impugnare la penna, insomma era come un rito che serviva a liberare il suo flusso di idee. Flusso di idee che negli ultimi mesi si era interrotto bruscamente.
Non era mai stato uno scrittore dalla fucina colma e stracolma, doveva ammetterlo. Aveva sempre invidiato colleghi molto più creativi che sembravano tirar fuori pubblicazioni, libri, articoli e quant'altro neanche fossero maghi in grado di estrarre dalla tuba colombe, conigli e animaletti di ogni sorta.
Tommaso si era sempre considerato un mediocre plasmatore, dotato di scarsa inventiva, ma d'altra parte sapeva anche di possedere una dote che si era rivelata altrettanto importante nella professione che aveva intrapreso: la passione e l'abilità nel manipolare le parole. Scrivere gli veniva naturale quasi quanto respirare, ma aveva sempre peccato di poca originalità.
Ciò in cui eccellevva era il riuscire ad immergere il lettore in ciò che raccontava, in ciò che creava, con una potenza d'espressione alquanto rara. Ma questa sua qualità sarebbe andata scemando se non fosse riuscito a percorrere strade o meglio, storie originali e d'effetto.
Gli pareva sempre più spesso di scrivere banalità, idee rubate ad altri, pensieri che non gli appartenevano e che si rivelavano tanto vuoti quanto privi di qualsiasi interesse.
I primi tempi Olimpia lo aveva consolato dicendo che un periodo di black-out capita a tutti, anche ai più grandi scrittori, bastava semplicemente non sprofondare nel vortice del ''non sto combinando nulla, tutto quello che scrivo fa schifo, sono destinato a scrivere necrologi nei giornali locali'' e cercare di riemergere dal baratro.
Erano tutte belle parole e senz'altro veritiere, ma dopo mesi di totale improduttività Tommaso si ritrovava perso e sconsolato e quasi deciso a trovarsi un ''lavoro serio'', come lo aveva pungolato per anni suo padre.
L'anno prima aveva pubblicato un romanzetto di discreto successo, ma di cui non era per nulla soddisfatto e la cui storia gli sembrava ogni volta che ne leggeva qualche pagina di una leggerezza e banalità incredibili.
Anche su questa questione Olimpia aveva sempre una parola di conforto in grado di farlo stare meglio. Onestamente Tommaso non sapeva dove sarebbe andato a finire se accanto a lui non ci fosse stata lei, lei che lo aveva sollevato dai pensieri più terribili, che lo aveva curato dalle ferite più brucianti, che riusciva ad amarlo nonostante tutto quello schifo che quotidianamente le propinava.
Chiuse gli occhi per qualche istante, ispirando a pieni polmoni l'odore di cellulosa e polvere. Per un attimo gli venne forse anche da piangere, ma aveva dalla sua la certezza che le lacrime non sarebbero uscite, non in un luogo pubblico almeno... Era pur sempre un uomo, no? Gli uomini non piangono o meglio, fanno finta di non farlo mai. Era una bugia talmente universale che anche a lui piaceva raccontarsela, perciò tirò su col naso e ricacciò dentro tutto ciò che aveva osato balzar fuori e si mise a lavorare.
Tutto sommato, visto il periodaccio, quella giornata fu un totale successo: era riuscito a scrivere ben tre pagine e, notizia ancora più sconvolgente, ogni volta che provava a rileggerle le trovava sempre più valide.
Mentre dava un rapido controllo ortografico al testo lanciò lo sguardo in basso a destra dello schermo, quasi balzò in piedi rendendosi conto di essere rimasto su quella sedia per più di sei ore, senza mai alzare gli occhi, nè essere disturbato dal morso di bisogni di alcuna sorta.
Era proprio vero, quando scriveva si trovava totalmente immerso in un mondo tutto suo, una specie di bolla inespugnabile.
Olimpia doveva essere già tornata da lavoro o almeno era in procinto di arrivare. Si alzò dal tavolo con un sorriso talmente esteso da contagiare la ragazza che gli si trovava di fronte e con la quale scambiò un cenno di saluto.
La giornata aveva preso una piega inaspettata, anche uscendo dall'edificio Tommaso si lasciò sferzare a testa alta dallo stesso vento che lo aveva ghiacciato nell'entrare, ma stavolta sentiva non di camminare, ma volare ad almeno un metro d'altezza.
Quella bora fastidiosa a lui sembrò solo una leggerissima brezza. Era felice, era soddisfatto e non vedeva l'ora di condividere quell'euforia con la sua donna.
Aveva già in mente di chiederle scusa, di prometterle solennemente che si sarebbe ripulito dalle scorie tossiche di quel periodo negativo, lei avrebbe potuto prendere qualche giorno di ferie dal lavoro, sarebbero potuti andare al lago, affittare una casetta e passare il fine settimana a fare l'amore e comportarsi come se il mondo fuori non esistesse, proprio come i primi tempi, quando erano così innamorati da scordarsi perfino di mangiare.
Bruciò una serie infinita di semafori rossi, in quel momento lo spauracchio di una multa non poteva nemmeno lontanamente scalfirlo.
Si fermò dal cinese all'angolo e ordinò gli spaghetti e l'anatra all'arancia che Olimpia adorava.
Quasi cadde per le scale del condominio balzandone tre per volta, scampanellò con foga, annaspando col fiato strozzato per la fatica e l'eccitazione.
Quando Olimpia gli aprì la porta capì immediatamente che qualcosa non andava.
- E' successo qualcosa?-
Non voleva farle quella domanda perchè non aveva intenzione di ascoltare la risposta. Il pensiero di dover assistere inerme all'esplosione della bolla di gioia che lo circondava, lo faceva impazzire.
Sarebbe volentieri scappato in un angolo, le mani premute sopra le orecchie e la gola che esplode in una serie di gorgheggi senza senso, come fanno i bambini quando gli viene detto qualcosa che non vogliono sentire.
Dentro la sua testa si aprirono numerosi scenari apocalittici nell'istante stesso in cui le labbra di Olimpia di dischiusero.
- Ha chiamato la Polizia...-
La sua espressione mutò, la fronte lisciata dall'ansia gli si frastagliò di rughe confuse.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola quando Olimpia riprese a parlare.
- Alberto, il tuo amico d'infanzia, è morto.-


La nottata buttata a ripassarsi quella modella svedese iniziava a fargli accusare il colpo e, onestamente, il risultato a fronte delle premesse, si era rivelato alquanto deludente.
Di solito le tipe smilze e sprovviste di tutti gli attributi che piacciono ai maschietti (ad esempio un bel paio di belle tette dal calore materno o un sederino tondo tondo, come fatto col compasso) si rivelavano delle vere furie a letto, forse proprio per compensazione alla mancanza di accessori.
Quella invece no. Si era dimostrata di una noia mortale, anche quando glielo aveva preso in bocca, Orlando non aveva provato nient'altro che apatia mista anche a un certo disagio, che ovviamente gliel'avevan fatto ammosciare in tempo record.
Non si poteva però dire che la ragazza non avesse affrontato la cosa con un certo spirito: evidentemente l'aveva presa come una crociata personale, dato che aveva iniziato a succhiarlo fin quasi a prosciugarlo. Anche lì, nient'altro che fastidio.
Non c'era tecnica, ma sopratutto non c'era la benchè minima passione, anche un coglione qualsiasi avrebbe capito che quella cagnetta accucciata in ginocchio si stava dando da fare solo per alimentare il suo ego da fattona anoressica. Non che questo non andasse bene, dopotutto per una botta e via Orlando non si metteva di certo a questionare se la partner fosse stata soddisfatta o meno.
Era tutta una grossa questione di egoismo di fondo e non solo nel sesso, quanto sopratutto nella vita stessa.
Questa rivelazione poteva lasciare l'amaro in bocca come anche no, ma prima o poi tutti nel corso della loro esistenza dovevano fronteggiare in qualche modo la triste verità. Tutti sono pronti a metterlo in culo al prossimo.
Venne per sfinimento e solo perchè si era stancato di scopare un pezzo di carne immobile e vagamente mugolante, che ogni tanto lanciava un'occhiata all'enorme specchiera al lato del letto. Chissà cosa cazzo stava pensando in quel momento? Voleva controllare che quell'unico grammo di cicca che aveva non sballonzolasse, rendendola meno attraente? O voleva solamente ammirare il suo faccino da copertina mentre la bocca le si spalancava di piacere?
Non gli importò nemmeno se stesse fingendo o meno, neanche il tempo di finire che già si trovava sotto la doccia per eliminare le scorie di quell'amplesso fallimentare.
- Rimango a Londra fino alla settimana prossima...-
Aveva ammiccato con un inglese da vichinga.
Lui aveva sorriso, di quel suo sorriso obliquo.
- Mi fa piacere-
Evidentemente non le capitava spesso di essere rifiutata o comunque non in quel modo, ma almeno ebbe la decenza di inventare una scusa e filarsela. La osservò mentre entrava in ascensore e lo salutava falsamente con la manina. Sapeva che se avesse potuto lo avrebbe fulminato seduta stante. Quando le porte le si chiusero davanti e l'ascensore si mosse Orlando promise a se stesso che la prossima sarebbe stata una tipa latina tutta curve.
Arrivò in ufficio in ritardo e con i postumi di quella nottata odiosa. Gli sembrava un peccato aver sprecato energie per una roba del genere, ma ormai il ''danno'' era fatto.
Si fece portare un caffè macchiato da Heather, che arrivò ancheggiando al suo solito.
Mentre la osservava posare il vassoio sulla sua scrivania si chiese perchè non avesse mai pensato di portarsela a letto, forse perchè era un tipino piuttosto anonimo, ma nell'ultimo periodo aveva messo su un fisichino niente male.
- Vai in palestra, Heather?-
La ragazza sollevò il viso, vagamente interdetta dalla domanda.
- Da qualche settimana, sì...-
Arrossì leggermente, ma fu un attimo e Orlando non avrebbe potuto giurare che fosse successo davvero. Comunque aveva una gran voglia di farselo, questo era più che ovvio.
Le sorrise mellifluo mentre soffiava sul caffè fumante.
Quando si voltò per tornare di là alla sua scrivania le osservò ben bene il didietro. Eccome se si vedeva che andava in palestra!
La giornata passò uggiosa e grigia, come il cielo plumbeo che si stagliava al di là delle finestrone della sede centrale della Franklin-Harrison Assicuration.
Si fermò a pensare ad April e a quanto stavolta riuscisse a tener duro prima di capitolare nuovamente ai suoi piedi, ma Orlando era fiducioso che sarebbe successo presto.
Dopo aver incontrato alcuni colleghi e aver discusso di un imminente viaggio in Giappone si era chiuso in ufficio, mettendo sul piatto del giradischi (che gli era costato una fortuna) un vecchio disco jazz di Buck Owens. Aveva chiuso gli occhi e, mentre le note iniziali prendevano corpo, era inesorabilmente sprofondato in un sonno pastoso.
Lo svegliò il tocco leggero di Heather sulla spalla. La puntina del giradischi stava friggendo in loop da chissà quanto tempo.
- Orlando, c'è una chiamata per te dall'Italia...-
Era stato lui a volere che i suoi dipendenti lo chiamassero per nome e non ''capo'', ''boss'' o altre cagate simili. Far credere loro che non ci fosse un divario egemonico fra loro li rendeva più propensi a lavorare sodo.
- Sai come devi comportarti quando chiamano i miei genitori...-
La voce gli uscì dura, con uno sbuffo. Cristo, erano anni che lavorava per lui e ancora non aveva capito?!
Ma qualcosa nell'espressione della sua segretaria lo fece desistere dall'arrabbiarsi.
- Di che si tratta?-
Chiese, lapidario, mentre si scrollava di dosso gli ultimi sprazzi di sonno che gli lambivano gli occhi.
- E' la polizia... E dicono che è urgente...-
La fronte gli si corrugò d'istinto. Che diamine poteva volere da lui la polizia italiana, visto che non metteva piede nel BelPaese da almeno 10 anni? E non si poteva neppure parlare di un errore, anche se l'idea gli era per un attimo balenata in mente... Non poteva credere che le forze dell'ordine fossero così inette da sbagliare persona, anche se trattandosi di Italia tutto poteva succedere.
Qualcosa gli faceva pensare che quel cazzo da cacare fosse proprio tutto suo.
Si sollevò con un colpo di reni e ringraziò di tenersi in forma quotidianamente con la palestra, altrimenti ci sarebbero volute ore di rodaggio prima di poter essere operativo, comunque, un bel capogiro gli fece da benvenuto nel mondo dei vivi.
Odiava gli imprevisti e odiava ancor di più avere a che fare con la Legge, di qualunque cosa si trattasse. Mentre aspettava che Heather gli passasse la telefonata sul suo cordless d'ufficio decise comunque di mantenere la calma. Si ritrovò persino a rispolverare quelle cacate mantra pseudo meditative alle quali anni prima April lo aveva trascinato: un corso del cazzo su come prendere possesso del proprio Io interiore e governare le emozioni, stare in pace col mondo e cagare fiorellini.
Poi il telefono squillò.
Avrebbe voluto rispondere subito e invece l'ansia lo attanagliò per una manciata di secondi. Uno, due, tre squilli, poi si decise ad alzare la maledetta cornetta.
- Pronto?-
- Pronto, parlo col signor Orlando Landucci?-
Sentire quelle poche parole pronunciate in italiano lo fecero quasi ridere. Non parlava mai la sua lingua madre a Londra, a parte qualche raro caso e ovviamente con i suoi genitori, unito a tutta la faccenda gli sembrò surreale e tragicomico.
- Sì, sono io... Mi dica...-
Si sforzò di apparire controllato e cordiale, due cose che non erano propriamente punti forti del suo carattere.
La persona all'altro capo si presentò come il commissario Eugenio Comencini, della stazione di Bologna.
In un lasso di tempo che non aveva superato il secondo, Orlando riordinò le idee, rendendosi conto che quelle informazioni non gli dicevano niente, assolutamente niente. Nessuna lampadina accesa. Decise di aspettare pazientemente, per quanto possibile.
Gli sembrava di esser stato catapultato in un poliziesco, quasi poteva vedere un agente speciale che sfondava la porta con un calcio, seguito da un reparto speciale di poliziotti a viso coperto e le armi in pugno, che gli intimavano di non muoversi.
E invece no, non successe un bel niente e mentre riprendeva fiato dall'inspiegabile terrore che lo stava pervadendo, il commissario si decise a vuotare il sacco.
- Mi duole informala che un suo vecchio amico, tale...-
Comencini fece una pausa, evidentemente si era appuntato il nome chissà dove. Orlando deglutì.
-...Peruzzi Alberto ha perso la vita questa sera...-
Orlando continuava a non capire.
- Scusi, io...Io non riesco a capire...-
L'altro riprese a parlare come un disco registrato, senza nemmeno dargli tempo di assimilare la cosa.
- Abbiamo trovato appuntato il suo nome su un messaggio che pare abbia scritto il defunto prima di tagliarsi le vene...-
Gli occhi di Orlando si spalancarono e una delle sue grosse mani gli andò a coprire la bocca.
Alberto Peruzzi.
Quanto tempo poteva essere passato dall'ultima volta che si erano visti? Più di 15 anni senz'altro.
Nemmeno ricordava di essergli stato poi così tanto amico o almeno, non da essere l'ultima persona alla quale scrivere prima di ammazzarsi. Sì avevan giocato assieme da bambini, ma non era poi tanto impossibile visto che abitavano in un buco di culo di paese nella campagna toscana, era una scelta obbligata. Poi si erano inesorabilmente persi di vista una volta iniziate le scuole superiori prima e l'Università poi. Sapeva solo che aveva studiato Farmacia a Bologna e si era sposato, tutte informazioni estrapolate dalle parole vomitate a getto da sua madre durante le telefonate di quegli anni. E adesso gli ritornava tutto alla mente. Ma apparte quello, cosa poteva dire di sapere su quella persona? Gli amici che si hanno da bambini diventano facilmente estranei da adulti, mica era poi così raro.
Non poteva dire di non essere dispiaciuto, certo... Era abbastanza sconvolgente venire a sapere che una persona con la quale aveva condiviso un frammento, se pure minimo, della sua vita avesse deciso di compiere un gesto così estremo, eppure continuava a non capire, a non cogliere il nesso. Si sentiva confuso e con uno strano sapore di bile sulle labbra.
- Francamente non so come aiutarvi... Sono...Sono scosso, ma io non ho... Non avevo contatti con Alberto da quasi vent'anni... Non capisco proprio cosa possa averlo spinto a scrivere il mio nome...-
Per un attimo arrivò a pensare che quel coglione insoddisfatto poteva benissimo togliersi di mezzo senza rompere i coglioni a lui, ma quella cattiveria gratuita non doveva proprio meritarsela. Alberto era sempre stato un pezzo di pane, almeno a quanto poteva ricordare.
- Oh, ma lei non è mica il solo...-
Il tono del commissario gli sembrò quasi entusiasta e leggermente velenoso, come quando un sadico schizzoide ti rivela che le tue torture sono solo all'inizio, che c'è così tanto, tanto da divertirsi ancora.
- Non capisco...-
Si ritrovò a ripetere, le labbra che gli si muovevano in automatico.
- Peruzzi ha scritto il nome di altri due suoi vecchi amici d'infanzia... Presumo che fossero anche i suoi... I nomi...-
Di nuovo un frusciare di carte.
-...I nomi... Tommaso Nardelli e Costanza Ferrucci le dicono niente?-
Orlando scosse la testa, se possibile ancora più interdetto e confuso. Poi un lampo improvviso, quasi doloroso.
- Sì... Erano miei amici, ma parliamo di... Quanto? 25 anni fa! Onestamente non riesco a comprendere dove vorrebbe arrivare...Non dovrebbe essere lei a dare delle risposte? Se si diverte a comporre enigmi come una Sfinge io di certo non posso aiutarla, ne so molto meno di lei!-
Era alterato, stanco e incredulo. Era accaduto tutto talmente in fretta che la testa gli pulsava e gli sembrava quasi di sentire le sue sinapsi impazzite, tutte intente nel vano tentativo di capirci qualcosa.
Tommaso, Costanza... Alberto.
Ectoplasmi di ricordi fumosi gli si proiettavano ad intermittenza davanti agli occhi. Non ricordava pressoché nulla, a momenti neppure le loro fattezze.
- Signor Landucci, si calmi per favore... Qui nessuno la sta accusando di niente! Solo che, deve ammetterlo, questa faccenda è alquanto strana...-
Cosa stava facendo quell'incompetente? Insinuazioni del cazzo? Avrebbe volentieri preso a calci la cornetta fino a disintegrarla.
Ma rimase calmo, respirando ritmicamente. Dopotutto stava soltanto facendo il suo stramaledetto lavoro di sbirro.
- Mi scusi, ma sono leggermente scosso...-
Sibilò tra i denti.
- Posso capirlo... Devo però pregarla di presentarsi qua in stazione entro e non oltre due giorni-
Il pensiero di ritornare gli fece venire i sudori freddi, come al solito.
''Visto, mamma? Volevi che il tuo bamboccino tornasse per Natale? Sorpresa! Ti viene a far visita addirittura con un mese d'anticipo!''
- Ma... Come posso esserle d'aiuto? Le ho già detto che non so niente! E poi non posso assentarmi da lavoro, sono un importante dirigente!-
Il commissario rise di una risata pastosa fatta di pacchetti da 20 di almeno una quindicina d'anni, poi parlò con un tono talmente duro e funereo da far venire i brividi.
- Forse non ha capito, Landucci... Volente o nolente lei ha un morto sulla coscienza e per quanto mi riguarda potrebbe essere pure il Padreterno, si deve presentare fra due giorni, altrimenti avrà più di questo inconveniente a cui badare...-
- Mi sta forse minacciando?!-
- No, gli sto suggerendo di non fare il coglione.-


Ci era voluto un po', ma alla fine ci era riuscita. Aveva iniziato a prepararsi appena rientrata a casa da scuola.
Era andata in bagno, era rimasta qualche minuto a contemplare la sua immagine riflessa allo specchio. Il suo naso non le sembrava così brutto, nè la sua pelle tanto smorta e persino la fronte, quella fronte alta e leggermente bombata che aveva sempre odiato, le era parsa interessante, particolare. Si ritrovò persino a sorridere ripensando a Federico, alle sue dita lunghe e affusolate che le sfioravano le mani, quel sorriso aperto e splendente, quegli occhi che la guardavano con sincerità e nei quali non aveva visto nessuna traccia di voracità. Mentre riempiva la vasca da bagno d'acqua bollente si accorse di tremare. Era un lieve tremore alle mani e sapeva benissimo a cosa era dovuto: l'ansia stava salendo e sapeva bene che non sarebbe stata disposta ad esser messa a tacere tanto facilmente.
Cercò di controllarsi prendendo, per quanto poteva, possesso del suo corpo... Sulla mente avrebbe lavorato successivamente.
Si spogliò con calma disarmante, continuando a guardare ogni nuovo lembo di pelle che scopriva. Prima il maglione, che cadde a terra assieme alla maglietta. Rimase in reggiseno e quasi automaticamente le venne da pensare che a Federico non sarebbero piaciute quelle sue tettine simili a uvetta rinsecchita, nè tanto meno le costole sporgenti o il sedere piatto. Si strinse le braccia forte contro il petto, chiuse gli occhi e si rese conto di non essere pronta. No, non voleva incontrarlo, non voleva iniziare ad uscire con lui, non voleva ritrovarsi a baciarlo, percepire la voglia di sentirlo premuto contro il suo copro assieme all'istinto di tenerlo lontano, il disgusto al solo pensiero di essere toccata.
Un conato la fece vacillare, costringendola a mettersi in ginocchio davanti al water.
Come poteva essere così illusa da pensare di essere guarita? Era solo una povera ingenua del cazzo a poter pensare di liberarsi dal mostro che la dilaniava dentro, solo perchè credeva di aver trovato il principe azzurro, che invece di un cavallo aveva un borsone da ginnastica.
Premette la fronte contro il bordo della vasca da bagno e rimase immobile finchè il respiro non le fu tornato normale. Si alzò di nuovo, tolse i jeans e davanti alla sua immagine quasi nuda fece una promessa a se stessa.
Aveva passato il resto del pomeriggio a pianificare ogni cosa, ad immaginare ogni possibile scenario, ma non era così stupida da credere che potesse avere tutto sotto controllo. Nel suo pensare ossessivo allo svolgimento della serata aveva però un certo controllo di sè, come se l'ansia e l'ossessione stesse si piegassero alla meticolosità del suo ragionamento.
Impiegò due ore per scegliere i vestiti e un'ora e mezza per truccarsi e sistemare i capelli. Una volta finito si rese conto di non aver più di un quarto d'ora di tempo.
L'agitazione tornò a bussarle nel petto e la testa le si fece pesante come un macigno. Arrivò anche a pentirsi di aver accettato l'invito, di aver dato il suo indirizzo a un perfetto sconosciuto, perchè sì dopotutto cosa poteva dire di sapere di quel tipo?
Il suono del campanello la fece trasalire, immersa come era nelle sue considerazioni. Il cuore continuava a martellarle come impazzito, ma stavolta sapeva che non era solo per l'ansia, c'era dell'altro, nascosto, quasi inudibile. Era emozionata, tantissimo.
Arrivò alla porta ed ebbe un brivido di piacere tutto particolare nel guardare nell'occhiello per un'interminabile manciata di secondi prima di aprire.
Appena lo vide seppe di aver fatto la scelta giusta. Portava una giacca elegante sopra una camicia azzurra, dei pantaloni scuri e stivaletti con le stringhe. Sorrideva.
- Troppo elegante?-
Le chiese lisciandosi le pieghe della camicia.
Costanza scosse la testa, sforzandosi di non perdersi nel pozzo liquido e scuro dei suoi occhi.
- Sei bellissima...-
Aggiunse poi facendo apparire dal nulla un grosso mazzo di fiori, dei bellissimi tulipani i cui petali violetti sembravano fatti di seta.
- Federico... Non dovevi!-
Le guance le si imporporarono e il cuore riprese di nuovo a correre all'impazzata.
Lui non sentì ragioni, sollevò entrambe le spalle e le intimò con un gesto di far silenzio.
- Li metto in un vaso...-
Cedette lei, assaporando con febbrile eccitazione il momento in cui le loro mani si sfioravano nel passaggio.
- Posso entrare?-
- Se non vuoi rimanere impalato lì sulla porta...-
Si meravigliò di come le fosse riuscito così automatico fare dell'ironia. Federico scoppiò a ridere, richiudendosi la porta dietro le spalle. Quel gesto la fece rimanere qualche istante sulle spine: erano in casa, soli e questo le dava un certo senso d'angoscia e costrizione, la solita paura insomma, ma decise di mantenere il controllo. Sparì in cucina dove sistemò i fiori in un recipiente alto e capiente, che di solito usava per conservare gli spaghetti.
Federico la seguì arrivandole alle spalle.
- Sono veramente meravigliosi... Hanno un colore stupendo!-
- Altrettanto si potrebbe dire di te...-
Adesso si era fatto vicino, pericolosamente vicino. Una mano le si avvicinò al viso, indugiò a mezz'aria prima di scostarle un ciuffo che le era scivolato via dallo chignon con cui aveva raccolto i capelli. Costanza rimase col fiato sospeso, la bocca leggermente dischiusa e gli occhi incollati su quelle labbra umide, increspate a poche spanne dalle sue.
Lo vide avvicinarsi ancora, ma in maniera rispettosa, quasi di riverenza, come se sapesse quanto quel contatto significasse per lei a livello emotivo e mentale. Lei gli sfuggì, discostando il viso. Per un attimo sul volto di Federico serpeggiò un'ombra di delusione o forse stizza, Costanza non seppe decifrare bene, ma fu quasi certa che lui stesse iniziando a pensare di star perdendo il suo tempo con una frigida come lei.
E invece no, perchè aggiunse, quasi in un soffio:
- Forse sto correndo troppo, perdonami... Ma... Veramente, sento di provare per te qualcosa che va al di là della semplice attrazione...-
Il suo sorriso non si era spento, aveva soltanto mutato intensità, sembrava voler dire ''scusami, è più forte di me'', ma quelle parole le davano la certezza che lui la rispettava, che forse aveva intuito il suo blocco.
Costanza abbassò lo sguardo sentendosi colpevole non tanto per quel mancato bacio, quanto per aver fatto sentire colpevole lui.
- Non scusarti, sono io ad aver bisogno di tempo...-
Federico annuì, senza mai interrompere il contatto visivo, poi le prese una mano e se la portò al petto.
Anche il suo cuore stava martellando di gran carriera.
- A sentirlo fa paura, vero?-
Le chiese. Il lato della bocca che sollevava il sorriso formava un buchetto sulla guancia. Era adorabile e anche attraente. Molto attraente.
- No, è bellissimo...-
Gli disse, pensandolo veramente.
Appena varcata la porta il telefono di casa squillò.
- Non vai a rispondere?-
Costanza scrollò le spalle.
- No, non voglio interrompere quello che sta succedendo...-
E, come in una scena da film, gli intrecciò le mani dietro al collo e lo baciò, la schiena premuta contro il muro, come unico sottofondo il telefono che continuava a squillare e il tamburo dei loro cuori all'unisono.
La portò a mangiare in un ristorantino lungo il fiume. Anche l'aria di novembre sembrava essersi scaldata di un tepore tutto particolare, come a voler rendere quella loro serata speciale.
Costanza non riusciva a smettere di guardarlo e per tutto il tempo che lui le fu dinanzi non provò nemmeno per un momento l'impulso di voler essere altrove, anzi. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e fermare il tempo, rimanere lì a sedere, anche senza parlare, in silenzio di fronte al suo sorriso dolcissimo. Alla fine della cena Federico aveva intrecciato le sue dita in quelle di lei in una sorta di preludio d' amore.  Parlarono molto, parlarono apertamente, parlarono come ormai da anni Costanza non riusciva a fare con nessuno. C'era qualcosa in quel ragazzo che la spingeva ad essere se stessa, che la convinceva del fatto di non essere sbagliata o almeno, non così tanto come aveva sempre creduto. Forse era un po' prematuro, ma iniziava a farsi strada dentro la sua mente l'idea che Federico fosse adatto per lei e lei per lui. Camminarono abbracciati, lei avvinghiata alla sua vita, la testa lievemente poggiata sulla sua spalla e lui che la cingeva dolcemente dietro il collo. Seguirono il fiume, emozionandosi come due bambini al gracidare delle ranocchie, alla profondità avvolgente del cielo notturno, al faro pulsante delle stelle.
Le sue paure le sentiva lontane, c'erano è vero, ma erano sopite, dormivano lontane dove non potevano minimamente disturbarla.
Entrarono in casa inciampando l'uno sull'altra mentre continuavano a stare abbracciati, le loro bocche che si divoravano a vicenda.
Anche il sapore della sua saliva sembrò a Costanza il più dolce dei nettari e quello che provava mentre le loro lingue cozzavano non avrebbe saputo spiegarlo in parole, sapeva solo che stava bene, maledettamente bene. Ed era felice, così tanto felice.
Iniziarono a spogliarsi goffamente, ridendo delle mosse imbarazzate che accompagnavano la loro eccitazione.
Le mani di lui le sollevarono il vestito quasi con un'impaziente cattiveria e lei si ritrovò a pensare al ''dopo'' e a quanto avrebbe voluto godere del momento massimo di piacere che c'è nel prepararsi al piacere stesso.
L'idea di lui dentro di sè non le provocava il solito disgusto, nè fastidio, nè niente di lontanamente paragonabile alla paura di essere esposta, sia fisicamente che psicologicamente. No, l'unico pensiero che affollava la mente di Costanza come un urlo assordante era: ''Voglio che tutto questo non finisca mai, voglio divorarlo di baci, voglio essere sua!''
Scivolarono sul tappeto e Federico fu dolcemente attento a proteggerle la testa dal tavolino da fumo nel centro del salotto. Costanza si aggrappò alle sue spalle quando finalmente lo sentì entrare dentro di lei.
- Sei bellissima... Questo è un sogno...-
Continuava a ripeterle, le labbra premute contro il suo orecchio destro, la teneva stretta quasi avesse paura che fosse solo una visione, un ectoplasma  pronto a svanire nel nulla al primo battito di ciglia.
Sussultò quando lui iniziò a muoversi, a spingere con decisione. Sentiva un calore crescente nascerle dal petto e scendere giù, giù verso il fuoco intimo della sua eccitazione.
Fu intenso e, per quanto era stato bello, troppo breve.
Si ritrovarono ansanti a ridere, facendosi il solletico mentre si rotolavano per tutto il pavimento.
- Voglio che sia sempre così... Me lo prometti?-
Gli chiese standogli a cavalcioni.
- No...-
Costanza rimase interdetta e delusa, ma solo per un istante.
- Io te lo assicuro!-
Poi la sollevò e la portò fin sul letto, nella camera accanto.
Fecero l'amore tutta la notte, addormentandosi solo alle prime luci dell'alba.
Li svegliò il telefono che squillava in salotto. Federico si mosse appena, grugnendo e riprendendo a sospirare sommessamente. Prima di alzarsi, ancora umida e scottante del suo tocco Costanza si fermò a guardare il profilo del suo corpo abbandonato sotto le coperte.
Sollevò la cornetta con l'immagine di lui ancora impressa nella mente, un sorriso a metà tra il malizioso e l'adorante che le ornava le labbra. Quando chiuse la chiamata la sua faccia era terrea, l'espressione persa.
Nel frattempo Federico si era alzato, stava sbadigliando appoggiato allo stipite della porta di camera da letto.
- Torna a letto, dai...-
La incitò, facendo segno col dito di raggiungerlo. Poi dovette notare il suo cipiglio, perchè aggiunse con tono preoccupato:
- Costanza, cosa è successo?-
Quasi le corse accanto, passandole un braccio attorno ai fianchi.
Alberto era morto.
No, anzi non era morto... Si era ammazzato.
Senza nemmeno accorgersene gli occhi le si erano riempiti di lacrime, che adesso le serpeggiavano giù per le guance inzuppandogli la maglia del pigiama.
- Mi spaventi così... Ti prego parlami!-
Ma Costanza non poteva farlo, perchè sentiva la lingua incollata e annodata contro il palato. Provò ad aprire la bocca per più di una volta ma l'unico suono che riuscì ad emettere fu un rantolo strozzato.
Erano passati anni, a vederla bene era come se fossero passati secoli, ma in quell'attimo al solo sentir pronunciare quel nome era stato come se le fossero piovuti addosso decine, centinaia, migliaia di ricordi sepolti chissà dove. Era stata una bambina, lo era stata davvero anche se se ne era dimenticata. Era stata una bambina che amava giocare all'aria aperta, fare gare di bicicletta e comporre collanine di fiori. Ed aveva avuto un amico, un bambino bello come un angelo.
Alberto aveva gli occhi blu e i capelli neri. Alberto aveva riccioli arrabbiati e ribelli quasi quanto il suo carattere. Alberto quando sorrideva mostrava fiero al mondo la finestrella vuota dei denti davanti. Alberto non era stato più lo stesso dopo quell'estate là.
Già, quell'estate là...
Più si sforzava di immergersi nel ricordo, più i particolari che un istante prima le parevano così vividi, le sfuggivano di mano. Non ci aveva mai più pensato da allora, ma, mentre singhiozzava appoggiata al petto nudo di Federico, si ricordò anche di Orlando e Tommaso. Si ricordò pure di se stessa, si rivide guardarsi dall'alto 
(in una sorta di inquadratura cinematografica)
le ginocchia ossute e sporgenti, le gambe magre da maschio che correvano a perdifiato. E quella sensazione di svuotamento interiore, di qualcosa che ti lacera la carne e ti strappa via qualcosa per sempre non era una mera impressione, ma il ricordo doloroso di qualcosa che aveva vissuto, che aveva provato. Ma quando?
Federico se la scostò da dosso, tenendola ferma per le spalle e guardandola dritta negli occhi. Lei discostò lo sguardo, terrorizzata che potesse guardarle dentro e capire... Capire quello che neppure lei sapeva.
Non era semplicemente scossa per la perdita di una persona che le era cara, perchè comunque non l'aveva mai più rivisto.
No, c'era qualcosa di più profondo sotto, qualcosa di più grosso e doloroso. Era come se si fosse reciso di netto un legame che, seppur invisibile e per certi versi dimenticato, la manteneva a galla.
- E' morto...-
La vide talmente trasfigurata dal dolore e dalla tristezza che non volle indagare oltre.
- Tesoro, mi dispiace... Mi dispiace tanto...-
E prese a carezzarla sulla nuca, incastrando dolcemente la fronte di lei contro la base del suo collo.
- Non lasciarmi andare, ho paura... Non voglio andare...-
La testa le divenne leggera, iniziò a farneticare, troppo sconvolta per poter capire quello che stava accadendo fuori e dentro di lei.


Gli aereoporti.
Uno dei tanti posti da aggiungere alla lista di cose che odiava e che gli facevano maledettamente perdere tempo.
Mentre aspettava che il suo bagaglio apparisse dalla bocca fagocitante del nastro trasportatore controllò il palmare, constatando con bruciante disappunto che non vi era nessuna mail, nè messaggio, nè chiamata, nè niente di niente.
Borbottò qualcosa a labbra serrate, forse un'imprecazione un po' troppo colorita perchè un'anziana donna vicino a lui, forse scambiandolo per un pazzoide, lo osservò in tralice spostandosi un po' più in là.
Tutta quella questione era già abbastanza pesante, per non dire totalmente assurda, ma in un senso alquanto malsano e disturbante, non c'era proprio necessità che ci si mettesse anche un evitabilissimo ritardo.
Quasi come se qualcuno lo avesse ascoltato dall'alto, vide il suo borsone blu far capolino dalle striscioline che rimasero ad accarezzarlo per qualche istante, prima che lui lo sollevasse, sbuffando.
- Affanculo.-
La vecchietta lo lumò di nuovo, increspando le labbra.

Suo padre era forse leggermente invecchiato e di certo quel paio di baffoni bianchi alla Magnum P.I non lo aiutavano nel dimostrare meno anni. Sua madre al contrario sembrava cibarsi della decadenza del consorte, tipo vampiro.
Non sembrava mutata di un giorno nel fisico e ancor meno nel carattere. Appena entrò a casa, inquietantemente invariata pure quella, quasi gli saltò su per le gambe facendogli le feste come un cagnolino. Per poco non se la immaginò farsela addosso dall'emozione.
- Il mi bimbo è tornato a casa!-
Gli aveva stritolato la faccia con entrambe le mani.
- Dai ma'!-
Si era guardato allo specchio, controllando che non gli avesse lasciato due begli ematomi sulle guance.
- Guardalo come si guarda! Il solito vanesio!-
Lo aveva ammirato, gli occhi luccicanti di lacrime, come se quello fosse il giorno più bello di tutta la sua vita. E forse lo era proprio.
Si erano messi a tavola parlando del più e del meno, per quanto Orlando potesse riuscirci con la mente completamente annebbiata dai pensieri, almeno. Alla signora Ofelia però, raramente qualcosa sfuggiva, sembrava riuscire a captare malumori e preoccupazioni anche a km di distanza, figurarsi accanto a lei allo stesso tavolino.
- Orlando, cos'hai?-
Lo aveva guardato con preoccupazione, ma non senza una vena di risentimento. La sua espressione sembrava dire ''Sei a casa, coccolato come un pacha, cosa può esserci che non va?''
E a quella domanda lui avrebbe voluto rispondere urlando, sputando fuori tutta la rabbia, tutta la stizza, forse anche tutto il dolore che aveva covato da quando aveva buttato giù quella maledetta chiamata con quel commissario del cazzo, che aveva alimentato mentre arraffava indumenti a caso e li gettava nella borsa da viaggio, sentimenti brucianti e al contempo che lo gelavano da dentro mentre saliva in aereo e passava un'ora e mezza di angoscia e preoccupazione. Da quanto sudava freddo persino un'hostess gli si era avvicinata, chiedendogli se stesse andando tutto bene. Ci aveva guadagnato un bicchiere d'acqua e il suo numero di telefono, ma sapeva che non l'avrebbe mai chiamata, era solo per il suo ego.
Ma non disse niente di tutto quello che gli stava vorticosamente passando per la mente, si limitò solo a sfoderare il sorriso più falso che potesse in quel momento increspargli le labbra e rispose che no, andava tutto bene, che era felice di essere lì e che gli sarebbe dispiaciuto andare via.
I suoi abboccarono o almeno fecero finta, forse per preservare la parvenza di pace e tranquillità; continuarono a mangiare parlando col televisore che fagocitava a tutto volume uno stupidissimo programma di quiz a premi.
Quando entrambi furono spariti in camera da letto, Orlando senza la minima ombra di sonno si era messo a fare un po' di zapping inconcludente, finendo persino su un canale pseudo erotico, dove una ragazza dai tratti asiatici si spogliava lentamente davanti alla telecamera, sul viso un'espressione vuota e assente che non l'avrebbe fatto venir duro nemmeno per sbaglio. Spense per disperazione, arrivando persino a pensare di chiamare l'hostess, ma desistette visto che doveva avere un aspetto da zombie e le prestazioni sessuali che avrebbe potuto offrirle in quel momento sarebbero state alquanto insoddisfacenti.
Si trascinò verso l'ultima porta a destra del corridoio. Vi entrò accorgendosi solo dopo aver oltrepassato la porta che stava trattenendo il respiro. L'impressione che lo accolse fu quella di un vero e proprio salto nel tempo: non era cambiato assolutamente niente. Come in una sorta di flashback doloroso ricordò di quando quella cameretta era casa sua, la sua tana, il suo posto, la sua oasi di pace.
Aveva passato centinaia, no forse pure migliaia di ore chiuso lì dentro a fare chissà cosa. La stanza era rimasta identica per davvero, come se fosse uscito da lì dentro solo qualche istante prima... I poster sui muri, i libri impilati nella libreria a muro. Persino un fumetto lasciato aperto sulla scrivania e incredibilmente privo di polvere. Era come un simulacro, una tomba lasciata inviolata e intatta.
Gli venne da sorridere quando lo sguardo gli si posò sulle foto attaccate alla porta. La sua prima vera fidanzatina, il migliore amico dei tempi del Liceo, il gruppo di amici durante un torneo di calcetto. La sensazione che lo investì fu di un'irrealtà completa... Si sentiva estraneo, dolorosamente estraneo nel fronteggiare il se stesso che era stato. Ma sul serio aveva avuto 15 anni? E aveva veramente portato i capelli a quel modo? Per non parlare poi del look... Così tragicamente anni '90.
Se ne rimase per un tempo che gli sembrò un'eternità a spulciare fra le sue vecchie cose, il sorriso ebete riflesso nella specchiera sopra la scrivania. Nel cassettone accanto all'armadio, ormai privo della biancheria che vi prendeva posto un tempo, sua madre aveva gelosamente conservato ogni santa reliquia di quel suo figlio prodigio, talmente in gamba e intelligente da essere andato a vivere all'Estero!!!
Era sempre il suo cavallo di battaglia il celebrare gli incredibili successi collezionati dal suo stupendo bamboccio oltreManica, anche (e sopratutto) se all'interlocutore fregava meno di zero.
Rovistò fra pile di vecchi quaderni, che risalivano persino alla prima elementare e sfogliò diari di cui aveva cancellato l'esistenza notando in un misto tra orrore e vergogna che non avevano nessuna barriera protettiva contro lo sguardo indagatore e impiccione di sua madre. Si poteva ben dire che dopo un'attenta lettura zelante di quelle memorie adolescenziali a sua madre non rimaneva molto altro di cui conoscere sui primi 18 anni di vita del figlio.
Arrossì violentemente quando arrivò al massimo picco di aulica poesia raggiunto nelle due pagine in cui descriveva con minuziosa dovizia di particolari il suo primo rapporto sessuale. Era un'accozzaglia sdolcinata di sentimentalismi, con scariche d'ormone adolescenziale da far rabbrividire. Chiuse l'agenda con uno scatto riponendola di nuovo in fondo al cassetto.
Si ritrovò a pensare al ragazzino che era stato, alle paure e le angosce che lo avevano divorato, alle speranze che gli avevano fatto volare la testa fra le nuvole. Tutti sentimenti ed emozioni che adesso sembravano lontani anni luce.
Continuò a curiosare tra le sue vecchie cose, raccolse da un involucro di plastica una pila di fotografie e si mise a sfogliarle lentamente, divertendosi a riconoscere i volti impressi, non senza un po' di nostalgia.
Mentre se le passava fra le mani una foto, più piccola e rovinata delle altre, volteggiò a mezz'aria finendo sotto la scrivania. Posò le altre sul ripiano, mettendosi poi carponi per recuperarla. La raccolse con calma disturbante, quasi sapesse già cosa vi avrebbe visto voltandola.
Ci mise qualche istante a riconoscersi, ma alla fine scorse quel sorrisetto impertinente che gli fiammeggiava fiero in mezzo ad un viso molto più piccolo e acerbo.
Gli altri erano proprio loro: Tommaso, Costanza e Alberto. Sorridevano tutti, gli occhi leggermente socchiusi dal sole accecante che sembrava rendere i piccoli dentini scoperti delle perle luccicanti.
Era un ricordo labile, lontano, sfumatissimo, ma era quasi certo che quella foto gliel'avesse scattata sua madre nel cortile dei giardinetti pubblici. Sì, riconosceva la fontana sullo sfondo, unica fonte di sollievo nelle giornate d'estate.
Si tenevano stretti in una sorta di piccola catena umana, mani arpionate ai fianchi, ginocchia sbucciate, labbra sporche di gelato...
Guardò negli occhi del piccolo Alberto impresso nella pellicola fotografica, ma non riuscì a scorgere il germe che gli avrebbe tolto la vita più di 25 anni dopo. Erano un gruppo di bambini felici durante le vacanze estive, niente di strano. Allora cos'era quella fastidiosa voragine che sentiva in mezzo allo stomaco? Rimise apposto tutto, quasi con stizza, il pensiero che quella foto lo avesse disturbato tanto lo sconvolgeva oltre ogni misura. Paradossalmente però, appena toccato il cuscino sprofondò in un sonno talmente beato che fu quasi un atto di crudeltà abbandonare le coperte, il mattino seguente.
Lo svegliò il bussare delicato di sua madre che entrava a portargli il caffè.
Si tirò su coi gomiti, strizzando gli occhi per abituarsi alla luce che filtrava dalla porta.
- Mamma, così mi vizi!-
Lei non disse niente, si limitò a sedersi sul bordo esterno del letto, il vassoio ben stretto tra le mani. Orlando notò subito la ruga di preoccupazione che le attraversava la fronte, anche se era ancora intontito dal sonno.
- Potevi dirmelo, Orlando...-
Capì subito a cosa si riferisse. Era stato quantomeno ingenuo a pensare di poter tenere nascosto il vero motivo del suo ritorno. Era pur sempre un piccolo paese di provincia dove le chiacchiere erano sempre circolate liberamente.
- Quel povero ragazzo... Eravate tanto amici da bimbi...-
Orlando si morse il labbro inferiore, osservando la patina acquosa che andava a riempire gli occhi di sua madre.
- Purtroppo è successo...-
Poi, Ofelia Landucci gli si fece più vicino, agguantando una delle mani del figlio fra le sue, stringendo forte.
- E' stato un gesto bellissimo venire per il funerale, tesoro...-
- Già... Quantomeno glielo dovevo...-
Sussurrò lui, invidiandola per non dover portare almeno parzialmente il fardello di quella morte, come invece stava toccando fare a lui.


L'espressione di Olimpia era carica di domande, di interrogativi, ma lui ben sapeva che era una persona troppo rispettosa per dare il via a parlarne per prima.
Anche mentre stava lavando i piatti, voltata di spalle, Tommaso poteva percepire l'incessante fucina di preoccupazioni che si alimentava a dismisura dentro di lei. Lo aveva visto sconvolto e se ne era immediatamente spaventata.
Quello non era già di per sè un periodo semplice, aggiungerci anche questa tragedia non aiutava affatto. Quello che Olimpia neppure lontanamente poteva sospettare era quanto EFFETTIVAMENTE tutto quella storia lo avesse sconvolto.
Non si trattava ''solamente'' di un vecchio amico che si era ucciso, fatto già di per sè orrendo... Olimpia non sapeva nulla del biglietto lasciato da Alberto prima di recidersi i polsi, nè delle macchie purpuree che vi erano zampillate sopra rendendo il suo nome quasi illeggibile, non sapeva assolutamente niente neanche delle dita del poveretto ancora serrate su quel lembo accartocciato e sporco di carta.
Tommaso immaginava tutto questo e anche di più, andava oltre, torturava la sua mente con immagini dolorose e crudeli. Chi lo aveva ritrovato? La moglie? O addirittura uno dei piccini che aveva? Che trauma doveva essere, si ritrovò a pensare, ritrovare il proprio padre annegato nel suo stesso sangue, magari gli occhi sbarrati, la pelle del viso già cascante e giallognola, l'espressione statica e allibita che prende immediatamente un morto.
Ebbe paura di quel filone di immagini macabre e cercò di pensare ad altro, ma era come se la mente gli tornasse continuamente e insistentemente su quel corpo riverso sulle piastrelle non più immacolate di un bagno che non aveva mai visto, ma che in modo sadico e inquietante a lui piaceva immaginare. Come se potesse vederli e di conseguenza toccarli, fissò davanti al suo sguardo un paio di asciugamani puliti, morbidi, di quella consistensa soffice che fanno immediatamente pensare a casa, al profumo di bucato e alla piacevolezza di gettarvi dentro le mani. Erano uno turchese e l'altro di un colore ambiguo, ma caldo: tra l'avana e l'ocra.
Su uno dei due, quello azzurrognolo, era ricamata con filo più scuro, in rilievo, la lettera ''A'' con un ghirigoro vezzoso nell'estremità destra. Il candore immacolato degli asciugamani era interrotto qua e là da piccole macchiette oblunghe, color ruggine. Non erano troppe, niente affatto grosse, ma erano comunque disturbanti... Rendevano imperfetta la sensazione iniziale di estrema pulizia.
Il suo sguardo si spostò dinanzi a sé, ancora come potesse avere la situazione proprio lì di fronte. Tutta la stanza emanava una sensazione di accoglienza estrema, di un qualcosa che si può chiamare ''casa'' e che fa sentire a proprio agio. La parete bianco-sporco era interrotta qua e là dalla presenza di mattonelline in ceramica, deliziosamente pitturate a mano e che raffiguravano iris e glicini. Da quanto era elevata la fattura, si poteva quasi sentirne il profumo in lontananza. Gli venne automatico di inspirare. L'unico odore che sentì distintamente sopra un vago sentore di shampoo e sapone fu quello ferroso del sangue. Non era forte, ma abbastanza pungente da infastidirlo.
Nell'angolo più lontano da dove sentiva di trovarsi c'era una vasca da bagno bella spaziosa, addossata alla parete, munita di un doccino in alto. Sul bordo c'erano delle paperelle di gomma, una a pois e l'altra gialla, tradizionale. Su quest'ultima qualcuno, molto probabilmente un bambino piccolo, vista la calligrafia, aveva scritto il suo nome con tratto incerto e sbilenco.
Lo spazio concavo della vasca da bagno era immacolato, mentre il dorso esterno era insozzato da una manata lunga lunga di sangue, che terminava a poche spanne dal pavimento.
Non avrebbe voluto, lo sapeva, ma quel sogno aperto doveva terminare proprio lì, col suo sguardo abbassato su quel corpo inerte piazzato proprio nel centro della stanza. Del tappetino che si trovava sotto di esso non riusciva neppure a scorgere il colore originario tanto era impregnato di quel rosso brillante che continuava a gocciolare incessante da entrambi i polsi riversi sul pavimento.
Il viso dell'uomo era poggiato a terra sulla guancia sinistra e anche se non poteva vedere bene, lui sapeva che aveva gli occhi aperti, statici, ma di un favoloso colore tra l'azzurro e blu e che in vita erano stati talmente vividi e penetranti da apparire a tratti inquietanti.
Gli occhiali con montatura di corno erano scivolati un po' più lontano, affianco al lavandino, ma sembravano intatti, pronti ad essere riutilizzati.
- Tommaso?-
Sbattè gli occhi varie volte, prima di rendersi conto di essere nella sua cucina, a casa sua, con la sua ragazza.
Olimpia lo fissava in modo strano, le sopracciglia corrugate e la bocca semiaperta.
Ci impiegò qualche secondo prima di bofonchiare, incerto.
- Mh?-
Lei gli sventolò la teiera sotto il naso, al chè lui annuì appena, avvicinando la tazza che aveva vinto ad una lotteria di beneficenza forse 5 anni prima.
- Come stai?-
Il tono di lei voleva apparire rilassato, ma la nota di agitazione che ne scaturì rese inutile il mascheramento. Tommaso comunque non le fece capire di averlo notato.
- Meglio...Grazie...-
Le prese una mano fra le sue per poi portarsela  alle labbra e schioccarle un bacio sulle nocche. Olimpia sorrise appena poi si toccò le sue labbra con l'indice, che infine poggiò sulla bocca di Tommaso.
- Sei bellina, labbra di pesca-
Le soffiò sul naso, avvicinandosi al suo viso rotondo.
- Anche tu non sei male, occhietti vispi-
Fecerò l'amore tutto il pomeriggio, ma Olimpia non sapeva che Tommaso continuava ancora a sentir nel naso quel puzzo pungente di sangue.

Si svegliò che non c'era, ma la parte del letto vuota e tiepida sapeva ancora di lei.
Tommaso affondò il naso nel cuscino di Olimpia inspirando come fosse la prima boccata d'aria che avesse mai preso nella sua vita. E la sensazione fu proprio come se lo fosse davvero. Poi si alzò, si preparò un caffè con la moka e si accese una sigaretta, facendo però attenzione ad aprire la basculante della cucina.
Per un po' fece finta di lavorare al suo libro, ma quella dannata linea verticale lampeggiante gli ricordava con terribile efficacia quanto gli ultimi eventi avessero fiaccato ancor più la sua ispirazione.
Richiuse il portatile che si era portato a letto e lo scansò lontano da sè, come a voler cacciarne il pensiero.
Si portò entrambe le mani dietro la nuca osservando per un tempo infinito il soffitto, distratto ogni tanto solo dal rumore di un bambino che piangeva, forse il neonato di quelli del piano di sopra.
Chissà se Olimpia voleva un figlio?
Fino a quel momento non se lo era mai chiesto veramente. Avevano l'età giusta per poter pensare di metter su famiglia, lui specialmente, ma semplicemente non erano mai entrati nel discorso, o almeno erano stati entrambi tanto accorti da non farlo.
Il pensiero della famiglia un po' lo terrorizzava. Non tanto il fatto di dover prendersi cura di una creaturina piccola e bisognosa (che già bastava a far venire i brividi) quanto il concetto stesso dell'esistenza di un figlio: un prodotto di sè, una copia, una sintesi dell'amore di due persone, un'unione che creava dal nulla (DAL NULLA!) un' altra persona unica, inimitabile, con una sua mente, un suo corpo, un suo pensiero e che poi avrebbe potuto in futuro continuare a fare lo stesso... Era un qualcosa di serio, di gigantesco, un pensiero che lo schiacciava nella sua enormità. Era attratto dall'idea, ma la sua attuazione non lo convinceva fino in fondo.
Ebbe improvvisamente paura che Olimpia invece desiderasse ardentemente diventare madre, ma che lo negasse; sopratutto a se stessa. Non le sembrava il tipo, questo era vero, ma si è davvero pronti o propensi ad essere genitori prima di esserlo veramente?
Poi, il pensiero che fosse lui la causa del tacere sull'argomento gli spezzò quasi il fiato. Anche se la sua donna avesse voluto un figlio, come poteva pensare che volesse metter su famiglia con un tipo come lui? Complessato, problematico, senza sicurezze?
E non voleva di certo raccontarsi la favoletta che ''basta l'Amore''. Niente affatto, con un figlio serve ben altro oltre che affetto.
Su cosa poteva contare lui di concreto, apparte quel bilocale che erano riusciti faticosamente a comprare dopo innumerevoli sacrifici?
Poggiò i piedi per terra al di là del bordo del letto, senza però accennare ad alzarsi. Fissò semplicemente fuori dalla finestra del decimo piano immaginando poi di aprire la finestra, far dondolare un piede al di là del bordo e di chiudere gli occhi, spostando semplicemente il peso in avanti. Pensò pure che Alberto aveva avuto due palle grosse così a far quel che aveva fatto.


Le piaceva molto giocare con gli animaletti di plastica, di quelli che riproducono fedelmente gli animali veri. Ne aveva moltissimi e tutti diversi, il suo preferito però rimaneva un bellissimo leone che le aveva regalato il babbo a Natale. Era pitturato a mano e sembrava essere in grado di ruggire da un momento all'altro.
Le piaceva sopratutto far finta che potessero parlare, si immaginava che potessero fare le cose che fanno le persone, come andare al cinema, bere il té e giocare a scacchi.
Passava le ore a creare storie dove la signora Elefante invitava la signora Leprotta a casa sua e, insieme, cucinavano lo sformato di patate che faceva anche la sua mamma, nella realtà.
Giocava molto da sola perchè aveva sempre desiderato un fratellino (o sorellina, non era mai stata specifica sull'argomento) che però non era arrivato mai.
Non era triste a riguardo, perchè sapeva che i suoi genitori si volevano un gran bene anche così e che sopratutto ne volevano moltissimo a lei, ma a volte sopratutto prima di addormentarsi, immaginava di dormire affianco ad un altro bambino e che quel bambino fosse suo fratello. Schioccava un bacino nell'aria e gli augurava la buonanotte e così dormiva beata fino alla mattina.

L'ultimo ricordo veramente felice della sua infanzia era un ricordo semplice, per molti versi forse anche banale.
Si rivedeva a sedere in cucina su una delle sedie di vimini alle quali la mamma aveva cucito dei cuscini imbottiti con la stoffa a fiori, coloratissimi. Era mattina e il sole caldo di inizio estate filtrava piano dalle finestre leggermente discoste.
Il babbo guardava la mamma sorridendo e lei gli rispondeva andandogli affianco e affondandogli una mano in mezzo ai riccioli neri e fittissimi che gli incorniciavano la testa. Si guardavano e gli occhi era come se brillassero, sprizzavano una luce, un'energia speciale, come se anche così senza parlare riuscissero a comunicarsi un segreto che nessun'altro poteva conoscere.
Lei, che ancora non arrivava neppure a toccare il pavimento coi piedi, li guardava guardarsi e sognava di riuscire a capire cosa si stessero dicendo senza aprire bocca.
Poi il babbo le prendeva una manina, se la portava alle labbra e la baciava mentre come per magia nell'altra sua mano appariva una fetta biscottata già imburrata e a cui lei si divertiva a spalmar su la marmellata. Adorava quella di more.
Il più delle volte poi, il babbo la accompagnava a scuola in motorino.  Poteva sentire ancora la brezza leggera che le alzava la gonna e le battute e i giochi di parole che lui le raccontava e che la facevano ridere talmente forte da aver paura di perdere la presa. Ma il babbo le diceva sempre di stringerlo forte e così lei non era mai caduta.
A cadere invece erano stati proprio lui e la mamma un giorno d'ottobre particolarmente freddo.
Quando la zia venne a prenderla a scuola aveva già intuito che qualcosa non andava.
Da quando aveva iniziato le elementari, la mamma non aveva saltato neppure un giorno, era sempre stata puntuale: la aspettava appena fuori dal cancello che delimitava il cortile della scuola, stretta nel suo cappotto a scacchi rosa e blu, il sorriso bellissimo, i capelli scuri sciolti e lunghi che profumavano di buono, di mamma.
Quel giorno invece non c'era ad aspettarla e neppure nei giorni successivi. Così come pure il babbo e la sua motocicletta azzurra, che non era più apparsa sotto casa.
Aveva cercato di non piangere perchè la zia era gentile e anche lei le preparava le fette con la marmellata, ma era stato più forte di lei, dopo una settimana senza mamma e papà era crollata. Senza che nessuno glielo avesse detto apertamente aveva capito da sola che non sarebbero mai più tornati.
Aveva 7 anni ed aveva appena iniziato la seconda elementare quando affrontò per la prima volta concretamente la sottile linea che divide vita e morte. La morte l'aveva sfiorata e si era attaccata a lei come una patina opaca e grigiastra. Finì per chiudersi in se stessa talmente tanto da rendere pressochè morta anche lei.
I primi tempi sua zia, la sorella della mamma, fu sull'orlo della disperazione. Lei e il marito non avevano avuto figli e non ne avrebbero avuti neppure in futuro e la consapevolezza di dover crescere e prendersi cura di una bambina orfana appesantiva loro il cuore come un macigno.
La piccola Costanza passava ore seduta sul bordo del letto che le avevano preparato nella camera degli ospiti (ormai la sua cameretta), con lo sguardo vuoto e triste, le labbra leggermente dischiuse e aride, gli occhi consumati dalle lacrime che ormai non venivan fuori nemmeno più.
Quel dolore sembrava talmente forte, profondo e tremendo da apparire senza rimedio. A nulla erano valsi i milioni di tentativi messi in atto dalla zia Caterina e suo marito, la bambina rimaneva totalmente discosta dalla realtà, come congelata in uno spazio-tempo irraggiungibile.
Passavano i giorni, passavano i mesi e pure gli anni, ma la piccola non accennava ad un recupero, seppur minimo e misero. Amava sognare ad occhi aperti, con lo sguardo perso nel vuoto, oppure rimanere ore a scarabocchiare su blocchi di fogli che lo zio le comprava assieme ai pastelli, matite ed acquarelli. Quei disegni erano sempre coloratissimi, vivaci, allegri a differenza dell'espressione dipinta sul viso della piccola artista.
Una volta a settimana, da quando i suoi erano deceduti, Costanza aveva le sedute con una psicologa infantile. Alla bambina quella signora non piaceva: era alta, magrissima e con un naso aquilino simile al becco di un rapace pronto a calare sulla preda, era fredda, controllata, quasi non provasse emozioni ne' empatia. Non le piaceva proprio.
L'unico slancio emozionale che sembrava scuoterla avveniva quindi in prossimità dell'appuntamento settimanale con la dottoressa: Costanza si rifiutava di lasciare la sua camera, iniziava ad urlare come indemoniata, le guance rigate da un mare di lacrime.
La zia arrivava persino ad odiare se stessa mentre trascinava la sventurata piccina giù per le scale della palazzina e poi dentro la macchina, ma era necessario: doveva superare quel trauma.
Quel trauma, invece, non lo superò mai del tutto ed anzi, crescendo e prendendo coscienza delle invalidanti ansie di cui soffriva, Costanza arrivò a capire che niente sarebbe tornato mai al proprio posto, neppure sottoponendosi a tutte le terapie dell'Universo.
Crebbe senza amici, senza confidenti, senza poter sublimare la sua naturale e sconfinata fantasia. A primo acchito sembrava una bambina triste, arida, seriosa, a tratti inquietante, con quel paio di profondi occhi simili a pozzi, densi di dolore. Eppure, in fondo a tutta quella sofferenza Costanza sentiva dentro di sè un fuoco scoppiettante, multicolore, vivido e che le permetteva di sopravvivere.
Il senso di abbandono, la perdita e la solitudine rimanevano una costante nella sua vita, ma seppe man mano controllarlo, almeno per riguardo e affetto nei confronti dei suoi zii, che la amavano proprio come fosse loro figlia. Entrambi non avevano mai perso la speranza con quella bambina così tristemente sconsolata ed anzi, le dimostravano sempre più una dolcezza e un'estrema preoccupazione. La zia la portava sempre al parco, anche se lei spesso se ne rimaneva seduta sulla panchina ad osservarsi la punta delle scarpe, lo zio la portava in campagna a raccogliere le fragole selvatiche, quando era bella stagione, anche se lei compiva la mansione quasi come un animaletto addestrato, meccanicamente, senza nemmeno un sorriso.
Fu nell'estate del suo decimo compleanno che conobbe Alberto.
Era fine maggio e lei se ne stava come al suo solito seduta sulla panchina di legno del piccolo parco del suo paesino. L'aria era densa, soffocante e una miriade di bambini vociavano tutt'attorno, rincorrendosi o giocando a palla. Costanza osservava intensamente un gruppetto di bambine che saltavano la corda, recitando a squarciagola una filastrocca. La conosceva anche lei, ma non l'aveva mai cantata con qualcuno della sua età, non aveva il bruciante desiderio di partecipare al gioco... Si sentiva molto più protetta e tranquilla nell'osservare il divertimento altrui, soffermandosi sul sorriso di ciascuno di loro.
Proprio mentre osservava la scena qualcuno le si parò davanti, d'istinto il suo sguardo si spostò verso la zia, dall'altro lato della panchina intenta a parlare con una signora, mentre l'indice della sua mano destra teneva il segno del romanzo che stava leggendo.
Costanza strinse il labbro inferiore con i denti davanti, poi alzò gli occhi.
- Ciao!-
Un bambino di circa la sua età la stava fissando negli occhi, il visetto furbo e tondo, gli occhi di un blu intensissimo, irreale quasi.
Lei si guardò spaurita intorno: avrebbe voluto rispondere, davvero, con tutta se stessa... Ma l'unica cosa che riuscì a fare fu deglutire il bolo di saliva che sentiva in bocca.
- Perchè te ne stai sempre qui da sola?-
Il sole feriva quel bel paio d'occhi elettrici, ma il bambino sembrava non farci granchè caso, era piuttosto interessato a lei dacché la osservava fisso, senza mai sbattere le palpebre.
Di nuovo Costanza avrebbe voluto esprimere un qualsiasi suono, ma non lo fece. Si limitò a fissarlo di rimando.
- Sei sicura di stare bene?-
Insistette il bambino, gli occhi testardamente ancorati nei suoi.
- Sì-
Fu tutto quello che riuscì a dire, ma fu pur sempre un inizio.
Continuò ad andare al giardino con la zia, ad osservare i bambini senza prendere parte a nessun gioco, semplicemente stando seduta al limite della panchina, la schiena ben dritta e i piedi che sfioravano appena il terriccio brullo.
Spesso riconosceva anche il bambino dagli occhi azzurri di quel giorno e, anche se ne sentiva un irrefrenabile desiderio, non riusciva mai ad andare a parlargli. Anche lui la osservava, certo, ma era come se avesse compreso la sua diffidenza, come se stesse aspettando il momento giusto per non inquietarla.
Quel momento arrivò, qualche tempo dopo verso la fine dell'estate di quello stesso anno.
Costanza se ne stava seduta sulla sua panchina, come al solito e non sembrava, specialmente per lei, un giorno così diverso dagli altri, eppure lo era.
- Ehi!-
Inizialmente non volle voltarsi, pensò semplicemente che quel saluto non fosse rivolto a lei, ma in cuor suo, quando sentì ticchettarsi la spalla sperò con tutto il cuore che si trattasse del bambino con i riccioli scuri.
Infatti era lui.
- Sei stata tutta l'estate piantata qua?-
Le chiese sorridendo. Non era un tipo che la tirava per le lunghe, questo no... Quello che pensava passava dal cervello alla lingua senza filtri. Ma non voleva essere cattivo, questo Costanza lo capì, per cui abbozzò un sorrisetto tirato.
- Stavo scherzando, comunque!-
Specificò lui, notando il leggero disagio della coetanea. Prese posto affianco a lei, mentre Costanza sentiva irrigidirsi qualcosa dentro di lei.
- Io comunque mi chiamo Alberto-
Lei annuì, di nuovo quel sorriso poco convincente.
Alberto sollevò le sopracciglia, interdetto ma divertito.
- Di solito quando ci si presenta si dice anche il proprio nome!-
La punzecchiò.
Il viso di Costanza avvampò in un lampo. Avrebbe voluto essere al contempo lontana kilometri e kilometri, eppure il fatto di essere lì accanto a quel bambino la rendeva intimamente felice, di una felicità che non sapeva esprimere e che non provava da molto, troppo tempo.
- Costanza-
- E' un bel nome!-
Un sorriso molto più sincero le increspò le labbra.
Ci fu un momento di silenzio, un momento in cui Alberto sembrò osservarla con ancor più profondità di come avesse fatto fino a quel momento. Quegli occhietti blu sembravano essere così indagatori da riuscire a leggere nel pensiero.
Era un'idea stupida, ma Costanza abbassò lo stesso lo sguardo, non si sa mai.
- Perchè te ne stai sempre qua da sola?-
Forse era quella la domanda con la quale la sua stessa solitudine voleva evitare di avere a che fare. Si isolava per non farsi chiedere perché si isolava. Era un meccanismo complicato da spiegare, persino da capire.
Pensò che dire la verità non sarebbe costato nulla, per cui con un filo di voce riuscì a dire:
- Io.. Non lo so...-
Per la prima volta Alberto spostò lo sguardo dal viso di lei e Costanza ebbe paura, se non l'autentico terrore, che il bambino se ne andasse, che la lasciasse sola, ora che sola non voleva essere lasciata. Fu turbata da quel pensiero, perchè era la prima volta che desiderava qualcos'altro che non fosse il niente.
Sentì avvicinarsi timidamente la mano piccola, ma già abbozzata da uomo di Alberto e, sebbene l'impulso iniziale fosse stato proprio quello, non ritrasse la sua. La lasciò appiattita e quando lui le sfiorò le dita smise di trattenere il fiato.
  
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