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Autore: Kiki S    05/09/2016    1 recensioni
Rachel è una ragazzina di quattordici anni.
Rachel ha ancora paura del buio.
Dopo quell'episodio notturno durante l'ultima gita scoltastica è diventata lo zimbello dell'intero istituto: le prese in giro e gli scherzi crudeli, ormai, sono all'ordine del giorno.
Rachel decide che non può far altro che giocare la sua ultima carta per riprendersi almeno la propria dignità.
Questa carta ha un nome: Zoe Collins.
Genere: Dark, Generale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Swallowed up in the sound of my screaming
Cannot cease for the fear of silent nights …
(Imaginary-Evanescence)                 
 
I
 
UN PESSIMO MODO PER FARSI NOTARE
 
Era stato tremendo.
Era stata l’esperienza peggiore che avesse vissuto. Ne avesse avuto il coraggio, se la sarebbe tolta con le sue mani, quella stessa vita insulsa.
Ricordava perfettamente com’era andata; aveva creduto di potercela fare, ma si era sbagliata.
Ormai si era condannata da sola ad anni futuri di scherno e umiliazione. In fondo era solo al secondo anno e nessuno avrebbe dimenticato quell’avvenimento così divertente: una ragazza di quattordici anni che urla, scoppia in lacrime e si urina addosso per lo spavento perché si è svegliata nella stanza buia di un dormitorio mentre la sua classe era in gita, non è certamente cosa che passa di mente. La vergogna di quella notte se la sarebbe portata dietro a vita, anche qualora le prese in giro fossero cessate; perché non si può temere l’oscurità a quattordici anni. Non più.
In camera sua teneva sempre una luce accesa, perché la sola idea di ritrovarsi al buio le dava i brividi. Ma durante quella gita della sua classe a Dublino non aveva potuto scegliere.
A dire il vero non se l’era nemmeno aspettato.
Quando si era addormentata non era buio. Non completamente: Judith e Nancy tenevano ancora accese le luci sui loro comodini; e i letti delle due ragazze si trovavano proprio vicino al suo.
Non sapeva dirsi perché, a ripensarci in quel momento non poteva far altro che darsi dell’idiota, ma aveva creduto che quelle due luci (non tanto forti, ma sufficienti per farla stare tranquilla) sarebbero rimaste accese tutta la notte. Eppure era ovvio che non sarebbe stato così.
Si era assopita tranquilla. Il problema era sopraggiunto quando, verso le quattro del mattino, aveva riaperto gli occhi.
Da un lato forse era stata colpa del letto diverso dal suo; un po’ era avvenuto a causa del sonno appena svanito che l’aveva lasciata intontita. Stava di fatto che si era sentita inghiottire dalla tenebre. E poi c’era stato quel … silenzio.
Era così profondo, così spettrale e inquietante. Un silenzio infinito, nel quale non sembravano esistere nemmeno i respiri.
Faceva anche freddo in quella notte di novembre e, con il buio che le gravava sugli occhi, le sembrava di essere approdata in un luogo di morte.
Fin da subito aveva iniziato a tremare, poi la suggestione aveva fatto il resto: le era sembrato di sentirsi toccare il braccio da una mano ghiacciata, ed era stato quello il momento in cui aveva iniziato a urlare.
Non se n’era nemmeno resa conto.
Aveva capito veramente ciò che aveva fatto soltanto quando ormai il panico era passato.
Ci erano voluti soltanto pochi secondi perché le varie lampade cominciassero a essere accese: le altre ragazze della sua classe, spaventate, erano state tutte svegliate dalle sue grida.
Qualcuna doveva essere corsa anche a chiamare la signora Todd, una delle insegnanti, perché Rachel all’improvviso se l’era trovata davanti mentre la stringeva per le braccia e cercava di farla rinsavire dal suo stato di follia.
Poi finalmente si era calmata; tremava ancora e aveva le guance imperlate di lacrime, ma aveva smesso di urlare.
Si era guardata intorno con fare a metà tra il terrorizzato e l’incredulo e si era vista tutte le compagne intorno al suo letto; la signora Todd le chiedeva se stesse bene, che cosa fosse successo.
Non era nemmeno stata in grado di provare a formulare una risposta.
Era stata Judith a dirlo ad alta voce: -Oddio, ragazzi, si è pisciata addosso! Sentite che puzza!-.
Dopo qualche momento utilizzato dalle altre per verificare l’affermazione della compagna, la classe intera era scoppiata a ridere fragorosamente.
Era stato in quel momento che l’aveva capito davvero: sentiva il pigiama zuppo e non si trattava di certo di sudore. La coperta che le arrivava fino alla vita evitava che l’urina si mostrasse sotto forma visibile, ma così era già abbastanza.
Nel frattempo la signora Todd aveva alzato la voce per sedare l’ilarità generale.
Poi le aveva parlato con calma: -Rachel, che cos’è successo? Che cos’hai?-.
Rachel l’aveva guardata spaesata.
-Ho paura-, aveva risposto con voce tremante. -Di che cosa?-, aveva domandato l’insegnante apprensiva.
A quelle parole era seguito qualche attimo di silenzio. Silenzio totale.
Nessuno più parlava, nessuno emetteva il minimo suono.
Pareva quasi che le ragazze stessero trattenendo il respiro.
Rachel non sapeva perché l’avesse detto; aveva avuto tutto il tempo per pensarci ed evitarlo, eppure quella frase era uscita comunque dalle sue labbra, come se godesse di vita propria: -Del buio-, aveva affermato, e anche a voce piuttosto alta.
Le risate sguaiate si erano propagate nuovamente per il dormitorio.
-Ma che cos’hai? Tre anni?-, aveva scherzato una voce non definita (non aveva visto chi aveva parlato, né aveva avuto il coraggio di chiederlo in seguito), dopodiché era stata invitata dalla signora Todd ad alzarsi (dovendo così mostrare la larga macchia d’urina lasciata sulle lenzuola e il suo pigiama bagnato) e questa l’aveva condotta fuori con sé.
Non aveva più avuto il coraggio di rimettere piede nel dormitorio né di farsi vedere dalle compagne; la mattina seguente (dopo aver passato quel che restava della notte con la sua insegnate e con la luce accesa) era stata chiamata sua madre affinché andasse a prenderla, ed era tornata a casa.
La gita della sua classe però durava soltanto due giorni, così a niente era valsa la sua disperazione in proposito: la scuola la aspettava di nuovo, e con lei ci sarebbero state le compagne.
E tutti gli altri.
Perché era difficile credere che una storiella del genere non avrebbe fatto il giro di tutto l’istituto, Rachel non si era mai fatta illusioni al riguardo.
Era ufficialmente finita. Bel modo per rendersi popolare, si era detta più volte, davvero una grande trovata.
E quei primi giorni di ritorno a scuola erano stati devastanti: tutta la indicavano, tutti la deridevano, i più audaci le sparavano contro battute a raffica.
Era stata rinominata la piscialletto oppure la mongola che ha paura del buio e sapeva che quelle attenzioni negative non sarebbero mai scemate; ma in fondo, anche se fosse avvenuto, che differenza avrebbe fatto? Non si può avere paura del buio a quattordici anni, non c’è ragione che tenga, e lei si odiava perché era diversa, perché si comportava come una bambina.
Non era mai stata benvoluta all’istituto, nemmeno prima che avvenisse il fattaccio: le compagne non la consideravano perché era strana, troppo chiusa, spaesata. Sembrava davvero trattarsi di una mocciosa di tre anni nel corpo di una ragazza di quattordici.
I ragazzi delle altre classi poi, quelli più grandi, ma persino quelli più piccoli, non l’avevano mai calcolata di striscio. Un conto però era passare inosservata, finire relegata nell’anonimato più squallido e desolante, tutta un’altra storia era essersi tramutata nello zimbello di tutti, dal primo al quinto anno.
E pensare che l’anno scolastico era cominciato da poco; come pensava di arrivare fino a giugno? E poi con che coraggio avrebbe proseguito gli studi negli anni seguenti? No, la cosa non poteva funzionare. Quella di togliersi la vita era davvero una grande, grande idea.
Semplicemente era di difficile attuazione, per lo meno per una fifona come lei: se aveva paura del buio, figurarsi che cosa poteva provare nei confronti di una lama affilata che le si affondava nel polso.
Era ufficialmente senza speranza.
Quel giorno poi era stato toccato il limite: la sua classe aveva lasciato l’aula per dirigersi in palestra in vista della lezione di educazione fisica, ma Rachel si era attardata un po’ di più all’interno dello spogliatoio: gravissimo errore.
Lì dentro non c’erano finestre e le simpatiche creature che godevano della sua umiliazione avevano ben pensato di spegnere l’unica luce che c’era all’interno.
Rachel si era spaventata, anche se non aveva faticato a capire che si trattasse di uno scherzo.
All’inizio aveva fatto appello a tutto il suo coraggio: si era seduta sulla panca dello spogliatoio, aveva chiuso gli occhi e respirato profondamente.
Fuori dalla porta sentiva provenire i risolini sommessi delle sue compagne di classe, eccitate e divertite profondamente dalla faccenda.
Si era detta che non c’era nulla da temere, niente di cui preoccuparsi. Quando non l’avessero sentita urlare o scoppiare in lacrime si sarebbero arrese e l’avrebbero lasciata uscire.
In quel momento, in quello scherzo crudele ci aveva visto anche qualcosa di positivo: se avesse dimostrato (almeno superficialmente) di non avere più paura dell’oscurità, forse le prese in giro sarebbero cessate, o comunque sarebbe girata la voce che, rimasta al buio, si era comportata come una persona normale, ma non aveva messo in conto la sorpresina.
Doveva essere stata Judith, perché lei era sempre stata la più spietata. Un giorno aveva portato a scuola una foto di sua sorella (che frequentava l’ultimo anno di quello stesso istituto) in cui la ragazza dormiva completamente svestita dopo una sbornia e, dopo averla mostrata con trionfo a tutta la classe, l’aveva persino appesa alla bacheca in corridoio, e questo era tutto dire.
La poveretta si era poi salvata dallo scherno generale soltanto perché era stata lesta ad accorgersi del misfatto e aveva eliminato la fotografia incriminante appesa dove tutti avrebbero potuto vederla.
Ma Rachel non sarebbe mai stata così fortunata; Judith (o chi per lei, molto probabilmente Judith) aveva chiuso la porta a chiave. Quando aveva sentito la serratura scattare il terrore aveva cominciato a nascerle dentro.
Fin da subito aveva cominciato a sentire di nuovo quella mano gelida che le toccava il braccio; ma quella volta non era soltanto una: erano dieci, cento, mille mani che le stavano addosso.
Invano aveva tentato di dirsi di stare tranquilla, così dopo neanche un minuto si era fiondata contro la porta e, urlando e piangendo, aveva scongiurato le sadiche ragazze di lasciarla andare, di liberarla, di smetterla di scherzare. Perché lei aveva paura aveva aggiunto.
Un’altra splendida mossa, non c’era che dire.
Sembrava che volesse darsi la zappa sui piedi da sola.
Le ragazze l’avevano lasciata chiusa nello spogliatoio ancora un paio di minuti, poi avevano aperto di colpo; Rachel era incollata alla porta con tutto il suo peso, così era scivolata subito in avanti, seguendo l’uscio che si spalancava, ed era caduta a terra.
Inutile aggiungere quanto questo le fosse valso un incremento delle prese in giro.
Le era sembrata la fine del mondo: si era ritrovata a terra, singhiozzante e terrorizzata, nel bel mezzo di un cerchio di ragazze che la guardavano dall’alto in basso, ridendo come matte.
-Cerca di non pisciarti addosso stavolta-, le aveva raccomandato una di loro (ancora non avrebbe saputo dire di chi si trattasse), sforzandosi di parlare placando l’eccesso di risa, poi se n’erano andate tutte, lasciandola sola.
Quando finalmente aveva trovato la forza di alzarsi, Rachel non aveva raggiunto le compagne in palestra. Era corsa fuori, verso il cortile, ed era andata a nascondersi nella parte più isolata di esso, sul retro della scuola, lì dove, guardando oltre il cancello, non si vedevano altro che capannoni abbandonati. 
Si era poi sforzata di ripresentarsi in classe soltanto per l’ultima ora, e l’aveva fatto solo per evitare che a qualche insegnante venisse in mente di telefonare a sua madre per dirle che non la trovavano più. Le ci sarebbe mancato solo quello e avrebbe potuto realmente pensare di buttarsi giù dal primo ponte disponibile. Forse sarebbe stata la soluzione migliore in ogni caso.
Ma se per certe cose il coraggio manca, c’è poco da fare.
Così, prima che la sua vita (che non avrebbe mai avuto il coraggio di togliersi) potesse dirsi ufficialmente finita, voleva tentare di giocare la sua ultima carta.
Aveva un po’ paura, ma era l’unica soluzione.
   
 
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