La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Sabato«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
19 luglio, ore dieci e otto.
Un
leggero ticchettio la ridestò dal sonno.
Courtney,
inizialmente, pensava che fosse solo un sogno, quel rumore che le
rimbombava
nella testa; poi, capì che era reale, che qualcuno stava
bussando alla porta
con insistenza.
Sbatté
più volte le palpebre, per abituarsi alla luce del sole che
entrava
prepotentemente dalla finestra - si era dimenticata di abbassare le
tapparelle,
ieri notte -, e con l’aiuto delle braccia sollevò
il suo corpo dal materasso.
Si
stropicciò gli occhi. Sembravano passati solo pochi minuti
da quando si era
addormentata, invece erano già le dieci passate, come
poté testimoniare il suo
cellulare poggiato sul comodino.
Si
avvicinò alla porta e la spalancò, pronta a dirne
quattro a colui che aveva
avuto il coraggio di svegliarla così dopo la giornata
infernale di ieri.
«Mi dia
una buona ragione per cui io non-»
Ma si
ammutolì di colpo. Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e
senza maglia.
Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno,
principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima
volta» la
derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire
conciata così? C’è
il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino,
accennando al suo
pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una
vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai
forse perso la maglietta? In
tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
«Okay, siamo
pari» concesse.
Si
scansò per farlo passare. Non voleva che qualche passante li
vedesse conciati
in quella maniera, avrebbero potuto pensare male. E ci teneva a
mantenere una
reputazione adeguata.
«Immagino
che tu abbia qualcosa di estremamente urgente da dirmi» disse
lei,
richiudendosi la porta alle spalle. «Altrimenti non vedo come
mai tu sia
piombato in camera mia, svegliandomi per giunta, senza nemmeno esserti
vestito».
«Effettivamente,
ho un paio di domande e forse tu sai rispondere» ammise.
«Ad esempio, come mai
stamattina mi sono risvegliato con addosso gli stessi pantaloni di ieri
e un
terribile mal di testa? E perché ho ritrovato John a dormire
rannicchiato per
terra?»
«Vi
siete soltanto presi una sbronza epocale» rispose con un
sorrisetto. «Mi avete
fatto preoccupare».
«Come
se fosse la prima volta» ribatté, vagamente
divertito.
Risero
entrambi, risero spontaneamente. Courtney pensò che le loro
risate suonavano
così bene assieme, avrebbe voluto registrarle.
E poi,
all’improvviso, gli chiese, mordendosi il labbro:
«Davvero non ricordi niente?»
«Non
molto» rifletté, tormentandosi il pizzetto.
«Ricordo un paio di cose dell’addio
al celibato. E ricordo che ieri sera eri nella nostra stanza».
Un
lampo gli balenò negli occhi azzurri.
«Cos’è
successo dopo?» chiese improvvisamente serio. «Non
avremo mica-»
«Nulla del genere» lo interruppe. «Mi
hai baciata, ma ti ho fermato subito».
Lo vide tirare un grande sospiro di
sollievo e rilassarsi di colpo.
«Meno male» mormorò.
«Meno… male?» ripeté lei
confusa. Cosa
voleva dire?
«Sì, insomma,» balbettò
Duncan,
«sarebbe stato imbarazzante».
Imbarazzante.
Eppure
non lo aveva trovato
imbarazzante, quando era successo l’opposto. Anzi, sembrava
che gli fosse
piaciuto. Cosa cambiava adesso?
Courtney si sentì montare da una rabbia
improvvisa.
«Ora che ho risposto alle tue domande,»
proruppe con freddezza e acidità, «ti sarei grata
se uscissi dalla mia camera.
Dovrei vestirmi e non vorrei che la cosa diventasse imbarazzante».
Duncan percepì il suo cambio repentino
d’umore - sebbene non comprese a cosa fosse dovuto - ma, non
appena aprì la
mandibola in cerca di spiegazioni, si sentì spintonare fuori
dalla stanza;
subito dopo la porta sbatté con forza alle sue spalle.
Forse aveva avuto una reazione troppo
eccessiva, si disse la ragazza non appena lo ebbe cacciato, forse non
aveva
tutti i torti. Ritrovarsi nello stesso letto, dopo quasi nessun
contatto fisico
negli ultimi sei anni, sarebbe potuto sembrare davvero imbarazzante e
fuori
luogo.
Ma lei lo desiderava davvero e ieri
sera, se la sua razionalità non l’avesse fermata,
probabilmente avrebbe
ottenuto ciò che voleva.
•
• •
Ore
cinque e mezza di pomeriggio.
Gwen
fissò la sua immagine riflessa
nello specchio, mentre Courtney le fissava in testa meglio che poteva
il lungo
velo nero con delle forcine.
Non riusciva a credere che stava
davvero per sposarsi con l’uomo della sua vita. Quegli anni
di relazione con
Trent erano stati magici, tra i migliori della sua vita; non si era mai
sentita
così amata e apprezzata da una persona sola. Voleva davvero
passare il resto
della sua vita con lui.
«Manca solo un po’ di trucco»
constatò
la bruna.
La fece voltare verso di lei e cominciò
a frugare nella sua trousse, in cerca di qualcosa di adeguato.
Mentre Courtney le applicava l’eyeliner
sulle palpebre, disegnando due linee perfette, Gwen non poté
fare a meno di
credere che, in quel momento, nessuno potesse essere più
felice di lei. Non
solo aveva accanto il ragazzo migliore del mondo, ma anche la migliore
amica e
testimone di nozze che potesse mai desiderare.
In quei giorni si era dedicata appieno
a lei e al suo matrimonio, tanto che sembrava che fosse lei quella in
procinto
di sposarsi, e non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza per il
suo
contributo.
Era la sorella che non aveva mai avuto.
«Sei perfetta» esclamò, facendola
specchiare.
E lo era davvero. Non aveva mai visto
un trucco così bello in tutta la sua vita. Neanche se ci si
fosse messa
d’impegno, sarebbe riuscita ad emularlo.
«Sono così fiera di te» disse
all’improvviso Courtney, in uno dei suoi sorrisi
più belli e sinceri. «Stai per
sposarti e io non posso che augurarti tutta la felicità di
questo mondo. Te lo
meriti».
Erano le più belle parole che qualcuno
le avesse mai rivolto. Potrebbe sembrare infantile, ma sentiva che
sarebbe
potuta scoppiare in lacrime di gioia da un momento all’altro.
Si alzò dalla specchiera e si pose
davanti a lei, sorridendole.
«Grazie» mormorò Gwen. «Grazie
per
esserci sempre stata. Sei la mia migliore amica».
E si abbracciarono per un tempo
indeterminato. Il mondo sotto ai loro piedi sembrò sparire
in quel bellissimo e
prezioso attimo.
Fu Courtney la prima a staccarsi.
«Meglio andare adesso, prima che mi
metta a piangere» dichiarò con la voce tremolante.
«E sappiamo che se piango
io, piangi anche tu».
Molte volte si erano trovate a sfogarsi
- al telefono o di persona - per i motivi più disparati e,
quando una cominciava
a frignare, l’altra la seguiva a ruota.
Alzò il velo da terra, per evitare che
la mora vi inciampasse, e scesero in strada, dove le attendeva la
macchina di
Gwen, che si sistemò sul sedile posteriore, facendo ben
attenzione a non
sgualcire il vestito. Courtney, invece, si sistemò al
volante.
Aveva insistito tanto che fosse proprio
lei a portarla in chiesa.
Ma, quando provò ad accendere il
motore, non successe nulla. Girò la chiave più
volte, ma la situazione non
cambiò minimamente.
«Non può essere!» esclamò la
bruna in
preda al panico. «No, no, no! Ti prego non adesso, ti prego
non adesso!»
«Calmati» le ordinò Gwen, prima che
potesse cominciare ad urlare istericamente.
«L’auto non parte e non arriveremo mai
in tempo. Come faccio a calmarmi?!»
«Dimentichi una cosa» disse a voce
alta, mentre l’amica rischiava di andare in iperventilazione.
«Duncan è un
meccanico».
Immediatamente si lanciò sulla sua
pochette, buttata sul sedile del passeggero, dandosi mentalmente della
stupida
per non averci pensato prima, vi estrasse il palmare e compose il
numero del
ragazzo.
«Dimmi, principessa» rispose lui
qualche istante più tardi.
«Qualunque cosa tu stia facendo,
mollala e vieni a risolvere il problema!» gli
ordinò lei.
«Che diamine è successo?» chiese,
leggermente preoccupato dal suo tono.
«Non lo so, la macchina non parte!»
gridò ancora più in panico di prima.
Sembrò replicare, perché Courtney
aggiunse, sempre più irritata ed agitata: «Non ne
ho idea, sei tu l’esperto!
Vieni immediatamente e basta».
Riattaccò e si lasciò andare contro il
sedile, buttando fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. E
poi si chiese: era
per caso una calamita umana di sfortune?
•
• •
Ore
cinque e cinquantotto.
Duncan arrivò
immediatamente e compì il
miracolo. Rilevò subito che la batteria si era scaricata e,
grazie a dei cavi
trovati nel garage, riuscì a rimettere in moto la macchina
in tempo record. Per
il suo nobile gesto, si guadagnò anche un bacio sulla
guancia da Courtney che,
accecata dalla felicità e dal sollievo, si rese conto di
quello che aveva fatto
solo dopo che vide un ghigno dipingersi sul volto di lui.
I tre arrivarono alla
cattedrale con
due minuti di anticipo, quando ormai tutti gli invitati avevano
già preso
posto.
«Visto che
con la calma si risolve
tutto?» dichiarò Gwen, quando Courtney la
aiutò a scendere dall’auto.
«Tutto
è bene quel che finisce bene»
recitò saggiamente Duncan. «Ora, se non vi
dispiace, vado a trovarmi un posto
per assistere alla cerimonia».
Ma dopo nemmeno tre
passi fu bloccato
da un urlo di Gwen.
«Che
succede?» chiese la bruna
voltandosi di scatto.
«Ho
dimenticato le fedi!» esclamò
scoraggiata. «Trent si è andato a preparare al
locale e gli avevo promesso che
le avrei prese io. Sono un’idiota!» concluse
sfogandosi contro se stessa e
coprendosi il viso con le mani.
Lo sguardo di Courtney
saettò subito
verso il ragazzo, che rabbrividì istantaneamente. Aveva
già capito dove volesse
andare a parare e non gli piaceva per nulla.
«Te lo puoi
scordare» sbottò,
incrociando le braccia al petto. «Non tornerò
indietro per prendere le fedi».
«La
cerimonia sta per cominciare e io
sono la testimone, non posso muovermi» spiegò.
«Figurati se può andare Gwen,
che è la sposa. Quindi, resti solo tu».
Vedendo che non aveva
fatto una piega,
aggiunse in tono compassionevole: «Per favore!»
Cercò di
resisterle, ma quando vide
quegli occhioni dolci si sciolse subito. Doveva essere una strega,
conosceva a
menadito i suoi punti deboli e sapeva come farlo cedere.
«Va
bene» sospirò lui.
Gli passarono le
chiavi dell’auto e di
casa, gli dettero le indicazioni per trovarle e lo incitarono a
muoversi,
mentre loro due si incamminarono verso l’ingresso della
chiesa, dove il signor
Fahlenbock attendeva la figlia.
Duncan
intercettò John, in piedi vicino
ad un carretto degli hot-dog davanti alla chiesa. Sapeva che avrebbe
approfittato del matrimonio per ingozzarsi come un porco. Non ci
pensò due
volte: si avvicinò e lo afferrò per la
collottola, trascinandolo lungo il
marciapiede.
«Lasciami,
se non vuoi che ti denunci
per sequestro di persona!» lo minacciò,
puntandogli contro un wurstel
molliccio.
L’altro si
limitò ad aprire il
portellone della macchina e a sbatterlo dentro, senza dire una parola.
«Mi dici
dove andiamo?» chiese il
bruno, guardandolo allacciarsi la cinta e mettere in moto.
«A
riprendere le fedi che Gwen ha
dimenticato» rispose, sfrecciando a tutto gas.
«E
perché devo venire anch’io?»
«Perché
noi siamo una coppia» ghignò,
guardandolo con la coda dell’occhio. «Soffro io,
soffri anche tu».
John ne era certo: una
volta finito il matrimonio,
quelle fedi avrebbero tormentato i suoi sogni in eterno.
•
• •
Ore
sei e trentanove.
La
cerimonia era stata perfetta, sin
dal momento in cui due bimbe identiche dai lunghi capelli neri - due
cuginette
di Trent - avevano cosparso la navata con dei petali di rose.
Successivamente,
Gwen aveva fatto il suo ingresso con il padre nel suo splendido abito
da sposa.
Ai piedi dell’altare, il signor Fahlenbock baciò
entrambe le guance della
figlia, sussurrandole delle parole che solo lei percepì, la
passò al
quasi-marito, meraviglioso con quello smoking bianco, e si sedette
vicino a sua
moglie, che guardava la coppia con estremo orgoglio.
Nessun occhio era rimasto asciutto
troppo a lungo.
Tutto era proceduto per il meglio e il
momento cruciale arrivò in fretta.
«Vuoi tu, Trent McCord, prendere come
sposa la qui presente Gwendolyn Fahlenbock?» chiese il
sacerdote, un uomo
bassino con pochi capelli bianchi sulle tempie, il viso solcato da
profonde
rughe e degli occhialini tondi.
«Lo voglio» disse deciso.
Adam, alla sua destra, ammiccò in sua
direzione, alzando un pollice in segno di approvazione.
«E vuoi tu, Gwendolyn Fahlenbock,
prendere come sposo il qui presente Trent McCord?» chiese
nuovamente, stavolta
rivolgendosi alla sposa.
«Lo voglio» rispose lei, al culmine
della felicità.
E tutto si fermò.
Nessuno sull’altare si mosse e la
platea restava a guardare, trattenendo il fiato.
«Ehm, le fedi?» chiese il prete,
sporgendosi verso la coppia.
Trent si voltò prima verso Adam e
Courtney - il primo alzò le spalle, con
un’espressione interrogativa in volto,
e la seconda gli sorrise angelica -, poi verso Gwen, che cercava di
nascondere
il suo rossore e la sua colpevolezza.
«Stanno arrivando» si limitò a
borbottare,
imbarazzata.
«A quanto pare,» disse il parroco alla
platea, «abbiamo avuto un piccolo contrattempo».
Il poveretto non sapeva davvero cosa
fare o dire per mantenere accesa l’attenzione della gente.
Subito nella chiesa cominciarono a
diffondersi mormorii e commenti sussurrati a voce bassa. Tutti si
domandavano
cosa fosse successo per far ritardare la conclusione di quella
splendida
cerimonia.
Courtney, alla sinistra di Gwen, si
sporse verso l’enorme portone in legno, spalancato sulla
strada, alla ricerca
di John e Duncan.
Dove diamine si erano cacciati?
•
• •
Ore
sei e trentanove.
Le
uniche cose che il cervello di
Duncan riusciva ad elaborare erano un’infinità di
bestemmie ed imprecazioni,
una più fantasiosa e creativa dell’altra.
Erano riusciti a recuperare le fedi
senza alcun intoppo ed erano ripartiti alla volta della cattedrale,
quando si
erano ritrovati imbottigliati nel traffico. Come potevano immaginare
che quella
fosse l’ora di punta?
«Certo che anche quel dannato autobus
potrebbe smetterla di fermarsi per far scendere la gente» si
lamentò John,
accennando al mezzo di trasporto che si trovava quattro macchine
davanti a
loro.
Spesso, quando era arrabbiato o
frustrato, cominciava a delirare e se ne usciva con delle frasi prive
di senso.
«Ti senti quando parli?» ringhiò Duncan
roteando gli occhi.
Dopo venti minuti di quella fila assurda,
non sopportava più nulla, figurarsi se riusciva a tollerare
i commenti senza
senso di quell’essere.
«Perdonami, ma non sei l’unica persona
annoiata a morte qui dentro!» sbraitò quello.
«Almeno tu non devi guidare in mezzo ad
un’orda di gente che non conosce nemmeno le regole
basilari».
Poco prima, ad esempio, l’auto davanti
a loro si era fermata ad un semaforo giallo, tramutatosi in rosso forse
solo
dopo un minuto, facendo perdere loro tempo prezioso. Duncan gli
strombazzò,
mentre John si limitò ad insultarlo. Si beccarono un dito
medio e per poco il
secondo dei due non scese dalla macchina per andargliene a dire
quattro. Il
tipo dovette ringraziare che il semaforo diventò verde.
Un altro, invece, non aveva rispettato
uno stop e li aveva tagliato la strada con rapidità;
rischiarono di andargli
addosso. Anche in questa situazione il moro si lasciò andare
in una sonora
strombazzata di clacson, il bruno in epiteti sconvenienti. Almeno
questa volta,
nessuno si sfogò con alcun gesto.
«Ora basta» sentenziò Duncan, svoltando
per una stradina secondaria. «Parcheggiamo qui e andiamo a
piedi» decise,
lasciando la macchina nel primo buco libero che trovò.
«E sai dove si trova la chiesa?»
domandò John, non esattamente convinto da quella proposta.
«Certo, ho già fatto la strada e l’ho
memorizzata» lo rassicurò lui.
«Arriveremo in un secondo».
E anche quella volta non andò come
sperato. Duncan pensava di aver
memorizzato la strada, ma non fu affatto così.
Morale della fiaba, i due vagarono per
le strade a passo veloce per una ventina di minuti, con degli smoking
addosso e
delle fedi dietro, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti. In quei
venti
minuti John, naturalmente, non perse tempo per insultarlo fino alla
morte.
Fortunatamente, prima che potessero collassare, riuscirono a ritrovare
la
cattedrale, per immensa gioia di entrambi.
Varcarono il portone con aria solenne
e, al cenno di una signora vestita in verde, che si era accorta di
loro, un
centinaio di teste si voltarono in loro direzione. Molti si chiesero
chi
fossero e cosa stessero facendo.
«Abbiamo le fedi!» dichiarò John
affannato, alzando la scatoletta di velluto blu come se fosse una coppa
d’oro.
E fu in quell’istante che i presenti tirarono un sospiro di
sollievo.
Camminò a testa alta lungo la navata,
tutti che guardavano verso di lui, sventolando la scatola. Ma, una
volta ai
piedi dell’altare, non si accorse della presenza di una
scalinata e inciampò,
rischiando di andare a battere la testa contro lo spigolo del gradino
più in
alto. Le fedi, invece, volarono dritte in mano a Trent.
Il bruno cercò di non bestemmiare in
quel luogo sacro; si rialzò e prese posto accanto a Duncan,
in un banco della
quarta fila a sinistra, che sghignazzava sommessamente; risolse il
tutto
pestandogli un piede e la soddisfazione di vederlo quasi in lacrime per
il
dolore lo ripagò.
«Direi che possiamo procedere con i
voti nuziali» dichiarò il sacerdote.
«Gwen,» disse Trent guardandola negli
occhi, «sin dal primo momento in cui ti ho vista, ho capito
che eri una ragazza
fantastica, eri troppo per uno come me».
Dal suo labiale, riuscì a decifrare
parole molto simili a «Non devi nemmeno pensarlo».
«E, nonostante tutto, tu hai scelto me,
e io non potrei esserne più felice» aggiunse.
«Ringrazio ogni giorno quel
reality per avermi fatto incontrare la donna migliore di
quest’universo»
E, prendendo la fede dal contenitore,
la fece scivolare lungo l’anulare sinistro di lei.
Gwen aveva un sorriso ebete stampato in
volto e non riusciva a cancellarlo in alcun modo.
«Non sono mai stata brava con le
parole, né ho preparato un discorso» premise,
cercando di darsi un contegno.
«Volevo solo dirti che sono la persona più
fortunata al mondo, perché ti ho al
mio fianco».
E ripeté i medesimi gesti del ragazzo.
Si presero le mani e dai loro occhi si
poteva evincere l’amore incondizionato che provavano
l’uno per l’altra.
«E con il potere conferitomi,» annunciò
solenne il parroco, «io vi dichiaro marito e
moglie».
La folla esplose in un applauso
scrosciante nel momento in cui la loro unione fu ufficializzata. Nelle
prime
file, i parenti più stretti erano tutti in lacrime.
Courtney, che cercava di non scoppiare
a piangere come una bambina, guardava i due con estremo orgoglio e
gioia. Si
sentiva fortunata ad essere la testimone di un matrimonio
così bello e
commovente.
E poi, istintivamente, il suo sguardo
si mosse alla ricerca di Duncan. Anche lui la stava guardando e per un
momento
i loro occhi si incrociarono.
Alla fine della cerimonia, i due
neo-sposini si scambiarono un bacio appassionato sulla gradinata della
chiesa,
mentre venivano investiti da una pioggia di riso di cui Izzy aveva
preso il
comando.
La madre di Trent singhiozzava senza
sosta tra le braccia del marito; i genitori di Gwen non erano mai stati
così
felici.
Bridgette e Geoff e anche Tyler e
Lindsay emulavano gli sposi e pure Alejandro era intenzionato a
ricreare la
scena con Heather, che non sembrava propensa ad acconsentire.
Ci fu il lancio del bouquet. Fu una
cugina di Gwen ad afferrarlo, ma Sierra glielo strappò
letteralmente di mano,
afferrandola per i capelli e spintonandola via con forza, e si
precipitò a
stritolare Cody, il quale si limitò a rabbrividire.
Owen e Dj sembravano due fontane; Eva e
Noah li guardarono scettici.
John se ne stava in disparte, guardando
la scena con un sorrisetto sbilenco. Sul volto di Adam, in piedi
accanto a lui,
scivolò una lacrima solitaria.
E Courtney era al culmine della gioia,
emozionata come se fosse lei la sposa. Duncan la teneva fra le sue
braccia e
lei non opponeva alcun tipo di resistenza.
Il fotografo immortalò questi ed altri
momenti.
Tutto era estremamente perfetto. O
meglio, tutto fu estremamente perfetto fino a quel momento.
Quando Duncan e John andarono a
riprendere la macchina, scoprirono di essersi beccati una multa per
divieto di
sosta. Il primo tirò giù una scarica di Santi dal
cielo; il secondo si limitò
ad apostrofarlo con termini poco gentili, ricordandogli che fosse solo
colpa
sua.
Alla fine raggiunsero un punto fermo e
stabilirono un tacito accordo: Courtney non avrebbe mai dovuto saperlo.
Era una
questione di vita o di morte.
•
• •
Ore
nove e cinquantasette di sera.
La cena
era proceduta tra brindisi,
proposti principalmente da Adam e Geoff, ai due sposi, parole
entusiastiche e
di augurio da parte di molte persone - Harold aveva addirittura
preparato un
discorso di cinque pagine e lo lesse davanti alle espressioni
esasperate dei
presenti; Leshawna si vergognò terribilmente di essere la
sua ragazza - e
romanticherie sdolcinate di ogni genere tra i due piccioncini.
Dopo innumerevoli portate,
tutti in quel ristorante stavano per esplodere. L’unica
persona, impavida, che
continuava ad ingozzarsi, era John: era già la terza volta
che si era alzato
per andare al tavolo dei buffet, per poi tornare con ogni tipo di dolce
esistente.
«Dacci un taglio» ordinò secco Duncan,
tirando il piatto verso di sé. «Sul serio, amico,
ho la nausea solo a
guardarti!»
L’orchestra, stipata dall’altra parte
dell’enorme stanza, finì di suonare un grande
classico e attaccò con una
ballata lenta.
Trent si alzò dalla sua sedia e tese
una mano verso Gwen, che la afferrò esitante. La condusse al
centro della sala,
la afferrò saldamente per la vita e cominciarono a roteare
per la stanza al
ritmo di quelle note. Superato l’imbarazzo iniziale, la
ragazza si lasciò
trasportare da una parte all’altra come se fosse una bambola.
«Sono stomachevoli» si espresse John,
bevendo un lungo sorso di vino.
Per tutta la serata non aveva fatto che
commentare tutto quello zucchero con frasi acide e versi di disgusto.
Courtney evidentemente non la pensava
come lui. Con il mento poggiato sulle mani, osservava con aria sognante
i due
ragazzi danzare, più innamorati che mai. Aveva sempre
desiderato una relazione
come quella, un principe azzurro che la portasse via a bordo del suo
cavallo
bianco.
Qualcuno le picchiettò la spalla e lei
si girò di scatto, con lo sguardo di uno che era stato
risvegliato da un bella
visione.
«Se hai finito di sognare ad occhi
aperti,» le disse Duncan, seduto alla sua destra,
«avevo intenzione di invitarti a
ballare».
«Tu, ballare?» lo derise con una
risatina di scherno. «Non farmi ridere».
«Beh, se tu non vuoi, credo che andrò a
chiedere a qualcun’altra» disse con una scrollata
di spalle, cercando di farla
cedere. «Per esempio, che mi dici della cugina bruna di
Trent? Quella laggiù,
con quei due cocomeri al posto delle tette».
Courtney comprese il suo giochetto
imbecille. Lo afferrò per la giacca e lo trascinò
di peso sulla pista, che
aveva cominciato a riempirsi. Gli gettò le braccia al collo,
mentre sentiva lui
stringerle la vita, e cominciarono a muoversi.
Aveva sempre sognato il principe
azzurro, ma alla fine si era innamorata dell’orco brutto e
cattivo. E lei era
la sua principessa.
Lo osservò, i suoi occhi puntati sui
suoi piedi, ben attento ai passi. Se le avesse schiacciato i piedi come
l’ultima volta, sapeva che le avrebbe tenuto il broncio per
tutta la serata. La
ragazza apprezzava il fatto che ci desse peso e che cercasse di
evitarlo in
ogni modo.
«Hai preso delle lezioni?» scherzò lei,
notando tutta la sua accortezza.
Lui rise e lei si morse un labbro.
Amava la sua risata.
Poi disse, senza riuscire a
controllarsi: «Sono felice che tu sia con me».
E l’istinto la fece muovere verso le
sue labbra. Voleva sugellare quel momento perfetto con un bacio
indimenticabile. Sempre più
vicino…
Prima che potesse solo sfiorargliele,
si accorse che lui si era allontanato di colpo. Perché?
«Scusami» borbottò Duncan e si
allontanò.
Courtney, inizialmente spiazzata, prese
ad inseguirlo e a chiamarlo a voce alta. Quando raggiunse
l’esterno, era troppo
tardi: era già sparito in mezzo al giardino.
Rientrò dentro, i pugni stretti, le
nocche ormai rosse e un insopportabile nodo alla gola. Che motivo lo
aveva
spinto ad allontanarsi? “Scusami”
per
cosa?
Le bruciava la gola e sentiva che
avrebbe potuto cominciare ad urlare da un momento all’altro.
«Courtney» la chiamò Gwen, accorrendo
verso di lei, con un’aria estremamente preoccupata. Aveva
assistito a tutta la
scena e temeva il peggio. «Stai bene?»
«Cos’è successo?» le
domandò Trent, al
seguito della moglie, avendo notato la sua espressione affranta.
Tutte quelle attenzioni la
infastidirono un poco. Non era una bambina, non aveva bisogno di essere
consolata.
«Non è successo nulla, sto alla grande
e so badare a me stessa da sola!» sbottò
acidamente e tutto d’un fiato.
Gwen cercò di trattenerla per il
braccio, ma lei si liberò facilmente e corse via.
Si rifugiò in bagno e si accovacciò
dietro il lavandino, in modo tale che nessuno potesse vederla.
Combatteva
contro le lacrime e cercava di non singhiozzare. Si sentiva
un’idiota.
«Court, lo so che sei lì» disse Gwen,
sul ciglio della porta, notando le sue gambe spuntare da dietro il
lavandino.
«Vattene» sillabò.
Naturalmente non se ne andò. Si
avvicinò, si accovacciò accanto a lei, attenta a
non calpestare la stoffa del
vestito, e le cinse le spalle con un braccio.
«Allora, che ne dici di raccontarmi
tutto dal principio?» le chiese dolcemente.
La bruna prese un respiro profondo e
prese a spiegare dettagliatamente tutto quello che era appena successo.
«E poi mi ha abbandonata sulla pista da
ballo» concluse, tirando su col naso. E solo una volta che
l’ebbe detto, riuscì
a realizzarlo appieno. «Mi ha abbandonata sulla pista da
ballo!» ribadì ad alta
voce.
Gwen la strinse più forte, per paura
che potesse cominciare a piangere da un momento all’altro. Ma
non lo fece.
«Non darci troppo peso» le disse, e la
vide sgranare gli occhi.
«Come faccio a non pensarci?» chiese
Courtney indignata. «Gwen, io lo amo. Lo amo!»
Si tappò la bocca con una mano. L’aveva
davvero detto ad alta voce?
Un conto era ammetterlo a se stessa, un
altro confessarlo davanti a qualcun altro. Era strano, era totalmente
diverso.
Ed era anche così vero e suonava maledettamente bene.
“Lo
amo.”
Gwen la guardò con un enorme sorriso
stampato in volto.
«Finalmente l’hai capito anche tu,
zuccona» quasi esultò.
L’aveva compreso da anni che quei due
erano fatti l’uno per l’altra, eppure loro ci
avevano messo così tanto tempo a
capirlo. Quale problema avevano?
«Lo sapevano tutti!» esclamò ad alta
voce qualcuno fuori dal bagno. Trent, con un sorrisetto stampato sulle
labbra,
aveva origliato l’intera conversazione.
«Ci stai forse spiando?» chiese
beffarda la sua sposa.
«Io? Assolutamente no!» mentì
spudoratamente. Poco dopo lo sentirono allontanarsi.
Scoppiarono entrambe a ridere.
Gwen, la prima a riprendersi, si alzò, riaggiustandosi le
pieghe del lungo
abito.
«Dove stai andando?» chiese Courtney,
vedendola uscire.
«A dirne quattro a Duncan» rispose,
voltando la testa in sua direzione. «Nessuno può
ferire la mia migliore amica
senza vedersela con me».
Le sorrise riconoscente. Le voleva un
mondo di bene.
• •
•
Ore
dieci e trentatré.
Duncan
si era rifugiato in fondo al
giardino, il più possibile lontano da tutti. Dietro di lui,
seduti su una
panchina, una giovane coppia si scambiava effusioni. Lanciò
loro un’occhiata
disgustata, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta e concedendosi
un altro
tiro.
Le immagini di quella giornata si facevano
spazio tra la sua mente: come Courtney l’aveva cacciato
malamente dalla sua
stanza, il bacio che gli aveva scoccato sulla guancia quando aveva
fatto
ripartire l’auto, l’abbraccio fuori dalla chiesa,
quel ballo che le aveva
domandato, le sue labbra sempre più vicine…
E anche quel mezzo bacio da ubriaco che
le aveva dato ieri notte. Adesso riusciva a ricordarlo.
Non sapeva come comportarsi, era
confuso.
«Tu!» strillò qualcuno.
Si voltò e vide Gwen, più infuriata che
mai, camminare a passo rapido verso di lui.
Lo avverrò per le spalle e lo scrollò
per bene.
«Sei uno schifoso pezzo di merda!» lo
accusò ringhiandogli contro.
La rabbia le sfigurava il viso. Non
l’aveva mai vista così.
«Ti prego Gwen, smettila! Così mi fai
arrossire!» esalò con quanto più
sarcasmo poté.
Questo peggiorò la situazione ancora di
più.
«Cosa ti passa per quell’encefalo
sottosviluppato?» gli chiese, con un’altra violenta
scrollata.
«Chiedo scusa, ma non capisco» disse,
cercando di non incrociare troppo a lungo lo sguardo con lei. Temeva
potesse
incenerirlo. «Se potessi spiegarmi…»
«Non fare il finto tonto, Courtney mi
ha raccontato tutto» esclamò.
«L’hai mollata in mezzo alla pista senza
spiegazioni! Ti rendi conto?»
Aprì la bocca, ma lei lo sorprese.
«Non mi interessano le tue
giustificazioni» sbottò. «So solo che
l’hai distrutta, mi basta questo. Ora tu
torni dentro e le chiedi scusa».
Lo spinse con tutta la forza che aveva,
mandandolo a sbattere contro un albero, e si allontanò. Ma
dopo qualche passo
si fermò e tornò a guardarlo, stavolta molto
più tranquilla.
«Lei ti ama» gli confessò con un
sorriso sbilenco. «Non sprecare
quest’occasione».
Le diede le spalle e la sentì rientrare
nel ristorante.
Ora tutto acquisì un nuovo senso. Tutti
quei segnali che gli aveva lanciato, quelle frasi, quelle
occhiate…
Quel
tentativo di baciarlo in mezzo alla sala.
Lei lo
amava, come aveva fatto a non
comprenderlo prima?
E lui aveva mandato tutto a monte per
via del suo senso di colpa e dei suoi sentimenti confusi. Era stato uno
stupido.
Gettò la sigaretta, che si era ormai
spenta, nel posacenere più vicino e si diresse verso
l’interno, non prima di
aver gettato un altro sguardo verso quella coppietta. Erano troppo
impegnati a
succhiarsi la faccia a vicenda per accorgersi di qualunque cosa.
Una volta nel salone si guardò attorno,
cercando di scorgerla tra la massa di invitati che ballava al ritmo di
una
canzone scatenata. Di Courtney nessuna traccia.
«Ehi amico, dove sei stato?»
John, seduto al tavolo da solo e con un
bicchiere di spumante in mano, gli faceva cenno di avvicinarsi.
«Ti sei perso la plateale dichiarazione
d’amore di Alejandro. Non ho mai visto una cosa
così esagerata!»
Il latino era salito sul palco,
interrompendo la musica e facendosi passare il microfono dal cantante.
Aveva
giurato amore eterno ad Heather, riempiendola di parole dolci e
romantiche.
Dopodiché si era avvicinato a lei, si era inginocchiato e
l’aveva pregata di
sposarlo. Alla fine, lei, più innamorata che mai, aveva
accettato e la stanza
era esplosa in applausi e acclamazioni, mentre loro si baciavano
appassionatamente.
«Sì, poi mi racconti» tagliò
corto
Duncan. «Hai visto per caso Courtney?»
Ci pensò un po’ su.
«Da quella parte» concluse, indicando
una porta dall’altra parte della stanza. «Ha detto
che aveva bisogno di
cambiare aria».
Lo ringraziò frettolosamente e si avviò
verso il luogo indicato, ma John lo fermò.
«Duncan» lo chiamò, ed era forse la
prima volta che usava il suo nome, senza aggiungere alcun altro
epiteto. «Vedi
di limonartela per bene, stavolta» si raccomandò.
Era la cosa più carina ed incoraggiante
che gli avesse mai detto. Ne rimase piacevolmente sorpreso.
«Certo, amico» ghignò lui in risposta,
facendogli
l’occhiolino.
Attraversò la porta e si ritrovò a
percorre un lungo corridoio spoglio, su cui si affacciavano altre due
grandi
sale - in entrambe si svolgevano due celebrazioni, un compleanno e una
festa di
laurea - e che terminava con un enorme balconata. Lì fuori,
intenta ad
osservare il cielo, vi era Courtney, i capelli acconciati e la gonna
del
vestito rosso che svolazzavano al vento. Sembrava una visione eterea.
«Principessa» mormorò.
La vide sussultare, segno che lo aveva
riconosciuto.
«Cosa vuoi?» chiese con tono a metà tra
l’acido, l’irritato e l’annoiato.
Si mise affianco a lei, alla sua
destra, appoggiandosi alla ringhiera. Fissò il suo profilo,
regale e perfetto;
eppure il suo viso era così triste e abbattuto.
«Immagino che tu ti sia chiesta perché
me ne sia andato senza dire una parola» disse lui guardando
dritto davanti a sé,
e pensò che non potesse esserci un incipit peggiore di
quello. «Posso
spiegarti».
«Illuminami, idiota» sbottò,
rivolgendogli
una smorfia.
Ma non riuscì a pensare a nulla che
avesse un minimo di senso. Forse non c’era davvero una
giustificazione
adeguata.
Vedendo che non spiccicava parola, lei
ridacchiò, e la sua risata aveva un nonsoché di
amaro e malinconico.
«È così evidente, come ho fatto a non
pensarci prima?» chiese più a se stessa che a lui.
«È imbarazzante,
non è vero? Passare del tempo con me».
«Cosa diamine stai dicendo?» domandò.
«Che io e te proviamo sentimenti
diversi» rispose e poi aggiunse in un mormorio: «E
io stupida che ci ho anche
creduto… Beh, dopotutto eri ubriaco, come poteva essere
vero?»
«Stai straparlando, come al solito» la
avvertì. Alle volte era talmente logorroica che perdeva il
filo del discorso.
«Che ne diresti se provassi a spiegarti?»
Per la prima volta dall’inizio di
quella conversazione Courtney lo fissò. Nei suoi occhi non
si leggeva nulla se
non assoluta indifferenza. Era troppo brava a nascondere ciò
che provava.
Sospirò e distolse lo sguardo,
affacciandosi nuovamente.
«Ieri notte hai detto che hai bisogno
di me» mormorò. «Ma eri ubriaco,
probabilmente farneticavi… e io ci ho creduto
comunque».
Si aspettava che scoppiasse a ridere, o
che la deridesse, o che distruggesse le sue aspettative in qualunque
altro
modo. Ma non fu così.
Duncan le prese il viso tra le mani e
la costrinse a guardarlo negli occhi. Pensò che si sarebbe
opposta in qualche
modo, invece lei rimase immobile.
«La verità è che ho paura» le
confessò,
senza riuscire ad impedire che quelle parole gli uscissero dalla bocca.
«Ho
paura di esternare i miei sentimenti».
E ora che l’aveva finalmente detto,
seppe che era quello il motivo per cui si era tirato indietro.
Aveva passato gli ultimi sei anni della
sua vita a corteggiarla in ogni modo, e lei non aveva fatto una piega.
Ora che
Courtney aveva finalmente ceduto ed era pronta a dichiararsi, lui
l’aveva
rifiutata. Il tutto perché lei aveva preso in mano le redini
di quel gioco
mandandolo in confusione: solitamente, in una relazione, era il ragazzo
a
prendere il comando. Cosa c’era di sbagliato in lui?
Non aveva mai avuto paura di nulla, sin da quando era un fanciullo.
Eppure non
riusciva a dire quelle due semplici e fatidiche parole alla ragazza che
tormentava i suoi sogni da quando aveva sedici anni.
Aveva avuto innumerevoli donne, prima e
dopo di lei. Eppure Courtney era l’unica che gli aveva fatto
provare un
sentimento tanto forte da scombussolarlo. Tanto forte da non riuscire a
confessarglielo.
«È
così idiota» borbottò con voce roca,
spostandole con
il pollice una ciocca, che le ricadeva sulla fronte, dietro
l’orecchio.
«Non lo è» lo
contraddisse. «Io ne ho avuto paura per sei anni».
Duncan cominciò
a ridacchiare sotto i baffi.
«Non ci credo»
disse. «Courtney Barlow che ammette di avere paura di
qualcosa».
«Aver avuto» lo
corresse. «E poi, non
sono io quella che è scappata perché non sa
ammettere i propri sentimenti, se
non da sbronzo».
«Guarda che
posso farlo tranquillamente quando voglio. E senza
ubriacarmi».
«Ebbene,
sorprendimi» lo sfidò con lo sguardo. «Fallo».
La tensione si
era sciolta di colpo. Erano rimasti solo due giovani, inesorabilmente
infatuati
l’uno dell’altra, pronti a scherzare e a
punzecchiarsi a vicenda. Come ai
vecchi tempi, non era cambiato nulla.
E forse fu
quella situazione, molto più familiare di prima, a farlo
lasciare andare e
spingerlo finalmente a parlare.
«Ho bisogno di te»
disse Duncan con voce ferma e decisa.
Courtney gli
rivolse un enorme sorriso.
«Anch’io».
Poggiò le
labbra sulle sue in un bacio casto e leggero. Si allontanò
di colpo, come se si
fosse scottata.
«Mio Dio»
imprecò lui.
«Cosa?» chiese
titubante. Cosa succedeva adesso?
«Non mi
ricordavo che baciassi così male»
ghignò strafottente.
«Davvero? Vuoi scommettere?»
E fu in quel
momento che mandò a farsi benedire la delicatezza. Si
fiondò nuovamente su di
lui, catturandogli le labbra con le sue. Questa volta il bacio era
decisamente
più violento e spinto. Lo baciava con tanta foga da non
farlo respirare.
Portò le mani
dietro la sua nuca, approfondendo il bacio ancora di più,
mentre lui la afferrò
dai fianchi e la spinse ancora più vicina.
E continuarono
a cercarsi, a riscoprirsi fino in fondo. Con le lingue, con le bocche,
con le
mani. Erano stati distanti troppo a lungo.
Aveva
dimenticato come fosse baciarlo, dei brividi lungo la schiena e della
mente
scombussolata e incapace di formulare qualsiasi tipo di ragionamento.
Si
sentiva viva.
Era questo che
desiderava da sempre, pensò sentendo il suo cuore batterle
all’impazzata. Lo
aveva atteso a lungo, bramato con tutta se stessa. E finalmente era
arrivato ed
era anche meglio di quanto potesse mai immaginare.
Si staccarono
per riprendere fiato e si guardarono intensamente. Fu in quel momento
che capì
che avrebbe voluto Duncan al suo fianco per tutto il resto della sua
vita. Ne
aveva davvero bisogno.
«Stanotte non
mi scappi» sussurrò lui con malizia, prima di
rituffarsi ancora e ancora su
quelle labbra.
E Courtney ne
era certa, non sarebbe andata da nessuna parte. Mai più.
Angolo
dell’autrice
E siamo arrivati
alla fine di questo lungo viaggio.
Un’altra
storia
archiviata, sembra ieri che la iniziavo. Non potete capire quanto tutto
ciò mi
renda triste.
Voglio
ringraziarvi, perché siete stati una piccola ed importante
parte di questo
progetto.
Grazie a Blacklu e Ale del trio Ale_Marti_Ola
per aver recensito tutti i capitoli - o quasi.
Grazie a Madness17 per aver recensito il primo
capitolo e a Valedxclove per aver
recensito i primi due. Spero che abbiate continuato a seguire la
storia, sebbene non vi siate più fatte sentire.
Grazie a mia
cugina Porpora_, che ha recensito
tutti i capitoli dal quarto in poi, che è stata anche lei
ideatrice di questo
progetto, in quella giornata di luglio di tre anni fa. Senza di lei,
probabilmente “La Storia Inversa” non sarebbe mai
esistita.
Grazie a mia
sorella, che ha recensito solo il terzo capitolo ma che ha seguito
tutto il
processo creativo della serie, dall’inizio alla fine.
È una delle mie lettrici
più affezionate.
Grazie a tutti
i lettori silenziosi, in particolar modo a chi mi segue da davvero
tantissimo
tempo ma che non mi ha mai recensito. So che siete lì, siete
fantastici.
Grazie a chi ha
messo la storia tra preferiti, seguiti o ricordati.
E grazie anche
a chi ha seguito il prequel. Non vi cito perché siete
davvero tanti e molti di
voi probabilmente sono spariti, ma sappiate che vi adoro, ovunque voi
siate.
Grazie a tutti
voi, vi voglio un mondo di bene!
Davvero, non so
cos’altro dire.
Spero che le
avventure di questi pazzoidi vi abbiano fatto divertire e vi abbiano
strappato
una risata. E spero anche che sia riuscita a sciogliervi un
po’ nei momenti romantici.
Non sarà la
fine de “La Storia Inversa”.
C’è la possibilità che io pubblichi
delle missing
moments, dei piccoli aneddoti sulla fan fiction originale
però non trattati in
questa, oppure un epilogo conclusivo - anche se, mi piace lasciare i
finali in
sospeso. Nel frattempo, mi concentrerò su altri progetti.
Grazie ancora
per il vostro sostegno.
Ci vediamo
presto, un abbraccio a tutti!
Hayle xx