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Autore: vivis_    04/09/2016    3 recensioni
L'abbiamo provata tutti, quella sensazione di impotenza. Sì, quella che ti attanaglia l'anima quando ti senti in dovere di aiutare qualcuno, ma non credi di possedere i mezzi per farlo.
Tutti l'abbiamo provata, tutti tranne lui: Sherlock Holmes.
Lui ha sempre la soluzione a tutto, o almeno l'aveva sempre avuta, fino a quel giorno. Il giorno in cui lui e colui il quale rappresenta l'altra metà della sua vita, John Watson, si trovano letteralmente bloccati nell'ennesima sfida da affrontare insieme. Uno con l'altro, l'uno per l'altro.
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Dal secondo capitolo:
Era panico quello che sentiva, panico e impotenza. La scena che si trovava davanti era tutta sbagliata. Non era lui che si prendeva cura di John, era John che salvava la vita a lui, sempre. Era John che si preoccupava di ascoltare i suoi lamenti silenziosi, le sofferenze inespresse sapendo esattamente cosa fare per alleviarli. Era John l’eroe, non lui."
Genere: Drammatico, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4.  Anime belle, anime coraggiose.

 

Sherlock premette la punta delle dita contro le tempie imperlate di sudore.

«Okay John, dobbiamo rimanere lucidi. Farsi prendere dal panico sarebbe deleterio.» disse poi congiungendo le mani sotto al mento. Per quanto sapesse che il suo amico non avrebbe mai ammesso il suo vero stato d’animo, per non farlo preoccupare. John lo faceva tutte le volte, credendo che Sherlock non si accorgesse del fatto che sbattesse due volte le palpebre quando mentiva sul suo stato d’animo.

«Io non sono in panico» protestò debolmente il dottore.

Sherlock inclinò la testa facendo capire all’amico come mentire sarebbe stato inutile.

«Ok, forse un pochino.» ammise infine John. Sherlock giurò di aver sentito un rantolo sommesso proveniente dai suoi polmoni, sperò che si trattasse dell’ennesimo lamento di dolore e non il primo dei sintomi della mancanza di ossigeno.

Il genio sentì lo stomaco fare una capovolta. Ignorò la sensazione di nausea e si inginocchiò di fianco all’amico e prese il viso tra le lunghe dita pallide. La sfumatura azzurrina della luce della torcia rendeva i contorni di quella scena ancora più indistinti, quasi spettrali. Quella volta non si ritrasse da quel contatto, non provò alcun istinto di fuga. Al contrario, ogni istante che passava sentiva sempre di più i suoi palmi modellarsi sulle guancie di John, adattandosi prima alle sporgenze degli zigomi e poi anche alla più sottile delle rughe, quasi ne volessero diventare parte integrante. In un lasso di tempo che entrambi non avrebbero saputo quantificare, la distanza tra i loro volti si era quasi annullata. Se i ricchi corvini di Sherlock non fossero stati incollati alla fronte per via del sudore, probabilmente avrebbero sfiorato la fronte di John.

«Ti porterò fuori da qui, John. Hai capito?» sentenziò Sherlock riempiendo l’esigua distanza rimasta con il suo respiro tiepido. Sentì l’amico annuire debolmente. I suoi occhi grigi, normalmente così espressivi da non avere alcun segreto per Sherlock, erano ora vacui, ridotti a due sfere di vetro opaco.

«Gesù, John! Scotti!» Sherlock strabuzzò gli occhi, essendosi reso conto solo in quel momento del contrasto tra la temperatura delle proprie mani e quella del viso di Watson.

Un lampo di razionalità scosse il cervello di Sherlock. Egli ritrasse velocemente le mani, ancora una volta sopraffatto da come quella vicinanza fosse in grado di fargli dimenticare per un attimo dove si trovasse davvero. Con la punta delle dita scostò i ricci scuri da un lato della fronte, facendoli aderire ancora di più alla pelle umida.

«Sarà il caldo.» John alzò leggermente la mano insegno di noncuranza.

«Dopo questa risposta dovrei presumere che tu sia davvero un pessimo medico, ma dato che ho avuto l’onore di vederti in azione in più occasioni, questa ipotesi mi sembra a dir poco ridicola. Deduco quindi che tu non voglia ammettere di avere la febbre. » Sherlock cercò disperatamente di dissimulare l’angoscia che lo logorava dall’interno dietro la cadenza misurata delle sue deduzioni.

«Sherlock, mi hai promesso che usciremo da qui…» inspirò di nuovo e di nuovo a quel lieve rantolo arrivò alle orecchie del suo migliore amico. «Ma per uscire da qui dobbiamo risolvere quel maledetto indovinello. Quindi ora le mie condizioni non sono una priorità, dobbiamo riflettere.» concluse infine, abbandonando il capo contro la parete metallica.

Certo che sono una priorità, avrebbe voluto rispondere, ma capì come, in quel momento, protestare sarebbe stato solo uno spreco di energie.

«Riflettiamo» disse allora il genio mentre sentiva le guance ribollire. Schiarì la voce, rendendosi conto che, probabilmente, se fossero stati alla luce del sole, si sarebbero visti i suoi celeberrimi zigomi tingersi di rosso.

«Allora, tutti i personaggi che ha citato fanno parti di opere che in qualche modo hanno a che fare Italia. » constatò John, che sembrava aver racimolato un po’ di energia. «Prospero era Duca di Milano, Othello era il ‘moro di Venezia’ e, beh, Giulio Cesare è chiaramente ambientata a Roma.»

«Roma!» il volto di Sherlock sembrò illuminarsi. «Roma è stata distrutta da un incendio ed è attraversata da un fiume»

«Perché il Tevere dovrebbe essere rilevante?»

«Il nemico del primo fratello, John. L’acqua è nemico del fuoco.»

Il silenzio calò per qualche secondo. «Pensi che ci abbiano portato a Roma?» chiese il dottore incredulo.

L’entusiasmo di Sherlock per la sua precedente deduzione scemò in un battito di ciglio, troppo facile, troppo ovvio.

«No, John, ovvio che no. Siamo fuori strada.» rispose a voce così bassa che persino John faticò a capire.

«Perché ‘ovvio’?»

«Perché prima, quando ho esaminato la cella, ho notato due prese per la corrente ed entrambe avevano la forma di quelle che usiamo qui nel Regno Unito. In Italia le prese sono formate da tre fori circolari a uguale distanza» spiego il consulente investigativo con precisione, disegnando nell’aria le forme che stava descrivendo.

«Come diavolo fai a… lascia perdere. Conosci 200 tipi di cenere di tabacco, perché non dovresti sapere anche come sono fatte le prese della corrente di mezzo mondo?» chiese Watson con un tono che sapeva di casa.

«243, mio caro Watson» rispose Sherlock inarcando l’angolo delle labbra.

Entrambi si lasciarono andare all’unisono in una risata che più che mai stonava con la situazione che stavano vivendo. Sherlock rivide per qualche istante il John di sempre, quello che si arrabbiava con lui per la sua mancanza di sensibilità, ma che due minuti dopo il litigio si alzava per preparare una tazza di te per entrambi.

Il consulente investigativo sentì gli angoli interni dei suoi occhi pizzicare. Inspirò profondamente ricacciando quelle lacrime da dove erano venute, ancora prima che potessero vedere la luce.

 

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Il nome 'Violet Holmes' lampeggiava quasi minaccioso sullo schermo del telefono. Mycroft guadò il telefono vibrare sul ripiano lucido della sua scrivania fino a quando il nome di sua madre non fu sostituito dalla scritta: 3 missed calls.

“Mycroft perché sulla tua rubrica sono rinominata con nome e cognome?” gli aveva chiesto durante una di quelle noiose ed interminabili cene di Natale durante le quale lui e suo fratello venivano costretti alla convivenza forzata nel delizioso cottage dei loro genitori.

“Perchè tutti nella mia rubrica sono rinominati per nome e cognome, madre cara” aveva allora risposto con il suo tipico sorriso ingessato. “perché tu dovresti fare eccezione in qualche modo?” aveva chiesto infine.

“Perché sono la tua mamma, Mycroft caro” sua madre aveva migliorato la sua imitazione più di quanto ci tenesse ad ammettere, non avrebbe mai dubitato del fatto che la tendenza sua e di Sherlock alla melodrammaticità fosse stata ereditata proprio da Violet.

“Assolutamente scortese da parte tua, Mycroft, paragonare nostra madre a qualsiasi altro dei tuoi contatti” irruppe la profonda voce di suo fratello Sherlock, che, in quel momento, se ne stava seduto scompostamente sulla poltrona blu al lato del caminetto rigirando tra le lunghe dita da musicista un calice di spumante ancora intonso.

“Almeno lui ha memorizzato il mio numero, Sherlock caro” intervenne Mrs Holmes mentre sistemava accuratamente alcuni piatti nel lavastoviglie, prima che il fratello maggiore potesse controbattere.

L'espressione provocatoria dia Sherlock era così stata essere gradualmente sostituita da una smorfia simile ad un broncio. Aveva poi appoggiato il calice sul tavolino in vetro e aveva incrociato le braccia al petto, come un bambino a cui avevano appena tolto di mano un gioco con cui si stava divertendo. Mycroft aveva inarcato le sopracciglia in un'espressione di profonda soddisfazione.

 

Lo schermo dello smartphone si illuminò di nuovo facendo riemergere Mycroft dai suoi pensieri. Questa volta il nome di sua madre era affiancato da una piccola icona a forma di busta. Egli abbassò il capo chiudendosi l'attaccatura del naso tra il pollice e l'indice e, dopo aver preso un profondo respiro, allungò l'altra mano per prendere il telefono.

 

Violet Holmes:“Mycroft, perchè ignori le mie chiamate? È successo qualcosa oppure Sherlock ti ha di nuovo rubato il telefono? Se è così, WILLIAM SHERLOCK SCOTT HOMES RIDAI IL TELEFONO A TUO FRATELLO, ORA!

Mamma.”

 

Un sorriso amaro apparve fugace sul viso teso dell'uomo di ghiaccio. Sapeva che, non se avesse ignorato anche quel messaggio, sua madre avrebbe seriamente iniziato ad insospettirsi. Dopotutto le capacità deduttive sue e di sue fratello non potevano essere venute fuori dal nulla. Infilò l'indice del colletto della camicia, allentandosi il nodo della cravatta e, finalmente, fece scorrere il pollice sul touchscreen per sbloccare lo schermo.

 

You: “Sono in riunione ora. Questione di sicurezza nazionale.

MH”
 

Sua madre non lo aveva mai obbligato a fare nulla, non gli aveva mai scaricato addosso nessun genere di aspettativa e, nei limiti della legalità, non gli aveva mai impedito nulla.

Gli aveva fatto promettere solo due cose: di non mentirgli mai, a meno che non si trattasse del suo lavoro, e di prendersi cura di suo fratello Sherlock.

Le circostanze in cui quella promessa era stata fatta erano state, quantomeno, bizzarre, anche se non troppo per gli standard della famiglia Holmes. Fu il giorno della laurea di Sherlock, quando il neolaureato dai ricci bruni era chiuso a chiave nel bagno degli ospiti, rifiutandosi di partecipare alla sua stessa festa di laurea, ed entrambi si erano trovati nel corridoio del secondo piano nel disperato tentativo di convincerlo ad uscire.

Mycroft lanciò un occhiata al tablet che giaceva sulla sua scrivania, lo prese tra le mani. Le immagini sgranate ritraevano i due coinquilini del 221b di Baker Street seduti uno accanto all'altro, spalla contro spalla, il biondo con lo sguardo fisso davanti a se il moro con lo sguardo fisso sul viso del suo migliore amico. Non riusciva a distinguere i lineamenti del fratello ma non fu difficile immaginare la curva delle sue labbra ridotta ad una sottile fessura pallida, la fronte corrucciata dal terrore di perdere la persona per cui aveva deciso di morire e ,soprattutto, tornare a vivere.

Dopo essersi assicurato del fatto che nessuno si stesse avvicinando alla porta del suo ufficio, Mycroft Holmes si concesse un sospiro pieno di angoscia, lasciò, per qualche attimo, che la paura si agitasse all'interno del suo petto. Si concesse un impercettibile momento di umanità.

Il telefono vibrò di nuovo.

 

Violet Holmes: “Okay Myc. Ma, mi raccomando, fatti sentire.

Mamma.”

 

Il maggiore dei fratelli Holmes sbatté le palpebre ricacciando tutte le emozioni in quella specie di vaso di Pandora in cui le teneva prigioniere. Indossò la sua maschera di diplomazia e tornò a vestire i panni dell'incarnazione del governo inglese. Avrebbe trovato Sherlock, con qualsiasi mezzo, legale o illegale che fosse.

Aveva appena mentito a sua Madre, rompere in un giorno due promesse fatte all'unica persona che lo aveva sempre e che sempre lo avrebbe amato incondizionatamente sarebbe stato troppo da sopportare, anche per l'Uomo Di Ghiaccio. 

-

 

Le palpebre pesavano come macigni e calavano sugli occhi grigi del dottor Watson ogni qualvolta i brividi della febbre, partendo dalla base della colonna vertebrale, lo attraversavano facendolo tremare fino alle viscere.

Il suo capo ciondolava a destra e a sinistra come se il collo, nonostante la massiccia muscolatura forgiata dall’addestramento e dall’esperienza militare, non fosse abbastanza forte per sostenerne in peso. Rimanere completamente lucido stava diventando sempre più difficile, tanto che in alcuni momenti si trovava a fissare il buio mentre nel suo cervello le immagini reali, i ricordi passati, gli eventi mai verificatisi iniziavano a mescolarsi tra di loro, diventando uno parte dell’altro, formando un concentrato di confusione affascinante e terribile allo stesso tempo.

Sherlock si piegò sulle ginocchia, aveva perso il conto di quante volte lo aveva fatto da quando i sintomi della febbre avevano iniziato ad acutizzarsi. Allungò la mano umida di sudore e raddrizzò il capo dell’amico sorreggendolo dalla nuca, quel gesto gli ricordò quello delle infermiere nel reparto maternità del Bart’s quando prendevano in braccio i neonati. Nella sua mente il paragone suonò quasi divertente, ma la tenerezza di quell’immagine si dissolse lentamente fino a trasformarsi in un’immagine tanto angosciosa quanto la realtà che stava vivendo. La verità lo colpì come un treno in corsa.

Si trovava poi in una situazione tanto differente?

Il suo sguardo sostò sull’espressione vacua dell’amico rendendosi conto di quanto fosse indifeso, inerme, come un bambino, incapace di affrontare da solo gli ostacoli e i pericoli che il mondo riserva solo alle anime belle e a quelle coraggiose.

«John, cerca di stare sveglio» lo richiamò Sherlock con un’inaspettata dolcezza.

«Sono sveglio, sono sveglio» farfugliò John.

«I tuoi lettori impazziranno quando racconterai questa storia in quel tuo blog.» Sherlock cercava di comportarsi normalmente, cercando in tutti i modi di mantenere vigile l’amico.

«I nostri lettori» lo corresse John «sei tu la star.» l’angolo sinistro delle sue labbra si tese leggermente.

«Ogni Batman ha il suo Robin»

«Hai rubato i miei fumetti dal mio cassetto del comodino?»

«Oh, John. Davvero non te ne sei mai accorto?» disse Sherlock con una leggera risata.

«E tutte quelle volte che mi prendevi in giro perché dicevi che i supereroi erano “una stupida invenzione per creduloni”?» chiese incredulo il medico.

«Ehm… potrei aver mentito. Contavo sul fatto che non te ne saresti accorto.»

«Oh, ecco le tue frecciatine, Sherlock, iniziavano a mancarmi.»

Un lampo di senso di colpa fece sobbalzare lo stomaco di Sherlock, ma, dopo pochi istanti, si rese conto di come lui, se si fosse trovato nella stessa situazione di John, avrebbe voluto che chiunque si trovasse al suo capezzale si fosse comportato nella maniera più naturale possibile. Gli sarebbe stato più facile credere che tutto si sarebbe sistemato, che tutto sarebbe tornato al suo posto.

Sentì la mano di Watson strisciare sul ruvido pavimento con un rumore lento, simile ad un rantolo silenzioso. Sherlock rimase immobile, anche quando la mano di John raggiunse la sua. Percepì la debole stretta ancorarsi intorno al suo mignolo e al suo anulare con tutta l’energia che gli era rimasta.

«Comunque hai ragione Sherlock, penso che questa avventura riscuoterà persino più successo di quella base militare di Baskerville.» la poca convinzione con cui il medico pronunciò quelle parole fu disarmante per Sherlock.

Per qualche attimo di sorprese a pensare a come fosse la sua vita prima di conoscere John, ma i suoi ricordi erano così sfocati e oscuri che quasi dubitò di aver avuto una vita prima di quel fatidico incontro in quel laboratorio del Bart’s, che puzzava costantemente di cloro e naftalina. Eppure tra quella nebbia scura egli riconobbe il mostro che era stato e che sarebbe tornato ad essere senza di Lui: un’accozzaglia di pensieri negativi avvolti in un involucro di pelle dalle fattezze umane.

«Vero» lo assecondò Holmes «anche se penso che la storia di quella volta in cui abbiamo inseguito quel ladro a King’s Cross ma siamo saliti sul treno sbagliato invece che su quello su cui era salito il delinquente»

«Oh si, quella è stata davvero divertente. Abbiamo anche preso la multa per non aver fatto il biglietto.»

«Dio quando avrei voluto tirare un pugno in faccia a quel controllore»

John si schiarì la voce, trattenendo una risata.

«In realtà lo hai fatto, Sherlock. Due volte» precisò il medico.

«Oh beh era un insopportabile scorbutico» disse Sherlock facendo spallucce.

Le loro risa iniziarono a spargersi nell’aria densa fino a quando non si trasformarono in violenti colpi di tosse. Non gli rimaneva molto ossigeno, per un ora e mezza, forse anche meno.

«Ancora fatico a capire come abbiamo fatto a confondere un intercity per Liverpool con un treno locale tutto cigolante diretto a Birmingham.» Watson, con un filo di voce, ruppe il silenzio.

«Non lo so, ma hai avuto una bella idea quando hai proposto di fermarci a Stratford Upon Avon nel ritorno, non avevo mai visto la villa di Shakespear…» non appena terminò di pronunciare il nome del famoso artista, trasformatosi in attore di quella terribile vicenda, il cuore del consulente investigativo si fermò. La sua mente fu scossa da un’improvvisa scarica di adrenalina, aveva appena completato il puzzle. Strinse la mano fredda di John e, spalancando quegli occhi che avrebbero fatto invidia a quelli di una tigre siberiana, si voltò di scatto verso di Lui. Lo udì tossire di nuovo.

Non ti arrendere John” pensò Sherlock “ho capito dove siamo”.


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Salve a tutti, 
vi rubo giusto per dirvi che per dirvi che questo che avete appena letto, è il penultimo capitolo di questa faniction.
Lo so, non è lunghissima, ma è tutto intenzionale. Volevo creare qualcosa di... "concentrato": qualcosa di non troppo lungo ma carico a livello emotivo. Spero che l'ultimo capitolo non vi deluda. 
Nel frattempo vi ringrazio tanto per tutti i complimenti e il supporto che mi state facendo\dando. 

xx
Vivi

   
 
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