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Autore: smarsties    31/08/2016    4 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
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Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
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La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 


 

Sabato«

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
19 luglio, ore dieci e otto.

Un leggero ticchettio la ridestò dal sonno.
Courtney, inizialmente, pensava che fosse solo un sogno, quel rumore che le rimbombava nella testa; poi, capì che era reale, che qualcuno stava bussando alla porta con insistenza.
Sbatté più volte le palpebre, per abituarsi alla luce del sole che entrava prepotentemente dalla finestra - si era dimenticata di abbassare le tapparelle, ieri notte -, e con l’aiuto delle braccia sollevò il suo corpo dal materasso.
Si stropicciò gli occhi. Sembravano passati solo pochi minuti da quando si era addormentata, invece erano già le dieci passate, come poté testimoniare il suo cellulare poggiato sul comodino.
Si avvicinò alla porta e la spalancò, pronta a dirne quattro a colui che aveva avuto il coraggio di svegliarla così dopo la giornata infernale di ieri.
«Mi dia una buona ragione per cui io non-»
Ma si ammutolì di colpo. Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
«Okay, siamo pari» concesse.
Si scansò per farlo passare. Non voleva che qualche passante li vedesse conciati in quella maniera, avrebbero potuto pensare male. E ci teneva a mantenere una reputazione adeguata.
«Immagino che tu abbia qualcosa di estremamente urgente da dirmi» disse lei, richiudendosi la porta alle spalle. «Altrimenti non vedo come mai tu sia piombato in camera mia, svegliandomi per giunta, senza nemmeno esserti vestito».
«Effettivamente, ho un paio di domande e forse tu sai rispondere» ammise. «Ad esempio, come mai stamattina mi sono risvegliato con addosso gli stessi pantaloni di ieri e un terribile mal di testa? E perché ho ritrovato John a dormire rannicchiato per terra?»
«Vi siete soltanto presi una sbronza epocale» rispose con un sorrisetto. «Mi avete fatto preoccupare».
«Come se fosse la prima volta» ribatté, vagamente divertito.
Risero entrambi, risero spontaneamente. Courtney pensò che le loro risate suonavano così bene assieme, avrebbe voluto registrarle.
E poi, all’improvviso, gli chiese, mordendosi il labbro: «Davvero non ricordi niente?»
«Non molto» rifletté, tormentandosi il pizzetto. «Ricordo un paio di cose dell’addio al celibato. E ricordo che ieri sera eri nella nostra stanza».
Un lampo gli balenò negli occhi azzurri.
«Cos’è successo dopo?» chiese improvvisamente serio. «Non avremo mica-»
«Nulla del genere» lo interruppe. «Mi hai baciata, ma ti ho fermato subito».
Lo vide tirare un grande sospiro di sollievo e rilassarsi di colpo.
«Meno male» mormorò.
«Meno… male?» ripeté lei confusa. Cosa voleva dire?
«Sì, insomma,» balbettò Duncan, «sarebbe stato imbarazzante».

Imbarazzante.
Eppure non lo aveva trovato imbarazzante, quando era successo l’opposto. Anzi, sembrava che gli fosse piaciuto. Cosa cambiava adesso?
Courtney si sentì montare da una rabbia improvvisa.
«Ora che ho risposto alle tue domande,» proruppe con freddezza e acidità, «ti sarei grata se uscissi dalla mia camera. Dovrei vestirmi e non vorrei che la cosa diventasse imbarazzante».
Duncan percepì il suo cambio repentino d’umore - sebbene non comprese a cosa fosse dovuto - ma, non appena aprì la mandibola in cerca di spiegazioni, si sentì spintonare fuori dalla stanza; subito dopo la porta sbatté con forza alle sue spalle.
Forse aveva avuto una reazione troppo eccessiva, si disse la ragazza non appena lo ebbe cacciato, forse non aveva tutti i torti. Ritrovarsi nello stesso letto, dopo quasi nessun contatto fisico negli ultimi sei anni, sarebbe potuto sembrare davvero imbarazzante e fuori luogo.
Ma lei lo desiderava davvero e ieri sera, se la sua razionalità non l’avesse fermata, probabilmente avrebbe ottenuto ciò che voleva.

 
• • •

 
Ore cinque e mezza di pomeriggio.

Gwen fissò la sua immagine riflessa nello specchio, mentre Courtney le fissava in testa meglio che poteva il lungo velo nero con delle forcine.
Non riusciva a credere che stava davvero per sposarsi con l’uomo della sua vita. Quegli anni di relazione con Trent erano stati magici, tra i migliori della sua vita; non si era mai sentita così amata e apprezzata da una persona sola. Voleva davvero passare il resto della sua vita con lui.
«Manca solo un po’ di trucco» constatò la bruna.
La fece voltare verso di lei e cominciò a frugare nella sua trousse, in cerca di qualcosa di adeguato.
Mentre Courtney le applicava l’eyeliner sulle palpebre, disegnando due linee perfette, Gwen non poté fare a meno di credere che, in quel momento, nessuno potesse essere più felice di lei. Non solo aveva accanto il ragazzo migliore del mondo, ma anche la migliore amica e testimone di nozze che potesse mai desiderare.
In quei giorni si era dedicata appieno a lei e al suo matrimonio, tanto che sembrava che fosse lei quella in procinto di sposarsi, e non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza per il suo contributo.
Era la sorella che non aveva mai avuto.
«Sei perfetta» esclamò, facendola specchiare.
E lo era davvero. Non aveva mai visto un trucco così bello in tutta la sua vita. Neanche se ci si fosse messa d’impegno, sarebbe riuscita ad emularlo.
«Sono così fiera di te» disse all’improvviso Courtney, in uno dei suoi sorrisi più belli e sinceri. «Stai per sposarti e io non posso che augurarti tutta la felicità di questo mondo. Te lo meriti».
Erano le più belle parole che qualcuno le avesse mai rivolto. Potrebbe sembrare infantile, ma sentiva che sarebbe potuta scoppiare in lacrime di gioia da un momento all’altro.
Si alzò dalla specchiera e si pose davanti a lei, sorridendole.
«Grazie» mormorò Gwen. «Grazie per esserci sempre stata. Sei la mia migliore amica».
E si abbracciarono per un tempo indeterminato. Il mondo sotto ai loro piedi sembrò sparire in quel bellissimo e prezioso attimo.
Fu Courtney la prima a staccarsi.
«Meglio andare adesso, prima che mi metta a piangere» dichiarò con la voce tremolante. «E sappiamo che se piango io, piangi anche tu».
Molte volte si erano trovate a sfogarsi - al telefono o di persona - per i motivi più disparati e, quando una cominciava a frignare, l’altra la seguiva a ruota.
Alzò il velo da terra, per evitare che la mora vi inciampasse, e scesero in strada, dove le attendeva la macchina di Gwen, che si sistemò sul sedile posteriore, facendo ben attenzione a non sgualcire il vestito. Courtney, invece, si sistemò al volante.
Aveva insistito tanto che fosse proprio lei a portarla in chiesa.
Ma, quando provò ad accendere il motore, non successe nulla. Girò la chiave più volte, ma la situazione non cambiò minimamente.
«Non può essere!» esclamò la bruna in preda al panico. «No, no, no! Ti prego non adesso, ti prego non adesso!»
«Calmati» le ordinò Gwen, prima che potesse cominciare ad urlare istericamente.
«L’auto non parte e non arriveremo mai in tempo. Come faccio a calmarmi?!»
«Dimentichi una cosa» disse a voce alta, mentre l’amica rischiava di andare in iperventilazione. «Duncan è un meccanico».
Immediatamente si lanciò sulla sua pochette, buttata sul sedile del passeggero, dandosi mentalmente della stupida per non averci pensato prima, vi estrasse il palmare e compose il numero del ragazzo.
«Dimmi, principessa» rispose lui qualche istante più tardi.
«Qualunque cosa tu stia facendo, mollala e vieni a risolvere il problema!» gli ordinò lei.
«Che diamine è successo?» chiese, leggermente preoccupato dal suo tono.
«Non lo so, la macchina non parte!» gridò ancora più in panico di prima. Sembrò replicare, perché Courtney aggiunse, sempre più irritata ed agitata: «Non ne ho idea, sei tu l’esperto! Vieni immediatamente e basta».
Riattaccò e si lasciò andare contro il sedile, buttando fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. E poi si chiese: era per caso una calamita umana di sfortune?

 
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Ore cinque e cinquantotto.
Duncan arrivò immediatamente e compì il miracolo. Rilevò subito che la batteria si era scaricata e, grazie a dei cavi trovati nel garage, riuscì a rimettere in moto la macchina in tempo record. Per il suo nobile gesto, si guadagnò anche un bacio sulla guancia da Courtney che, accecata dalla felicità e dal sollievo, si rese conto di quello che aveva fatto solo dopo che vide un ghigno dipingersi sul volto di lui.
I tre arrivarono alla cattedrale con due minuti di anticipo, quando ormai tutti gli invitati avevano già preso posto.
«Visto che con la calma si risolve tutto?» dichiarò Gwen, quando Courtney la aiutò a scendere dall’auto.
«Tutto è bene quel che finisce bene» recitò saggiamente Duncan. «Ora, se non vi dispiace, vado a trovarmi un posto per assistere alla cerimonia».
Ma dopo nemmeno tre passi fu bloccato da un urlo di Gwen.
«Che succede?» chiese la bruna voltandosi di scatto.
«Ho dimenticato le fedi!» esclamò scoraggiata. «Trent si è andato a preparare al locale e gli avevo promesso che le avrei prese io. Sono un’idiota!» concluse sfogandosi contro se stessa e coprendosi il viso con le mani.
Lo sguardo di Courtney saettò subito verso il ragazzo, che rabbrividì istantaneamente. Aveva già capito dove volesse andare a parare e non gli piaceva per nulla.
«Te lo puoi scordare» sbottò, incrociando le braccia al petto. «Non tornerò indietro per prendere le fedi».
«La cerimonia sta per cominciare e io sono la testimone, non posso muovermi» spiegò. «Figurati se può andare Gwen, che è la sposa. Quindi, resti solo tu».
Vedendo che non aveva fatto una piega, aggiunse in tono compassionevole: «Per favore!»
Cercò di resisterle, ma quando vide quegli occhioni dolci si sciolse subito. Doveva essere una strega, conosceva a menadito i suoi punti deboli e sapeva come farlo cedere.
«Va bene» sospirò lui.
Gli passarono le chiavi dell’auto e di casa, gli dettero le indicazioni per trovarle e lo incitarono a muoversi, mentre loro due si incamminarono verso l’ingresso della chiesa, dove il signor Fahlenbock attendeva la figlia.
Duncan intercettò John, in piedi vicino ad un carretto degli hot-dog davanti alla chiesa. Sapeva che avrebbe approfittato del matrimonio per ingozzarsi come un porco. Non ci pensò due volte: si avvicinò e lo afferrò per la collottola, trascinandolo lungo il marciapiede.
«Lasciami, se non vuoi che ti denunci per sequestro di persona!» lo minacciò, puntandogli contro un wurstel molliccio.
L’altro si limitò ad aprire il portellone della macchina e a sbatterlo dentro, senza dire una parola.
«Mi dici dove andiamo?» chiese il bruno, guardandolo allacciarsi la cinta e mettere in moto.
«A riprendere le fedi che Gwen ha dimenticato» rispose, sfrecciando a tutto gas.
«E perché devo venire anch’io?»
«Perché noi siamo una coppia» ghignò, guardandolo con la coda dell’occhio. «Soffro io, soffri anche tu».
John ne era certo: una volta finito il matrimonio, quelle fedi avrebbero tormentato i suoi sogni in eterno.

 
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Ore sei e trentanove.

La cerimonia era stata perfetta, sin dal momento in cui due bimbe identiche dai lunghi capelli neri - due cuginette di Trent - avevano cosparso la navata con dei petali di rose. Successivamente, Gwen aveva fatto il suo ingresso con il padre nel suo splendido abito da sposa. Ai piedi dell’altare, il signor Fahlenbock baciò entrambe le guance della figlia, sussurrandole delle parole che solo lei percepì, la passò al quasi-marito, meraviglioso con quello smoking bianco, e si sedette vicino a sua moglie, che guardava la coppia con estremo orgoglio.
Nessun occhio era rimasto asciutto troppo a lungo.
Tutto era proceduto per il meglio e il momento cruciale arrivò in fretta.
«Vuoi tu, Trent McCord, prendere come sposa la qui presente Gwendolyn Fahlenbock?» chiese il sacerdote, un uomo bassino con pochi capelli bianchi sulle tempie, il viso solcato da profonde rughe e degli occhialini tondi.
«Lo voglio» disse deciso.
Adam, alla sua destra, ammiccò in sua direzione, alzando un pollice in segno di approvazione.
«E vuoi tu, Gwendolyn Fahlenbock, prendere come sposo il qui presente Trent McCord?» chiese nuovamente, stavolta rivolgendosi alla sposa.
«Lo voglio» rispose lei, al culmine della felicità.
E tutto si fermò.
Nessuno sull’altare si mosse e la platea restava a guardare, trattenendo il fiato.
«Ehm, le fedi?» chiese il prete, sporgendosi verso la coppia.
Trent si voltò prima verso Adam e Courtney - il primo alzò le spalle, con un’espressione interrogativa in volto, e la seconda gli sorrise angelica -, poi verso Gwen, che cercava di nascondere il suo rossore e la sua colpevolezza.
«Stanno arrivando» si limitò a borbottare, imbarazzata.
«A quanto pare,» disse il parroco alla platea, «abbiamo avuto un piccolo contrattempo».
Il poveretto non sapeva davvero cosa fare o dire per mantenere accesa l’attenzione della gente.
Subito nella chiesa cominciarono a diffondersi mormorii e commenti sussurrati a voce bassa. Tutti si domandavano cosa fosse successo per far ritardare la conclusione di quella splendida cerimonia.
Courtney, alla sinistra di Gwen, si sporse verso l’enorme portone in legno, spalancato sulla strada, alla ricerca di John e Duncan.
Dove diamine si erano cacciati?

 
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Ore sei e trentanove.
Le uniche cose che il cervello di Duncan riusciva ad elaborare erano un’infinità di bestemmie ed imprecazioni, una più fantasiosa e creativa dell’altra.
Erano riusciti a recuperare le fedi senza alcun intoppo ed erano ripartiti alla volta della cattedrale, quando si erano ritrovati imbottigliati nel traffico. Come potevano immaginare che quella fosse l’ora di punta?
«Certo che anche quel dannato autobus potrebbe smetterla di fermarsi per far scendere la gente» si lamentò John, accennando al mezzo di trasporto che si trovava quattro macchine davanti a loro.
Spesso, quando era arrabbiato o frustrato, cominciava a delirare e se ne usciva con delle frasi prive di senso.
«Ti senti quando parli?» ringhiò Duncan roteando gli occhi.
Dopo venti minuti di quella fila assurda, non sopportava più nulla, figurarsi se riusciva a tollerare i commenti senza senso di quell’essere.
«Perdonami, ma non sei l’unica persona annoiata a morte qui dentro!» sbraitò quello.
«Almeno tu non devi guidare in mezzo ad un’orda di gente che non conosce nemmeno le regole basilari».
Poco prima, ad esempio, l’auto davanti a loro si era fermata ad un semaforo giallo, tramutatosi in rosso forse solo dopo un minuto, facendo perdere loro tempo prezioso. Duncan gli strombazzò, mentre John si limitò ad insultarlo. Si beccarono un dito medio e per poco il secondo dei due non scese dalla macchina per andargliene a dire quattro. Il tipo dovette ringraziare che il semaforo diventò verde.
Un altro, invece, non aveva rispettato uno stop e li aveva tagliato la strada con rapidità; rischiarono di andargli addosso. Anche in questa situazione il moro si lasciò andare in una sonora strombazzata di clacson, il bruno in epiteti sconvenienti. Almeno questa volta, nessuno si sfogò con alcun gesto.
«Ora basta» sentenziò Duncan, svoltando per una stradina secondaria. «Parcheggiamo qui e andiamo a piedi» decise, lasciando la macchina nel primo buco libero che trovò.
«E sai dove si trova la chiesa?» domandò John, non esattamente convinto da quella proposta.
«Certo, ho già fatto la strada e l’ho memorizzata» lo rassicurò lui. «Arriveremo in un secondo».
E anche quella volta non andò come sperato. Duncan pensava di aver memorizzato la strada, ma non fu affatto così.
Morale della fiaba, i due vagarono per le strade a passo veloce per una ventina di minuti, con degli smoking addosso e delle fedi dietro, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti. In quei venti minuti John, naturalmente, non perse tempo per insultarlo fino alla morte. Fortunatamente, prima che potessero collassare, riuscirono a ritrovare la cattedrale, per immensa gioia di entrambi.
Varcarono il portone con aria solenne e, al cenno di una signora vestita in verde, che si era accorta di loro, un centinaio di teste si voltarono in loro direzione. Molti si chiesero chi fossero e cosa stessero facendo.
«Abbiamo le fedi!» dichiarò John affannato, alzando la scatoletta di velluto blu come se fosse una coppa d’oro. E fu in quell’istante che i presenti tirarono un sospiro di sollievo.
Camminò a testa alta lungo la navata, tutti che guardavano verso di lui, sventolando la scatola. Ma, una volta ai piedi dell’altare, non si accorse della presenza di una scalinata e inciampò, rischiando di andare a battere la testa contro lo spigolo del gradino più in alto. Le fedi, invece, volarono dritte in mano a Trent.
Il bruno cercò di non bestemmiare in quel luogo sacro; si rialzò e prese posto accanto a Duncan, in un banco della quarta fila a sinistra, che sghignazzava sommessamente; risolse il tutto pestandogli un piede e la soddisfazione di vederlo quasi in lacrime per il dolore lo ripagò.
«Direi che possiamo procedere con i voti nuziali» dichiarò il sacerdote.
«Gwen,» disse Trent guardandola negli occhi, «sin dal primo momento in cui ti ho vista, ho capito che eri una ragazza fantastica, eri troppo per uno come me».
Dal suo labiale, riuscì a decifrare parole molto simili a «Non devi nemmeno pensarlo».
«E, nonostante tutto, tu hai scelto me, e io non potrei esserne più felice» aggiunse. «Ringrazio ogni giorno quel reality per avermi fatto incontrare la donna migliore di quest’universo»
E, prendendo la fede dal contenitore, la fece scivolare lungo l’anulare sinistro di lei.
Gwen aveva un sorriso ebete stampato in volto e non riusciva a cancellarlo in alcun modo.
«Non sono mai stata brava con le parole, né ho preparato un discorso» premise, cercando di darsi un contegno. «Volevo solo dirti che sono la persona più fortunata al mondo, perché ti ho al mio fianco».
E ripeté i medesimi gesti del ragazzo.
Si presero le mani e dai loro occhi si poteva evincere l’amore incondizionato che provavano l’uno per l’altra.
«E con il potere conferitomi,» annunciò solenne il parroco, «io vi dichiaro marito e moglie».
La folla esplose in un applauso scrosciante nel momento in cui la loro unione fu ufficializzata. Nelle prime file, i parenti più stretti erano tutti in lacrime.
Courtney, che cercava di non scoppiare a piangere come una bambina, guardava i due con estremo orgoglio e gioia. Si sentiva fortunata ad essere la testimone di un matrimonio così bello e commovente.
E poi, istintivamente, il suo sguardo si mosse alla ricerca di Duncan. Anche lui la stava guardando e per un momento i loro occhi si incrociarono.
Alla fine della cerimonia, i due neo-sposini si scambiarono un bacio appassionato sulla gradinata della chiesa, mentre venivano investiti da una pioggia di riso di cui Izzy aveva preso il comando.
La madre di Trent singhiozzava senza sosta tra le braccia del marito; i genitori di Gwen non erano mai stati così felici.
Bridgette e Geoff e anche Tyler e Lindsay emulavano gli sposi e pure Alejandro era intenzionato a ricreare la scena con Heather, che non sembrava propensa ad acconsentire.
Ci fu il lancio del bouquet. Fu una cugina di Gwen ad afferrarlo, ma Sierra glielo strappò letteralmente di mano, afferrandola per i capelli e spintonandola via con forza, e si precipitò a stritolare Cody, il quale si limitò a rabbrividire.
Owen e Dj sembravano due fontane; Eva e Noah li guardarono scettici.
John se ne stava in disparte, guardando la scena con un sorrisetto sbilenco. Sul volto di Adam, in piedi accanto a lui, scivolò una lacrima solitaria.
E Courtney era al culmine della gioia, emozionata come se fosse lei la sposa. Duncan la teneva fra le sue braccia e lei non opponeva alcun tipo di resistenza.
Il fotografo immortalò questi ed altri momenti.
Tutto era estremamente perfetto. O meglio, tutto fu estremamente perfetto fino a quel momento.
Quando Duncan e John andarono a riprendere la macchina, scoprirono di essersi beccati una multa per divieto di sosta. Il primo tirò giù una scarica di Santi dal cielo; il secondo si limitò ad apostrofarlo con termini poco gentili, ricordandogli che fosse solo colpa sua.
Alla fine raggiunsero un punto fermo e stabilirono un tacito accordo: Courtney non avrebbe mai dovuto saperlo. Era una questione di vita o di morte.

 
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Ore nove e cinquantasette di sera.
La cena era proceduta tra brindisi, proposti principalmente da Adam e Geoff, ai due sposi, parole entusiastiche e di augurio da parte di molte persone - Harold aveva addirittura preparato un discorso di cinque pagine e lo lesse davanti alle espressioni esasperate dei presenti; Leshawna si vergognò terribilmente di essere la sua ragazza - e romanticherie sdolcinate di ogni genere tra i due piccioncini.
Dopo innumerevoli portate, tutti in quel ristorante stavano per esplodere. L’unica persona, impavida, che continuava ad ingozzarsi, era John: era già la terza volta che si era alzato per andare al tavolo dei buffet, per poi tornare con ogni tipo di dolce esistente.
«Dacci un taglio» ordinò secco Duncan, tirando il piatto verso di sé. «Sul serio, amico, ho la nausea solo a guardarti!»
L’orchestra, stipata dall’altra parte dell’enorme stanza, finì di suonare un grande classico e attaccò con una ballata lenta.
Trent si alzò dalla sua sedia e tese una mano verso Gwen, che la afferrò esitante. La condusse al centro della sala, la afferrò saldamente per la vita e cominciarono a roteare per la stanza al ritmo di quelle note. Superato l’imbarazzo iniziale, la ragazza si lasciò trasportare da una parte all’altra come se fosse una bambola.
«Sono stomachevoli» si espresse John, bevendo un lungo sorso di vino.
Per tutta la serata non aveva fatto che commentare tutto quello zucchero con frasi acide e versi di disgusto.
Courtney evidentemente non la pensava come lui. Con il mento poggiato sulle mani, osservava con aria sognante i due ragazzi danzare, più innamorati che mai. Aveva sempre desiderato una relazione come quella, un principe azzurro che la portasse via a bordo del suo cavallo bianco.
Qualcuno le picchiettò la spalla e lei si girò di scatto, con lo sguardo di uno che era stato risvegliato da un bella visione.
«Se hai finito di sognare ad occhi aperti,» le disse Duncan, seduto alla sua destra, «avevo intenzione di invitarti a ballare».
«Tu, ballare?» lo derise con una risatina di scherno. «Non farmi ridere».
«Beh, se tu non vuoi, credo che andrò a chiedere a qualcun’altra» disse con una scrollata di spalle, cercando di farla cedere. «Per esempio, che mi dici della cugina bruna di Trent? Quella laggiù, con quei due cocomeri al posto delle tette».
Courtney comprese il suo giochetto imbecille. Lo afferrò per la giacca e lo trascinò di peso sulla pista, che aveva cominciato a riempirsi. Gli gettò le braccia al collo, mentre sentiva lui stringerle la vita, e cominciarono a muoversi.
Aveva sempre sognato il principe azzurro, ma alla fine si era innamorata dell’orco brutto e cattivo. E lei era la sua principessa.
Lo osservò, i suoi occhi puntati sui suoi piedi, ben attento ai passi. Se le avesse schiacciato i piedi come l’ultima volta, sapeva che le avrebbe tenuto il broncio per tutta la serata. La ragazza apprezzava il fatto che ci desse peso e che cercasse di evitarlo in ogni modo.
«Hai preso delle lezioni?» scherzò lei, notando tutta la sua accortezza.
Lui rise e lei si morse un labbro. Amava la sua risata.
Poi disse, senza riuscire a controllarsi: «Sono felice che tu sia con me».
E l’istinto la fece muovere verso le sue labbra. Voleva sugellare quel momento perfetto con un bacio indimenticabile. Sempre più vicino…
Prima che potesse solo sfiorargliele, si accorse che lui si era allontanato di colpo. Perché?
«Scusami» borbottò Duncan e si allontanò.
Courtney, inizialmente spiazzata, prese ad inseguirlo e a chiamarlo a voce alta. Quando raggiunse l’esterno, era troppo tardi: era già sparito in mezzo al giardino.
Rientrò dentro, i pugni stretti, le nocche ormai rosse e un insopportabile nodo alla gola. Che motivo lo aveva spinto ad allontanarsi? “Scusami” per cosa?
Le bruciava la gola e sentiva che avrebbe potuto cominciare ad urlare da un momento all’altro.
«Courtney» la chiamò Gwen, accorrendo verso di lei, con un’aria estremamente preoccupata. Aveva assistito a tutta la scena e temeva il peggio. «Stai bene?»
«Cos’è successo?» le domandò Trent, al seguito della moglie, avendo notato la sua espressione affranta.
Tutte quelle attenzioni la infastidirono un poco. Non era una bambina, non aveva bisogno di essere consolata.
«Non è successo nulla, sto alla grande e so badare a me stessa da sola!» sbottò acidamente e tutto d’un fiato.
Gwen cercò di trattenerla per il braccio, ma lei si liberò facilmente e corse via.
Si rifugiò in bagno e si accovacciò dietro il lavandino, in modo tale che nessuno potesse vederla. Combatteva contro le lacrime e cercava di non singhiozzare. Si sentiva un’idiota.
«Court, lo so che sei lì» disse Gwen, sul ciglio della porta, notando le sue gambe spuntare da dietro il lavandino.
«Vattene» sillabò.
Naturalmente non se ne andò. Si avvicinò, si accovacciò accanto a lei, attenta a non calpestare la stoffa del vestito, e le cinse le spalle con un braccio.
«Allora, che ne dici di raccontarmi tutto dal principio?» le chiese dolcemente.
La bruna prese un respiro profondo e prese a spiegare dettagliatamente tutto quello che era appena successo.
«E poi mi ha abbandonata sulla pista da ballo» concluse, tirando su col naso. E solo una volta che l’ebbe detto, riuscì a realizzarlo appieno. «Mi ha abbandonata sulla pista da ballo!» ribadì ad alta voce.
Gwen la strinse più forte, per paura che potesse cominciare a piangere da un momento all’altro. Ma non lo fece.
«Non darci troppo peso» le disse, e la vide sgranare gli occhi.
«Come faccio a non pensarci?» chiese Courtney indignata. «Gwen, io lo amo. Lo amo!»
Si tappò la bocca con una mano. L’aveva davvero detto ad alta voce?
Un conto era ammetterlo a se stessa, un altro confessarlo davanti a qualcun altro. Era strano, era totalmente diverso. Ed era anche così vero e suonava maledettamente bene.
Lo amo.
Gwen la guardò con un enorme sorriso stampato in volto.
«Finalmente l’hai capito anche tu, zuccona» quasi esultò.
L’aveva compreso da anni che quei due erano fatti l’uno per l’altra, eppure loro ci avevano messo così tanto tempo a capirlo. Quale problema avevano?
«Lo sapevano tutti!» esclamò ad alta voce qualcuno fuori dal bagno. Trent, con un sorrisetto stampato sulle labbra, aveva origliato l’intera conversazione.
«Ci stai forse spiando?» chiese beffarda la sua sposa.
«Io? Assolutamente no!» mentì spudoratamente. Poco dopo lo sentirono allontanarsi.
Scoppiarono entrambe a ridere.
Gwen, la prima a riprendersi, si alzò, riaggiustandosi le pieghe del lungo abito.
«Dove stai andando?» chiese Courtney, vedendola uscire.
«A dirne quattro a Duncan» rispose, voltando la testa in sua direzione. «Nessuno può ferire la mia migliore amica senza vedersela con me».
Le sorrise riconoscente. Le voleva un mondo di bene.

 
• • •

 
Ore dieci e trentatré.
Duncan si era rifugiato in fondo al giardino, il più possibile lontano da tutti. Dietro di lui, seduti su una panchina, una giovane coppia si scambiava effusioni. Lanciò loro un’occhiata disgustata, tornando a concentrarsi sulla sua sigaretta e concedendosi un altro tiro.
Le immagini di quella giornata si facevano spazio tra la sua mente: come Courtney l’aveva cacciato malamente dalla sua stanza, il bacio che gli aveva scoccato sulla guancia quando aveva fatto ripartire l’auto, l’abbraccio fuori dalla chiesa, quel ballo che le aveva domandato, le sue labbra sempre più vicine…
E anche quel mezzo bacio da ubriaco che le aveva dato ieri notte. Adesso riusciva a ricordarlo.
Non sapeva come comportarsi, era confuso.
«Tu!» strillò qualcuno.
Si voltò e vide Gwen, più infuriata che mai, camminare a passo rapido verso di lui.
Lo avverrò per le spalle e lo scrollò per bene.
«Sei uno schifoso pezzo di merda!» lo accusò ringhiandogli contro.
La rabbia le sfigurava il viso. Non l’aveva mai vista così.
«Ti prego Gwen, smettila! Così mi fai arrossire!» esalò con quanto più sarcasmo poté.
Questo peggiorò la situazione ancora di più.
«Cosa ti passa per quell’encefalo sottosviluppato?» gli chiese, con un’altra violenta scrollata.
«Chiedo scusa, ma non capisco» disse, cercando di non incrociare troppo a lungo lo sguardo con lei. Temeva potesse incenerirlo. «Se potessi spiegarmi…»
«Non fare il finto tonto, Courtney mi ha raccontato tutto» esclamò. «L’hai mollata in mezzo alla pista senza spiegazioni! Ti rendi conto?»
Aprì la bocca, ma lei lo sorprese.
«Non mi interessano le tue giustificazioni» sbottò. «So solo che l’hai distrutta, mi basta questo. Ora tu torni dentro e le chiedi scusa».
Lo spinse con tutta la forza che aveva, mandandolo a sbattere contro un albero, e si allontanò. Ma dopo qualche passo si fermò e tornò a guardarlo, stavolta molto più tranquilla.
«Lei ti ama» gli confessò con un sorriso sbilenco. «Non sprecare quest’occasione».
Le diede le spalle e la sentì rientrare nel ristorante.
Ora tutto acquisì un nuovo senso. Tutti quei segnali che gli aveva lanciato, quelle frasi, quelle occhiate…

Quel tentativo di baciarlo in mezzo alla sala.
Lei lo amava, come aveva fatto a non comprenderlo prima?
E lui aveva mandato tutto a monte per via del suo senso di colpa e dei suoi sentimenti confusi. Era stato uno stupido.
Gettò la sigaretta, che si era ormai spenta, nel posacenere più vicino e si diresse verso l’interno, non prima di aver gettato un altro sguardo verso quella coppietta. Erano troppo impegnati a succhiarsi la faccia a vicenda per accorgersi di qualunque cosa.
Una volta nel salone si guardò attorno, cercando di scorgerla tra la massa di invitati che ballava al ritmo di una canzone scatenata. Di Courtney nessuna traccia.
«Ehi amico, dove sei stato?»
John, seduto al tavolo da solo e con un bicchiere di spumante in mano, gli faceva cenno di avvicinarsi.
«Ti sei perso la plateale dichiarazione d’amore di Alejandro. Non ho mai visto una cosa così esagerata!»
Il latino era salito sul palco, interrompendo la musica e facendosi passare il microfono dal cantante. Aveva giurato amore eterno ad Heather, riempiendola di parole dolci e romantiche. Dopodiché si era avvicinato a lei, si era inginocchiato e l’aveva pregata di sposarlo. Alla fine, lei, più innamorata che mai, aveva accettato e la stanza era esplosa in applausi e acclamazioni, mentre loro si baciavano appassionatamente.
«Sì, poi mi racconti» tagliò corto Duncan. «Hai visto per caso Courtney?»
Ci pensò un po’ su.
«Da quella parte» concluse, indicando una porta dall’altra parte della stanza. «Ha detto che aveva bisogno di cambiare aria».
Lo ringraziò frettolosamente e si avviò verso il luogo indicato, ma John lo fermò.
«Duncan» lo chiamò, ed era forse la prima volta che usava il suo nome, senza aggiungere alcun altro epiteto. «Vedi di limonartela per bene, stavolta» si raccomandò.
Era la cosa più carina ed incoraggiante che gli avesse mai detto. Ne rimase piacevolmente sorpreso.
«Certo, amico» ghignò lui in risposta, facendogli l’occhiolino.
Attraversò la porta e si ritrovò a percorre un lungo corridoio spoglio, su cui si affacciavano altre due grandi sale - in entrambe si svolgevano due celebrazioni, un compleanno e una festa di laurea - e che terminava con un enorme balconata. Lì fuori, intenta ad osservare il cielo, vi era Courtney, i capelli acconciati e la gonna del vestito rosso che svolazzavano al vento. Sembrava una visione eterea.
«Principessa» mormorò.
La vide sussultare, segno che lo aveva riconosciuto.
«Cosa vuoi?» chiese con tono a metà tra l’acido, l’irritato e l’annoiato.
Si mise affianco a lei, alla sua destra, appoggiandosi alla ringhiera. Fissò il suo profilo, regale e perfetto; eppure il suo viso era così triste e abbattuto.
«Immagino che tu ti sia chiesta perché me ne sia andato senza dire una parola» disse lui guardando dritto davanti a sé, e pensò che non potesse esserci un incipit peggiore di quello. «Posso spiegarti».
«Illuminami, idiota» sbottò, rivolgendogli una smorfia.
Ma non riuscì a pensare a nulla che avesse un minimo di senso. Forse non c’era davvero una giustificazione adeguata.
Vedendo che non spiccicava parola, lei ridacchiò, e la sua risata aveva un nonsoché di amaro e malinconico.
«È così evidente, come ho fatto a non pensarci prima?» chiese più a se stessa che a lui. «È imbarazzante, non è vero? Passare del tempo con me».
«Cosa diamine stai dicendo?» domandò.
«Che io e te proviamo sentimenti diversi» rispose e poi aggiunse in un mormorio: «E io stupida che ci ho anche creduto… Beh, dopotutto eri ubriaco, come poteva essere vero?»
«Stai straparlando, come al solito» la avvertì. Alle volte era talmente logorroica che perdeva il filo del discorso. «Che ne diresti se provassi a spiegarti?»
Per la prima volta dall’inizio di quella conversazione Courtney lo fissò. Nei suoi occhi non si leggeva nulla se non assoluta indifferenza. Era troppo brava a nascondere ciò che provava.
Sospirò e distolse lo sguardo, affacciandosi nuovamente.
«Ieri notte hai detto che hai bisogno di me» mormorò. «Ma eri ubriaco, probabilmente farneticavi… e io ci ho creduto comunque».
Si aspettava che scoppiasse a ridere, o che la deridesse, o che distruggesse le sue aspettative in qualunque altro modo. Ma non fu così.
Duncan le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardarlo negli occhi. Pensò che si sarebbe opposta in qualche modo, invece lei rimase immobile.
«La verità è che ho paura» le confessò, senza riuscire ad impedire che quelle parole gli uscissero dalla bocca. «Ho paura di esternare i miei sentimenti».
E ora che l’aveva finalmente detto, seppe che era quello il motivo per cui si era tirato indietro.
Aveva passato gli ultimi sei anni della sua vita a corteggiarla in ogni modo, e lei non aveva fatto una piega. Ora che Courtney aveva finalmente ceduto ed era pronta a dichiararsi, lui l’aveva rifiutata. Il tutto perché lei aveva preso in mano le redini di quel gioco mandandolo in confusione: solitamente, in una relazione, era il ragazzo a prendere il comando. Cosa c’era di sbagliato in lui?
Non aveva mai avuto paura di nulla, sin da quando era un fanciullo. Eppure non riusciva a dire quelle due semplici e fatidiche parole alla ragazza che tormentava i suoi sogni da quando aveva sedici anni.
Aveva avuto innumerevoli donne, prima e dopo di lei. Eppure Courtney era l’unica che gli aveva fatto provare un sentimento tanto forte da scombussolarlo. Tanto forte da non riuscire a confessarglielo.
«
È così idiota» borbottò con voce roca, spostandole con il pollice una ciocca, che le ricadeva sulla fronte, dietro l’orecchio.
«Non lo è» lo contraddisse. «Io ne ho avuto paura per sei anni».
Duncan cominciò a ridacchiare sotto i baffi.
«Non ci credo» disse. «Courtney Barlow che ammette di avere paura di qualcosa».
«Aver avuto» lo corresse. «E poi, non sono io quella che è scappata perché non sa ammettere i propri sentimenti, se non da sbronzo».
«Guarda che posso farlo tranquillamente quando voglio. E senza ubriacarmi».
«Ebbene, sorprendimi» lo sfidò con lo sguardo. «Fallo».
La tensione si era sciolta di colpo. Erano rimasti solo due giovani, inesorabilmente infatuati l’uno dell’altra, pronti a scherzare e a punzecchiarsi a vicenda. Come ai vecchi tempi, non era cambiato nulla.
E forse fu quella situazione, molto più familiare di prima, a farlo lasciare andare e spingerlo finalmente a parlare.
«Ho bisogno di te» disse Duncan con voce ferma e decisa.
Courtney gli rivolse un enorme sorriso.
«Anch’io».
Poggiò le labbra sulle sue in un bacio casto e leggero. Si allontanò di colpo, come se si fosse scottata.
«Mio Dio» imprecò lui.
«Cosa?» chiese titubante. Cosa succedeva adesso?
«Non mi ricordavo che baciassi così male» ghignò strafottente.
«Davvero? Vuoi scommettere?»
E fu in quel momento che mandò a farsi benedire la delicatezza. Si fiondò nuovamente su di lui, catturandogli le labbra con le sue. Questa volta il bacio era decisamente più violento e spinto. Lo baciava con tanta foga da non farlo respirare.
Portò le mani dietro la sua nuca, approfondendo il bacio ancora di più, mentre lui la afferrò dai fianchi e la spinse ancora più vicina.
E continuarono a cercarsi, a riscoprirsi fino in fondo. Con le lingue, con le bocche, con le mani. Erano stati distanti troppo a lungo.
Aveva dimenticato come fosse baciarlo, dei brividi lungo la schiena e della mente scombussolata e incapace di formulare qualsiasi tipo di ragionamento. Si sentiva viva.
Era questo che desiderava da sempre, pensò sentendo il suo cuore batterle all’impazzata. Lo aveva atteso a lungo, bramato con tutta se stessa. E finalmente era arrivato ed era anche meglio di quanto potesse mai immaginare.
Si staccarono per riprendere fiato e si guardarono intensamente. Fu in quel momento che capì che avrebbe voluto Duncan al suo fianco per tutto il resto della sua vita. Ne aveva davvero bisogno.
«Stanotte non mi scappi» sussurrò lui con malizia, prima di rituffarsi ancora e ancora su quelle labbra.
E Courtney ne era certa, non sarebbe andata da nessuna parte. Mai più.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice
E siamo arrivati alla fine di questo lungo viaggio.
Un’altra storia archiviata, sembra ieri che la iniziavo. Non potete capire quanto tutto ciò mi renda triste.
Voglio ringraziarvi, perché siete stati una piccola ed importante parte di questo progetto.
Grazie a Blacklu e Ale del trio Ale_Marti_Ola per aver recensito tutti i capitoli - o quasi.
Grazie a Madness17 per aver recensito il primo capitolo e a Valedxclove per aver recensito i primi due. Spero che abbiate continuato a seguire la storia, sebbene non vi siate più fatte sentire.
Grazie a mia cugina Porpora_, che ha recensito tutti i capitoli dal quarto in poi, che è stata anche lei ideatrice di questo progetto, in quella giornata di luglio di tre anni fa. Senza di lei, probabilmente “La Storia Inversa” non sarebbe mai esistita.
Grazie a mia sorella, che ha recensito solo il terzo capitolo ma che ha seguito tutto il processo creativo della serie, dall’inizio alla fine. È una delle mie lettrici più affezionate.
Grazie a tutti i lettori silenziosi, in particolar modo a chi mi segue da davvero tantissimo tempo ma che non mi ha mai recensito. So che siete lì, siete fantastici.
Grazie a chi ha messo la storia tra preferiti, seguiti o ricordati.
E grazie anche a chi ha seguito il prequel. Non vi cito perché siete davvero tanti e molti di voi probabilmente sono spariti, ma sappiate che vi adoro, ovunque voi siate.
Grazie a tutti voi, vi voglio un mondo di bene!
Davvero, non so cos’altro dire.
Spero che le avventure di questi pazzoidi vi abbiano fatto divertire e vi abbiano strappato una risata. E spero anche che sia riuscita a sciogliervi un po’ nei momenti romantici.
Non sarà la fine de “La Storia Inversa”. C’è la possibilità che io pubblichi delle missing moments, dei piccoli aneddoti sulla fan fiction originale però non trattati in questa, oppure un epilogo conclusivo - anche se, mi piace lasciare i finali in sospeso. Nel frattempo, mi concentrerò su altri progetti.
Grazie ancora per il vostro sostegno.
Ci vediamo presto, un abbraccio a tutti!
Hayle xx

  
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