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Autore: Andy Black    06/09/2016    1 recensioni
Un uomo senza scrupoli dona ad un altro uomo senza scrupoli l'opportunità di tornare nel suo tempo, dal quale era stato bandito, imprigionato ed incatenato in una cella d'un tempio di mille anni prima. Lionell Weaves tornerà nel presente carico d'odio, pronto per consumare la vendetta che bramava da tempo nei confronti della figlia, oracolo e cristallo di Arceus, secondo le sue fonti. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: uccidere sua figlia Rachel e recuperare il cristallo di Arceus, da consegnare al malvagio Xavier Solomon. Tuttavia l'intera Unione Lega Pokémon avrà qualcosa in contrario e farà di tutto per fronteggiare la minaccia di un mondo senza un dio.
[Diversi personaggi][OldrivalShipping, CandleShipping, SpecialJewelShipping e tanto altro][Storia con linguaggio volgare e parti violente];
Buona lettura;
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Green, N, Nuovo personaggio, Silver, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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7. Cipria
 
- Kanto, Celestopoli
 
Aveva smesso di piovere da pochi minuti ma, a differenza di Biancavilla, Celestopoli non si era fermata un minuto. I Dexholder camminavano sui pulitissimi marciapiedi, dove non era stata gettata neppure una cicca di sigaretta. Tutt’intorno il vociare era quasi assordante.
Green, che viveva in un paese molto più tranquillo, rimaneva per qualche secondo a fissare in silenzio le cime degli alti palazzi, mentre Blue si fermava a guardare le offerte nelle vetrine delle boutique.
Il Centro Pokémon svettava alto e luminoso, sullo sfondo grigio di quella giornata uggiosa, mentre Allenatori dalle belle speranze correvano verso gli ingressi, con Pokémon in fin di vita e sfide da organizzare alla Palestra di Misty.
I quattro decisero di fermarsi a mangiare qualcosa alla mensa della struttura.
“Sto morendo di fame” commentò Red, vedendo Yellow sorridere gentile, come suo solito.
Seduti al tavolo, i ragazzi avevano smontato cappotti e giubbini, e poggiato le borse per terra.
Non Green. Lui aveva legato la cinghia della tracolla al bordo dello schienale della sedia.
Ordinarono un piatto di ramen caldo, che non aveva ovviamente l’appeal dell’arrosto.
“Ci riscalderà dall’interno” aveva detto Yellow. Lui si limitò ad annuire e ad assistere silenzioso agli scambi tra i tre, da esterno, palesando così il fatto che non volesse partecipare a quella riunione tra i pupilli di suo nonno.
Vedeva Red e Yellow mantenere un sorriso dolce e gioviale, tra di loro parve non esser mai accaduto nulla. E anche Blue era serena, al contrario suo, che pareva non riuscire a trovare pace.
E ovviamente il motivo aveva i capelli neri e gli occhi rossi; la presenza di Red lo indispettiva, così sereno, forse troppo, e quasi incolpava Yellow per il sorriso che mostrava fiero. Le zuppe arrivarono poco dopo, fumanti, in tegami di terracotta imbrunita. Red vi si avventò famelico, mentre gli altri tre mantennero dei toni più aggraziati.
Nella mente ancora quelle immagini orribili. Abbassò la testa, il vapore gli baciò il viso e nascosero per un attimo il suo sconforto, prima che la razionalità gli ricordasse che lui avesse bisogno che Red e Yellow fossero seduti lì: il cristallo era più importante di ogni altra cosa. Anche più del suo orgoglio.
Sospirò, spinse il vapore verso il centro del tavolo e per un attimo capì che non stesse adottando l’atteggiamento giusto.
L’orgoglio non era altro che aria. Come i sogni.
La gente doveva essere più concreta, e quella concretezza lo obbligava a stare seduto al tavolo dell’uomo che aveva distrutto legami d’amicizia sacri e ventennali. Per del sesso, poi, con la donna che aveva desiderato timidamente fin da ragazzino.
Non lo giustificava.
Pensava al cambiamento, rivedeva le immagini nella mente di quei due che si leccavano le labbra, guardava il ramen, sentiva la paura e la responsabilità e la necessità di quel bicchiere di whiskey che aveva promesso di non alzare più ma il cui vuoto bruciava come un marchio a fuoco, delle volte. Blue e Red avevano cominciato a parlare, il suo cuore però batteva così forte da superare il volume delle parole. Vedeva soltanto Yellow, che li ascoltava silenziosa, e che, di tanto in tanto, gli gettava un’occhiata.
Lo aveva fatto quattro volte, ma alla quinta rimase a fissarlo.
“Stai avendo un attacco di panico…” sussurrò, e quelle parole bastarono per far bloccare gli altri due. Tutti e tre guardavano l’uomo, che non si accorse di essere in balia delle emozioni.
“Mi serve un po’ d’aria…” fece, alzandosi a fatica. Sentiva il cuore battere sempre più forte, e la testa girava. Il respiro si faceva greve, gli occhi sbiadivano i contorni delle cose che guardava.
Yellow gli si avventò addosso, prima che lo facesse Blue, e lo fece appoggiare a lei.
“Lo porto a prendere una boccata d’aria”.
“No, Yellow, faccio io…” disse l’altra, afferrando il braccio del suo fidanzato. L’allontanò con una rapida mossa del bacino e accompagnò Green verso l’uscita.
E la bionda rimase lì, in silenzio, a guardare il suo fidanzato, ancora seduto. Le bacchette erano sfuggite dalla sua presa ed erano atterrate negli udon.
“Cosa?” si limitò a domandare quello.
Yellow annuì quasi impercettibilmente, accompagnando con un sospiro pesante ed eloquente.
Lo capiva.
Anche lei viveva quei momenti d’insicurezza e di fragilità, e l’aver rincontrato Blue aveva risvegliato quegli spettri che spesso l’avevano messa in ginocchio nel corso degli anni. E anche Green viveva quella storia con Red.
Non era sola.
 
 
- Adamanta, Primaluce, Casa Recket
 
Il vento soffiava più lieve, da qualche minuto a quella parte, e Rachel decise di uscire di casa e raggiungere suo marito, ancora alle prese col gazebo. Allegra correva alle sue spalle, inseguendo Arcanine.
“Credo che per oggi tu ti possa riposare…”.
Zack annuì, respirando a pieni polmoni. L’aria era fredda, la trachea bruciava. Calò lentamente il trapano utilizzando il filo, lo poggiò sull’erba secca e si avvicinò di qualche passo alla donna.
“Allegra, non correre…” disse poi, portando le mani ai fianchi. La felpa che indossava, sdrucita, era sporca di segatura.
“Sta venendo bene…”. Rachel guardava il gazebo, a braccia conserte, con la poker face migliore che avesse a disposizione.
“Menti” rispose suo marito, che alzò il cappuccio della felpa. Guardava Allegra avvicinarsi alla siepe, mantenendo un Wurmple sul dorso della mano.
“Non è vero” sorrise dolcemente l’altra.
“Spudoratamente”.
“Cioè… Ora è in fase embrionale, verrà su bene. Sappiamo entrambi che tutto ciò che tocchi si trasforma in oro…”.
“Certo… Che si mangia?”.
“Le patatine fritte?” urlò Allegra, raggiungendo subito i genitori., con gli occhioni azzurri spalancati.
“Non possiamo mangiare sempre patatine…” le rispose Rachel.
Allegra mise il broncio e sbuffò, e poi guardò suo padre. Il silenzio verdeggiò per pochi secondi, prima che l’uomo rapprendesse le labbra e sospirasse.
“Certo che però un bel piatto di patate…” ragionò Zack, facendo spalancare gli occhi alla moglie.
“Non potete mangiare solamente schifezze! E se lei sta avendo quest’atteggiamento è per via tua, che non ti sforzi nel darle il buon esempio!”.
La donna le puntò il dito sul petto ma l’espressione di Allegra non mutò minimamente.
“Tu non lo vorresti un bel piatto di patate?” protestò lui.
“Io sì!” riprese invece la bambina, prima che Rachel le mettesse una mano sulla testa.
“Assolutamente no! Oggi pesce e insalata! Per tutti quanti!”.
“Io non la voglio!” ribatté Allegra.
“Invece vedi di volerla, altrimenti niente più Pokémon!”.
Ma… papà!” esclamò, chiamando la cavalleria. “Il pesce non mi piace!”.
Zack sorrise e si accovacciò sulle ginocchia, prendendo le sue mani. “Invece è buonissimo. Servirà a farti diventare grande e forte. Proprio come la mamma”. Si avvicinò poi a Rachel e le baciò la guancia. “Mamma ha mangiato sempre tanto pesce e tanta insalata, e guarda com’è bella”.
Allegra rimase immobile, con le braccia conserte e il labbro inferiore pronunciato.
“Io una volta l’ho vista mangiare una crostatina…”.
Entrambi i genitori esplosero in una risata fragorosa. “Che capolavoro che abbiamo fatto…” sorrise la donna, molto divertita. Si abbassò verso di lei e catturò il suo sguardo. “E mangiare sano non significa non poter più fare uno strappo alla regola, una volta tanto”.
Allegra non mutava espressione.
“E diventerò bella come te?”.
“Diventerai proprio come me”.
 
 
- Kanto, Celestopoli, esterno del Centro Pokémon
 
“Un fottuto attacco di panico…”.
Green sorrise a mezza bocca, sbuffò, tirò dalla sigaretta che stringeva tra le labbra e mise le mani in tasca.
Blue era accanto a lui, infreddolita, rinchiusa in un abbraccio che si stava dando da sola. Il vento soffiava sui loro visi, consumando la sigaretta dell’uomo e spettinando la bella.
“Perché sei stato male?”.
“Non ne ho idea” rispose l’altro, continuando a guardare dritto. “Forse non ero pronto per questa cosa. E non venirmi a dire che siamo costretti dalle circostanze, perché loro ci servono eccetera... È come se avessi continuamente una pistola puntata alla tempia destra”.
Gli occhi blu della donna lo scrutavano, denudandolo di ogni sicurezza residua.
Sorrise leggermente. Non lo aveva mai visto così debole e senza difese.
Gli cinse il braccio e poggiò la testa sulla sua spalla.
“Puzzi di fumo”.
“Non me ne fotte”.
“Forse non dovresti fumare”.
“Invece dovrei”.
Blue storse le labbra.
“Sei sempre il solito”.
Piccole gocce di pioggia presero a cadere sulle loro teste.
“Questa giornata è nata storta”.
La sigaretta bruciava, le labbra carnose dell’uomo dagli occhi verdi stringevano il filtro e si allargavano per emettere una cortina di fumo, che s’elevava per un metro o poco più, prima di venire bucato da quei proiettili d’acqua gentili.
“Senza un po’ di pioggia la vita sarebbe troppo arida...”.
“Sai cosa intendo, donna”.
Quella ridacchiò. “Non chiamarmi così”.
Lui sorrise, di contro, poi afferrò la sigaretta tra l’indice e il pollice e prese un altro sorso. “Non credevo che vederlo mi avrebbe fatto questo effetto”.
“Beh, non sei morto, almeno...”.
Sbuffò, Green. “Non ancora”.
“E non succederà”.
Fumava ancora, lui. “So che ora come ora dovrei azzerare, ricominciare... dimenticare. Ma non è così semplice. Ci sono dei momenti in cui vorrei strappargli la testa dal collo. E anche a te”.
Blue abbassò lo sguardo, lasciando andare la presa dal braccio dell’uomo.
“Odio questa puzza di fumo”.
“Lo so. Ma ora ne ho bisogno”.
“Immagino. Rientriamo?”.
“No. Ancora un po’. Non ho ancora finito...”.
Riportò la Camel tra le labbra e aspirò quel veleno. Gli riempì i polmoni, distendendolo.
Poi un ombrello blu si aprì sulla sua testa. La donna gli mise tra le mani il manico in legno e quindi si voltò, in silenzio, sbattendo la porta alle sue spalle.
 
 
- Johto, Borgo Foglianova
 
“Ci vediamo, allora” aveva detto Crystal. Aveva poi smontato il camice bianco, quello con la manica sporca di succo di bacca, e lo aveva appeso al suo posto, accanto alla grossa credenza con le provette e i vetrini per il microscopio.
Il Professor Elm la salutò alzando distrattamente la mano, mentre Maris, la sua assistente, le aveva sorriso cordialmente. Aprì la porta e vide che una tempesta aveva cominciato a imperversare.
La visibilità era ridotta a tre, quattro metri, e ovviamente lei non aveva l’ombrello.
Non ne avrebbe chiesto uno al Professore. Non stava bene.
Quindi sospirò, si chiuse la porta alle spalle e afferrò le chiavi di casa, prima ancora di arrivare davanti al portone.
Un balzo e si trovò sotto il temporale. Correva rapida verso nord, superando il negozio d’alimentari aperto, accanto alla casa del vecchio signor Kaguya. Era un tipetto piuttosto arzillo, lui e Gold passavano parecchio tempo a parlare di una particolare ballerina che spesso compariva in televisione.
Lei non ci faceva caso, non ricordava neppure come si chiamasse.
Proseguì fino alla piazza centrale, cercando riparo sotto ai balconcini delle piccole case. Quando pioveva, quel paese si svuotava totalmente.
Casa sua non era lontana, la vedeva, a una cinquantina di metri o poco più, e decise di sprintare, stringendo con la mano destra la borsa, spingendola contro il fianco, e tenendo sempre pronte le chiavi in quella sinistra. Le sue ballerine affondavano in pozzanghere profonde, all’interno dei prati che delimitavano le stradine sterrate di Borgo Foglianova e che lei stava attraversando per evitare la polmonite.
Ma quando arrivò davanti alla porta era già inzuppata. E continuava a bagnarsi anche sotto la piccola pensilina, dato che il vento di qualche settimana prima aveva spostato una tegola. Aveva chiesto proprio a Gold di metterla a posto il giorno dopo ma lui aveva procrastinato più e più volte.
Del resto, di quella disciplina era un campione.
L’acqua quindi le cadeva sulla testa, e lei imprecava, cercando di infilare le chiavi nella toppa, senza mai riuscirci al primo colpo.
“Dannazione!”.
Quando poi la serratura scattò, spinse rapidamente la porta, venendo inondata dalla luce del suo salotto. Sbuffò, agitando le mani per asciugarle. Levò gli stivaletti di pelle neri, che a poco erano serviti contro le pozzanghere, dato che i calzini erano totalmente zuppi. Poi chiuse la porta e sfilò anche i pantaloni, rimanendo in slip sull’uscio.
“Che diamine…” disse, tra i denti, dopo aver sbuffato. Sciolse i capelli e sospirò, guardandosi attorno. Il salotto era silenzioso e soltanto l’orologio sul camino disturbava la quiete, coi suoi deboli ticchettii. La penombra respingeva qualsiasi prepotenza della fioca luce che proveniva dall’esterno, e regnava imperiosa sulla stanza.
Non che le spiacesse, ma Crystal aveva freddo; salì al piano superiore con flemma, rimuginando ad alta voce sulla tempesta, senza riuscire a capire quando quella giornata, partita con un sole bianco e pallido, ma pur sempre fisso sulla tela azzurra del cielo, avesse lasciato il posto al marmo e all’alabastro di quella tempesta.
Sapeva di esser sola, e quindi, arrivata fuori alla porta del bagno, levò la maglietta e sbottonò il reggiseno, cercando di asciugare il petto con una parte asciutta dei vestiti che aveva appena levato da dosso, anche se inutilmente. Entrò in camera, aprì il primo cassetto, quello delle mutande, e ne prese una, viola. Sculettò fino alla porta, prima di fermarsi e guardare il letto: era ben ordinato, con le coperte tese ed entrambi i pigiami piegati sui cuscini.
Prima di uscire per allenarsi, Silver aveva ordinato la stanza, il suo profumo aleggiava ovunque, rubandole un sorriso. Voleva averlo lì, ma lui non c’era, e quindi pensò che indossando un suo maglione avrebbe potuto spezzare quella nostalgia. Si avvicinò al suo armadio e lo aprì, venendo investita dal suo odore.
Lo amava.
Sulla mensola del guardaroba c’erano tutti i suoi pullover, ordinati per colore. Prese il primo della pila, grigio e morbido, e proprio mentre fece per chiudere la porta dell’armadio i suoi occhi furono rapita dalla figura nello specchio. La sua.
Guardava la propria figura nuda, i capelli bagnati, corti, che cadevano freddi sulle spalle e gli occhi azzurri, unici fari in quella stanza grigia. Pensò che si piacesse, prima di rendersi conto del freddo di quell’inverno, che la stava aggredendo. Quindi cedette al caldo abbraccio della doccia.
 
“Solo la pioggia, ci mancava!” aveva sbuffato Marina, al piano di sotto. La pioggia imperversava alle sue spalle, prima che col tallone sbattesse la porta d’ingresso. L’ombrello era servito a poco, i capelli color caramello erano totalmente bagnati. Abbassò la testa e vide le impronte bagnate segnare un percorso che portava alle scale.
Rimase per un attimo a rimuginare al fatto che né Crystal né Silver avrebbero mai lasciato il pavimento in quello stato, quindi portò le mani ai fianchi e sospirò.
“Gold!” chiamò.
Sentiva qualcuno canticchiare nella doccia, al piano superiore, con voce delicata e gentile. E a meno che non stesse facendo l’imitazione di Lauryn Hill, Gold non cantava in quel modo.
Neppure quando imita Lauryn Hill, in effetti… pensò la Ranger, sbuffando. Al pavimento avrebbe pensato dopo, quando i suoi capelli si sarebbero asciugati.
Arrivata davanti alla porta del bagno, le nocche batterono con fermezza.
“Crystal?”.
La doccia continuava a scrosciare, e copriva la voce della donna.
Sono Crystal, Mari…”.
La donna annuì, conscia che l’altra non potesse vederla, e si voltò, entrando silenziosamente nella sua stanza. L’aria era viziata, lì, leggermente dolciastra, dato che Gold non apriva mai le finestre. Il letto era totalmente sfatto, con le lenzuola in fondo al materasso e il caldo piumone gettato sul pavimento, interamente ricoperto di vestiti, sporchi e puliti, impilati in mucchi disordinati.
“Dannato…” sbuffò la giovane, sbottonando la camicetta bianca, partendo dal basso e sfilandola. La sistemò ordinatamente sullo schienale della sedia e slacciò il reggiseno, infilando una maglietta intima bianca. Sgusciò fuori dalla gonna senza aprire la zip e sgambettò nuovamente fuori alla porta del bagno.
“Crys! Aprimi! Devo asciugare i capelli o mi verrà un accidente!”.
Pochi secondi dopo quella la fece entrare, voltandosi subito dopo e mostrando la schiena nuda alla fidanzata di Gold.
“Scusami” disse quest’ultima, chiudendosi la porta alle spalle e facendo scattare la chiave nella serratura. Il vapore aleggiava e rendeva il piccolo servizio fumoso e caldo.
“Figurati” rispose l’altra, girando solo il viso sorridente. Rientrò nella doccia, nascondendosi dietro la tendina opaca, che lasciava intravedere la sua sagoma. Marina pensò che Crystal avesse delle gambe bellissime. Cancellò poi dalla testa l’immagine della coinquilina e prese il phon, accendendolo e cominciando ad asciugare i capelli.
 
“Ruby ha risvegliato Kyogre, quell’infame! Quanta pioggia!” esclamò Gold, spalancando la porta con un calcio e levando immediatamente le scarpe e il maglioncino, liberando l’addome tonico. Silver, che lo seguiva, rimase fermo per un secondo, guardando i passi bagnati di due persone che salivano al primo piano. Azzerò il respiro e poggiò una mano sulla spalla dell’altro.
Quello si voltò torvo, guardandolo con un grosso punto interrogativo sul volto.
“Cosa?”.
“Le ragazze sono sopra”.
Gold inarcò un sopracciglio e sospirò. “Non ci voleva molto per capirlo, Poirot... Lì c’è la borsa di Marina e Crystal è più precisa del ciclo di Margaret Thatcher, e a quest’ora di solito è a casa” rispose. Gettò la maglietta sul bordo delle scale e calciò via le scarpe, facendole finire accanto al divano, alla sua destra.
“Ho fame, mangerei un brontosauro...” fece poi, andando verso la cucina e aprendo il frigorifero. Lo fece lentamente, perché ogni volta che tirava forte il maniglione del frigo le calamite più pesanti cadevano per terra. Spesso si rompevano e Crystal ci rimaneva male.
 
“Sono ricordi!”.
“Questi ricordi non possono cadermi sui piedi ogni volta che voglio una birra!”.
“... Stavi prendendo una birra, ora?”.
“No. Ora prendevo il latte. Perché?”.
“Perché sono le nove e mezza del mattino, Gold. Se avessi preso una birra adesso avrei ragione a pensare che tu sia un alcolizzato”.
“Oh, se stessi prendendo una birra alle nove e mezza del mattino sarei Surge... Ma non sono Surge. Cazzo, se fossi Surge sarei biondo. Come starei, da biondo?”.
“Imbecille...”.
“Sarei tipo come ora, ma Super Sayan!”.
 
I discorsi tra i due cominciavano e finivano sempre in quel modo.
Prese la Pepsi Cola e si attaccò alla bottiglia, prendendo due grosse sorsate e ruttando rumorosamente. Chiuse poi il frigorifero con l’anca, e una calamita presa a Ponentopoli cadde sul pavimento.
“Fanculo”.
“Sembri appena uscito da Oxford...” commentò Silver, sospirando e portando le mani ai fianchi bagnati. “E sono sorpreso che tu sappia chi sia Margaret Thatcher”.
“Già. Beh, non sorprenderti, so un sacco di cose… mi servono per fare riferimenti semi-offensivi contro le persone”.
“Interessante...”.
“Ho un catalogo enorme”.
“Lo immagino” concluse Silver, levando la maglietta a sua volta e voltandosi, salendo le scale e lasciando il ragazzo dagli occhi dorati da solo.
“Oh, no...” sorrise il ragazzo. “Non immagini nulla”.
 
- Adamanta, Collina Miracielo, Il Promontorio -
 
“Tra un po’ verrà a piovere...”
L’ombrello di Linda era color cipria. Uscendo dagli uffici della Omecorp aveva visto il cielo minacciare tempesta e si era premunita. Avevano diviso un taxi che li aveva portati fino alla stazione centrale di Primaluce. Questa era davvero piccola, ma ben curata, come tutto il paesino del resto; Una grande ringhiera di ferro battuta, elegante, quasi artistica, in estate era totalmente ricoperta dei fiori viola di una grossa pianta di glicine. Quell’inverno però il freddo aveva mangiato i colori del rampicante, lasciando soltanto rami secchi a coprire le barriere.
Presero un biglietto per Miracielo, pagò lei, con la paura di non sapere come tornare a casa, e una volta scesi dal treno Lionell si avviò con passo svelto verso la strada in salita che portava verso la collina. Per l’intero tragitto furono aggrediti dal vento, Linda giurò di aver percepito qualche gocciolina baciarle il viso.
Ma la tempesta non si scatenò.
Una volta arrivati sulla cima misero piede nella piazzetta. Una ventina di panchine, altrettanti lampioni – spenti – e una grande fontana che zampillava acqua congelata proprio nel mezzo. C’era solo una coppietta di tredicenni, che si baciavano dolcemente appoggiati alle balaustre che proteggevano dalla caduta nella valle. Lionell li guardò per un secondo, sorridendo lievemente e pensando che avessero marinato la scuola, per essere lì.
Andarono nella direzione opposta, per non disturbarli. Il nord della regione di Adamanta era davanti a loro, e dall’alto della collina riuscirono a vedere la tempesta abbattersi sulle tremila anime di Miracielo. Lionell sorrise, guardando la furia di quello spettacolo.
“È incredibile...”.
“Perché siamo qui?”.
L’uomo sorrise, impettito. Il vento faceva svolazzare la coda del suo soprabito nero.
“Tempo al tempo”.
E per una terza volta, il sorriso si allargò sul suo volto.
“Cosa c’è che ti fa ridere così tanto?” chiese lei, stringendosi nelle spalle. Lionell fece cenno i no con la testa e poi guardò in alto.
“La bufera...” indicò con un cenno del capo. “Arceus sembra furioso. Piove forte... sembra una di quelle tempeste che spesso mi svegliava quando ero prigioniero, mille anni fa. Se ripenso che sono passati soltanto pochi giorni da quando...”.
Non completò la frase; si limitò a voltarsi, quello, guardando la grande montagna che imperava maestosa alle loro spalle, a distanza. Attorno alla cima vi era una corona scura di nuvole.
“Spesso piove, lassù, Linda... Durante gli anni che ho passato in quella cella ho visto il sole soltanto tredici volte...”.
Sorrise ancora, chiudendo gli occhi ed enfatizzando, facendo cenno di no con la testa. “Tredici volte”.
La donna rapprese le labbra e guardò in basso. Pensò che non dovette esser stato facile rimanere lucidi, soprattutto quando non si aveva più speranza.
“C’era una guardia...” continuò Lionell, alzando gli occhi al cielo. “Questa guardia era più gentile delle altre. Vedi, i Templari sono uomini duri e senza scrupoli, e vivono la propria vita per servire Arceus e appagare il proprio senso del dovere nei confronti dell’Oracolo del tempio. Di tanto in tanto, soprattutto la notte, riuscivo a scambiare quattro parole con lui, si chiamava Tullio, aveva le lentiggini, era molto giovane...”.
“Ti avrà aiutato a non perdere la ragione, parlargli...”.
“Assolutamente. Non succedeva sempre e non nascondo che ormai vivevo per questo, e aspettavo con ansia che scendesse la notte, solo per quel quarto d’ora d’umanità”.
“Un quarto d’ora” fece l’altra, inarcando leggermente le sopracciglia e addolcendo lo sguardo.
“Mi bastava poco. La mia giornata era pressoché sempre uguale, incatenato con la faccia contro la parete, trenta frustate quando veniva sera, il sale che bruciava le ferite e le urla. Tutto nel nome dell’essere più stronzo che abbia mai mosso la mente umana...”.
“Arceus”.
“Già. Una notte chiesi a Tullio come mai piovesse sempre. E lui mi disse che non fosse così, che piovesse soltanto lì, sul tetto del tempio, perché pieno di peccatori. E pioveva veramente forte, l’acqua spesso mi bagnava i piedi, o la schiena, quando le guardie erano più generose e mi permettevano di non dormire in piedi. Tullio mi diceva che era quella pioggia a lavare l’anima dei blasfemi e dei peccatori, delle prostitute e degli assassini, e più forte era la tempesta, più grande era lira di Arceus, determinato a pulire l’anima dei prigionieri da ogni peccato”.
Linda non sapeva cosa dire. Rimase in silenzio, fino a quando una goccia di pioggia le si infranse sul morbido labbro inferiore. Leccò via l’acqua con la lingua e aprì rapidamente l’ombrello, includendo sotto il suo abbraccio anche Lionell.
Quello continuava a guardare il paesino al di sotto della continua, sorridendo.
“Si vede che tra la poche persone che abitano Miracielo, ci dev’essere qualche peccatore. Del resto chi non ha peccato...”.
“Scagli la prima pietra...”.
“Nessuno potrà mai dichiararsi non peccatore. Perché hai peccato già col fatto di esser nato, frutto dell’unione peccaminosa dei tuoi genitori. Tu sei figlio del peccato, tu sei un peccatore, è la tua natura”.
“Non credevi alle parole di Tullio”.
“Non l’ho mai fatto. Neppure per un minuto”.
“E hai fatto bene” s’inserì qualcun altro, prima che la luce di un lampo illuminasse i loro volti. Quello di Linda era inquieto, mentre Lionell pareva felice. Sorrideva, e non si curava del fatto che il mondo attorno a lui pareva affogare nella bufera. Si voltarono immediatamente, vedendo un uomo misterioso, alto e snello, dai capelli biondi ben pettinati e dai profondi occhi rossi. Era chiuso in un lungo soprabito di pelle, nero, proprio come i boots che aveva ai piedi.
“Xavier...” disse Lionell, avanzando e scappando dalla protezione dell’ombrello.
Pioveva su di lui, pioveva sull’uomo dagli occhi rossi. Rimasero a pochi metri l’uno dall’altro, con Linda immobile al suo posto che assisteva alla scena. Si chiedeva dove fossero andati a finire i due ragazzini che si baciavano, dall’altra parte del promontorio.
“Lei dev’essere Linda” tuonò l’uomo misterioso, facendole spalancare gli occhi. “Conosce, cosa ti è successo?”.
Lionell annuì. “Certo. Linda è a parte di tutto. È la mia più fedele collaboratrice”.
Xavier sorrise e si avvicinò lentamente a lei, muovendo sette passi verso le balaustre. Poté ammirare la pelle diafana della donna dall’ombrello color cipria, gli occhi verdi e le labbra rosee e carnose. Lei rimaneva immobile a fissare lo sguardo fiammeggiante dell’uomo. Non sembrava attratto da lei ma dal suo sguardo.
“Hai paura?” domandò poi, divertito.
Gli occhi da cerbiatta di Linda scapparono, inseguiti dallo sguardo inquisitore dell’uomo dalla giacca di pelle nera.
“Non rispondi?”.
“Sì. Ho paura”.
Rise, Xavier, voltandosi e tornando accanto a Lionell.
“Fa bene...” sussurrò, facendo in modo che soltanto l’altro potesse sentirlo. “Che ti serve?”.
“Uomini...”.
“Uomini? Non puoi comprarteli da solo? Non eri ricco?” replicò l’uomo dagli occhi rossi, alzando il volto verso la pioggia, noncurante.
“Sono passati diversi anni e la Omecorp non è stata gestita a dovere...”.
Xavier abbassò il viso e lo guardò.
“È stata lei?”.
“È stata lei. Mi servono uomini. Senza mercenari non riuscirò a raggiungere il nostro obiettivo”.
L’altro passò le mani tra i capelli e li tirò indietro.
“E quanti te ne servirebbero?”.
Lionell si voltò e guardò Linda, che avanzò lentamente.
“Quanti uomini ci servirebbero?” le domandò. Quella lo affiancò, facendogli spazio sotto l’ombrello.
“Mille”.
“Mille uomini?!” esclamò Xavier, divertito.
Lionell annuì, con l’acqua che gli colava dal mento. “Mille uomini”.
Xavier fece cenno di no con la testa. “Voi siete quel tipo di persone che credono che la quantità sia meglio della qualità. E io vi insegnerò che sbagliate. Non vi darò mille uomini. Ve ne darò tre”.
“Tre?!” esclamò Linda, stringendo con vigore il manico dell’ombrello.
“Anzi. Ti darò qualcosa di gran lunga migliore di tre uomini”.
Lionell e la donna si stringevano sotto l’ombrello. Non capivano bene di cosa stesse parlando Xavier. Rimasero giustamente in silenzio per permettergli di completare la frase, e lo guardarono come per spingerlo a farlo.
“Voltatevi”.
Un lampo cadde proprio lì accanto, e squarciò il cielo, lasciando che la pioggia cadesse ancor più pesante. Il tuono li assordò e quando ruotarono sul proprio asse si spaventarono, alla vista di tre donne, messe in fila, a un metro esatto di distanza l’una dall’altra.
“Donne?” chiese Lionell, accigliato e poi divertito.
“Sì” annuì Xavier.”Tre donne provenienti da universi incredibilmente violenti...”. L’uomo si mosse poi molto lentamente in loro direzione, avvicinandosi alla prima. Come Xavier, né lei né le altre sembravano turbate dalla pioggia, anzi. L’acqua bagnava il suo viso di porcellana, delicato, e impregnava i capelli, di quel castano chiaro che Linda spesso aveva voluto testare.
“Lei è Jasmine” continuò. “La Capopalestra di Olivinopoli”.
Indossava un pantalone cargo color verde militare, con l’aggiunta di una grossa giacca di pelle nera e un paio di doppi stivaloni dall’alta suola di gomma. Manteneva la mani stese lungo i fianchi stretti e fissava dritto davanti a sé.
La cintura che le girava attorno alla vita sottile conteneva tre Pokéball lucenti.
Il fatto di avere davanti agli occhi quella donna sconvolgeva Linda e Lionell, e Xavier lo capiva dal loro sguardo.
“Ovviamente non è la Jasmine che conoscete voi, ma quella dell’Universo Kappa…”.
“Universo… Kappa?” continuò la donna con l’ombrello tra le mani. Un altro tuono la fece sobbalzare, mentre la pioggia batteva radente sulle piastrelle del promontorio.
“Non perderò tempo a spiegarti cos’è, ma ti posso dire che lì il Team Rocket ha conquistato Johto. La piccola Jasmine, dapprima capo di una minuscola cellula della resistenza popolare, ha fatto di Olivinopoli una fortezza inespugnabile, da cui è partito il piano di liberazione della regione…”.
“Una donna di carattere” sorrise Lionell.
“No, una terribile genocida: da liberazione che doveva essere, Jasmine la trasformò in una campagna di conquista. Sette settimane dopo, Johto era sotto il suo dominio”.
“Dalla padella alla brace, in pratica”.
“Peggio, perché questa donna è senza scrupoli. I Domadraghi di Ebanopoli hanno provato a fermarla, quando la sua armata ha attraversato la Via Gelata, la notte di Natale. Il suo impeto ha provocato la distruzione dell’intera città, e la strage di innocenti più grandi che quel posto avesse mai visto”.
“È una dittatrice…” sospirò Linda, fissandola attentamente. I suoi occhi erano leggermente intimoriti.
“Sì. Ma è anche una vera guerriera, e una psicopatica. Diciamo che…” ridacchiò Xavier, infilando le mani nelle tasche, per poi continuare. “… beh, sì, diciamo che non ha proprio tutte le rotelle al proprio posto. Ha commesso migliaia di omicidi e distrutto l’intera porzione orientale di Johto. Non lasciatevi ingannare dalla dolcezza del suo viso. Passiamo avanti?” domandò poi a Lionell, che annuì serio.
“Passiamo avanti. Il secondo gioiello che ho per voi viene dall’Universo Z”.
“Questa è Sandra” continuò il capo dell’Omega Group. “Capopalestra di Ebanopoli…”.
“Esattamente”.
Gli occhi di Linda analizzarono per bene anche lei, e si focalizzarono sul corpo deperito e le guance scavate sul viso di quella che doveva essere una delle donne più forte e rappresentative dell’intera Unione Lega Pokémon. Gli occhi erano spalancati, e vene rosse di sangue partivano dalle iridi, inquinandole lo sguardo, nascosto parzialmente dalla frangetta di quell’insolito color turchese, di quel carré spettinato e a tratti deturpato. Guardò poi le mani della donna, con la pioggia che lavava macchie incrostate di sangue dalla mano destra, orfana di due dita.
L’altra mano stringeva una singola unica Pokéball, da cui grondava altro sangue. Niente cinturone attorno alla vita, soltanto un’unica sfera, stretta con energia.
“Anche nel suo universo la sua città non ha fatto una bella fine: è l’unica superstite della sua città, l’unica persona rimasta in vita tra la sua gente. Li ha visti morire tutti”.
Al contrario di Jasmine, sul volto di Sandra vi era paura. Mosse rapida gli occhi verso Lionell, che s’impressiono e indietreggiò di un passo. Guardò con paura la cicatrice sulla guancia destra che le deturpava il volto.
“Questa versione di Sandra è un’abile ladra, dotata d’istinto omicida e alta resilienza. Sandra saprà gestire al meglio situazioni estremamente complicate, con la sua aggressività. Non statele troppo vicino, e non abbassate la guardia: è una sociopatica. E poi abbiamo il fiore all’occhiello…” continuò Xavier, scalando verso l’ultimo dei suoi regali.
“Lei la consociamo” sorrise Lionell. Xavier annuì, portando ancora indietro i capelli fradici.
Linda poté poggiare lo sguardo su quella che era certamente una copia malriuscita di Fiammetta Moore, dai capelli lisci e molto lunghi. Coprivano lo sguardo cinabro e il sorriso incontrollato e intermittente, compulsivo, orfano di un premolare. Somigliava alla bellissima Capopalestra di Cuordilava soltanto per il volto, perché il corpo era smunto e scarno, coperto abbondantemente dal maglioncino beige. Le maniche erano troppo lunghe, insanguinate verso la punta, e contenevano i pugni della donna. La pelle del volto era chiazzata da macchie scure
“Un vero e proprio angelo della morte, dall’Universo M”.
“Qual è la sua storia?” domandò Linda, che continuava a stare immobile. Xavier annuì, perché conosceva quella risposta, e sorrise.
“In realtà è più semplice di quello che dovrebbe essere: questa donna è semplicemente folle. Pazza, indisciplinata e autolesionista. Ovviamente è una piromane”.
Lionell sorrise, abbassando il volto.
“Ovviamente” ripeté.
“I suoi Pokémon hanno dato fuoco a intere città e incenerito persone innocenti…”.
“È incredibile la differenza. Qui, Fiammetta Moore è…”.
“Lo so, è una donna bellissima. Nel suo universo il Team Magma ha vinto la battaglia contro il Team Idro, e ha allontanato Hoenn dal mare per diverse migliaia di chilometri. Sono morte molte persone e lei è stata ovviamente catturata…”.
Xavier poi si voltò, guardandola per un secondo. La pioggia rovinava il silenzio.
“È stata stuprata e torturata, ed è diventata la cavia di esperimenti biomedici che l’hanno trasformata in un mostro. La bellezza di questa donna sta nella sua forza: non ha una rotella in testa ma è riuscita a scappare e a dar fuoco al centro di redenzione dove la tenevano prigioniera, e da lì non sono mai riuscita a fermarla. Quando ha una sfera tra le mani, bisogna stare lontani da lei”.
Linda rimase immobile, col braccio destro a tenere l’ombrello e il sinistro a stringere la tracolla della borsetta. Era immobile.
“Non ti vedo convinta” ribatté Xavier Solomon, inclinando la testa e sorridendo.
“Le hai descritte come delle schizofreniche, delle sociopatiche… Come mai ora sono calme?”.
Annuì nuovamente, Xavier, voltandosi e muovendo ampi passi verso Jasmine.
“Voltati…” fece poi. La condottiera eseguì rapida e rimase immobile, mostrando ai due la treccia, le spalle strette e il fondoschiena tonico. Xavier poi la colpì con una manata al fianco.
“In ginocchio” ringhiò, e la vide abbassarsi rapida sui sanpietrini.
Le afferrò la treccia e la tirò in su. Era doloroso ma la donna non faceva una piega.
Lionell aguzzò la vista, vedendo un piccolo punto scuro dietro al collo.
“Ma… è…”.
“Un chip. Una piccola macchinetta di mia creazione che stimola il rilascio di endorfine e che le tiene calme, oltre a renderle totalmente soggiogabili al mio volere. E al vostro. Sono programmate per fare ciò che volete voi… Ma…” ridacchiò ancora. “Io non mi fiderei troppo…”.
Lionell sorrise e sospirò, guardando poi Fiammetta e rimanendo affascinato dagli occhi spiritati di sangue di quella. Stringeva i pugni con forza, il sangue colava sul pavimento e spariva nell’acqua che cadeva dal cielo.
“Ora hai quello che ti serve” tuonò Xavier. “Non mi deludere”.
Un lampo accecò i loro occhi e un secondo dopo quello era sparito.
 
   
 
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