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Autore: Adeia Di Elferas    08/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ormai la notizia dell'imminente matrimonio tra Giovanni Sforza e Lucrecia Borja era di dominio pubblico.

L'attesa stava crescendo in tutte le corti d'Italia, ognuno aspettava di conoscere i dettagli della cerimonia, di sapere come sarebbero stati vestiti gli ospiti e gli sposi e in molti stavano già avanzando critiche sulla figura dimessa dello sposo, che di certo avrebbe sfigurato dinnanzi alla più ricca ed elegante giovane dama d'Italia.

Giovanni, che pure aveva visto scorrere nuovo danaro nelle sue casse, negli ultimi tempi, grazie alla condotta e all'alto grado nell'esercito milanese che il papa gli aveva procurato – o meglio, comprato – non si sentiva per nulla pronto a confrontarsi con l'opulenza della corte romana, men che meno con quella dei Borja.

Il signore di Pesaro si era sentito tanto in difficoltà da abbassarsi a chiedere in prestito al Marchese di Mantova, fratello della sua prima moglie, una collana d'oro degna di quel nome. Francesco Gonzaga, spinto soprattutto dalle parole della moglie Isabella Este, che sentiva nei confronti degli Sforza una profonda parentela, da quando la sorella era moglie del Moro, aveva accettato e aveva spedito subito il prezioso monile a Giovanni. Tra le altre cose, aveva pensato il mantovano, gli avrebbe fatto comodo avere quel credito nei confronti del futuro genero del papa.

La data delle nozze effettive non era ancora stata fissata, ma quel 2 febbraio a Roma si stavano tenendo quelle per procura.

Se alcuni diplomatici e cortigiani in Vaticano, mentre Nicolò da Saiano vestiva metaforicamente i panni di Giovanni Sforza durante la cerimonia, dicevano che quel matrimonio non aveva ancora valore ed era tutto un gioco di Alessandro VI per confondere le acque, chi era più vicino al papa sapeva che non si trattava di una messinscena.

Adriana Mila, scavalcando per un momento il ruolo di Giulia Farnese, che normalmente faceva da seconda voce di Lucrecia, si intrometteva, in quei giorni, in tutte le visite che la novella sposa riceveva.

Se tutti sapevano che Lucrecia aveva nelle sue mani il cuore del papa, tutti sapevano anche che la bella Giulia Farnese sapeva come influenzare le preghiere che la giovane muoveva al padre. Adriana Mila, in qualità di amata suocera della bella Giulia, poteva a sua volta influenzare la nuora e così in molti accettavano di buon grado di passare per le sue mani, nella speranza che ella potesse per vie traverse far arrivare la richiesta a Rodrigo.

Finanche il Vescovo di Modena andò a far visita alle donne del papa, per perorare di nuovo la causa del secondo figlio del Duca d'Este, Ippolito, che non riusciva a trovare il varco per arrivare al cardinalato. Il religioso si prostrò davanti alla Borja e alla Mila, ma parlò più lungamente con Adriana che non con Lucrecia, e ne ottenne dalla seconda un sorriso per tutto il tempo, incoraggiante, e dalla prima la ferrea promessa: “Ad ogni modo, lo faremo Cardinale.”

Giovanni riceveva notizie frammentarie di tutti questi maneggi, ma erano sufficienti per farlo sudare freddo e ritenere quel 'magari le nozze le si terranno in aprile' una sorta di condanna.

 

Una lettera succinta, ma precisa, annunciò a Caterina che sua sorella Bianca e il suo doppiamente cognato Tommaso Feo sarebbero arrivati in Forlì nel giro di pochi giorni, per sbrigare le formalità del caso e poi sarebbero risaliti a Imola.

Avvicinandosi il momento in cui avrebbe incontrato di nuovo Tommaso, Caterina si era fatta più nervosa del previsto. Non voleva più aspettare per la questione di Bernardino e così aveva detto a Giacomo che il loro bambino sarebbe stato allontanato dalla rocca immediatamente.

“All'inizio sarà una cosa graduale – aveva spiegato – passerà parte della giornata qui e parte dalla famiglia che ha accettato di tenerlo presso di sé. Lui sa che io sono sua madre e sta per entrare in un'età in cui potrebbe tradirsi troppo facilmente...”

Inoltre, pensò la Contessa, gli altri suoi figli sapevano benissimo che Bernardino era un loro fratellastro e il rischio che la loro insofferenza nei suoi confronti diventasse tale da portarli a qualche gesto sconsiderato sarebbe cresciuto col passare del tempo.

“E come hai giustificato il fatto che mio figlio starà da loro?” domandò Giacomo, piccato.

“Ho detto loro che per un padre da solo come te non era più fattibile tenere un bambino qui nella rocca e loro hanno accettato di buon grado di darti una mano.” disse in fretta Caterina, ricordando però come la coppia che aveva scelto avesse dimostrato una certa riluttanza, sentendo il nome di Giacomo.

Solo quando lei aveva spiegato che avrebbe considerato quel favore come un piacere fatto a lei personalmente, avevano sciolto tutte le loro riserve.

“Lo sai che non ci sono altre soluzioni.” soffiò la Contessa, con una sospiro appena udibile.

Erano al Paradiso e si stava facendo sera. La neve aveva reso impossibile qualunque attività, quel giorno e così, una volta ricontrollati i libri contabili e sbrigata la corrispondenza, Caterina aveva raggiunto il marito nel loro angolo privato di mondo e aveva preso il toro per le corna.

“Se Bernardino restasse qui, tutti capirebbero che è nostro figlio, prima o poi.” riprese la Contessa.

“E allora? Usciamo allo scoperto e basta. Diciamo a tutti che siamo sposati, che sono tuo marito, che tu sei mia moglie, e che non se ne parli più.” sbottò Giacomo, slacciandosi con gesti secchi il laccetto del giubbotto.

Anche se fuori nevicava, il giovane aveva sempre più caldo, man mano che la conversazione andava avanti.

“No.” fece Caterina, grigia in viso, le mani l'una nell'altra, seduta sul letto con la compostezza di una penitente.

“Perché?” la incalzò Giacomo, gettando il giubbotto di raso da un lato e cominciando a misurare a lunghi passi la stanza: “Che cosa rischiamo, a questo punto?”

Caterina teneva le mani l'una nell'altra, un'espressione neutra in viso, per non tradire la sua irritazione. Le sembrava impossibile che Giacomo proprio non capisse la loro situazione. Era semplicemente agghiacciante sentirlo fare proposte che mettevano in bella vista la sua totale mancanza di visione d'insieme, la sua incapacità di valutare il tutto con il filtro della ragion si Stato e non solo dei sentimenti.

“Finché tutti mi credono vedova – iniziò Caterina, tenendo la voce bassa – possono anche scusarmi un amante, perché legalmente sono libera e possono comunque pontificare su di me, immaginandosi di proporre questo o quel pretendente o comunque di potermi spaventare, se necessario, essendo io una donna sola.”

Giacomo si era fermato e ascoltava, cercando di capire il ragionamento della moglie, per quanto la collera lo rendesse sordo alla maggior parte delle parole che udiva.

“Se però scoprissero che ho un marito, giovane e in salute, stai pur certo che tutti i Riario e i Della Rovere che esistono spunterebbero come funghi e si ricorderebbero che le mie città, per quanto abbastanza autonome, fanno comunque parte dello Stato di Santa Madre Chiesa e convincerebbero il papa a destituirmi, pretendendo giustizia per Ottaviano, che diventerebbe un loro pupazzo. Io verrei uccisa o reclusa e a te non spetterebbe una sorte migliore.” disse la Contessa, impassibile: “E se per caso il papa non volesse o non riuscisse a fare un colpo di mano, allora stai certo che troverebbero il modo di ammazzarci come bestie in una congiura, quando meno ce lo aspettiamo, a dispetto di tutte le spie e le guardie del mondo.”

Quelle parole risvegliarono in Giacomo la paura provata il giorno in cui era stata scoperta la congiura di Tossignano. I suoi occhi saettarono verso la moglie e le sue mani si strinsero a pugno lungo i fianchi.

Gli sembrava tutto tanto assurdo e confuso, da non riuscire a vedere una via d'uscita accettabile. La proposta di Caterina, allontanare Bernardino dalla corte il più possibile, forse era davvero una buona idea, ma Giacomo non riusciva a comprendere fino a che punto fosse dettata dalla prudenza.

“Tu lo volevi, vero?” chiese, facendosi più vicino alla moglie: “Nostro figlio. Tu lo volevi? Dimmi la verità.”

Caterina tutto si sarebbe aspettata, tranne quell'insinuazione. Punta sul vivo, sentendosi messa sotto ingiusta accusa, fece per alzarsi e andarsene, ma Giacomo le si parò davanti, convincendola con un gesto a rimettersi seduta. Il giovane si inginocchiò davanti a lei e restò in attesa di sentire la risposta alla sua domanda.

La Contessa non voleva rispondere, oltraggiata da quella che era a tutti gli effetti una mancanza di rispetto, ma alla fine cedette e confermò: “Certo che lo volevo.”

Giacomo tirò un sospiro di sollievo e prese una mano della moglie tra le sue. Erano lisce e morbide, non le mani di un uomo che lavorava.

“Davvero allontanarlo da noi è l'unica cosa che possiamo fare?” domandò il Governatore, per nulla convinto, ma deciso a suonare accomodante.

Caterina ritrasse la mano: “Se hai un'idea migliore, che non ci metta tutti quanti in pericolo, esprimila.”

Giacomo si rimise in piedi, incrociò le braccia sul petto e sporse il mento in fuori, arrovellandosi sul quel punto. Non poteva nemmeno pensare a come sarebbe stato, allontanarsi da suo figlio a quel modo, ma non voleva neppure rivivere l'angoscia che aveva provato nello scoprirsi in pericolo di vita per colpa di una congiura. Così non si risolse in alcun modo, perciò alzò un po' le spalle e concesse alla moglie di procedere con il suo piano d'azione.

“Fino a che non troverò una soluzione migliore.” concluse Giacomo.

Caterina non sottilizzò troppo sul tono paternalistico che il marito aveva usato per l'ultima precisazione, limitandosi a commentare a denti stretti: “E comunque per tutti resterà un figlio tuo, sono io quella che ci rimetterà di più...” e passò a istruirlo su cosa dire esattamente a chi gli avesse chiesto notizie di Bernardino in futuro.

 

Bianca Landriani si tolse i guanti foderati di pelliccia e strinse gli occhi verso il profilo della città di Forlì.

Suo marito aveva insistito per lasciare i loro bagagli già a Imola, e lei ne era stata felice, perché ciò stava a significare che Tommaso non aveva alcuna intenzione di fermarsi alla rocca di Ravaldino più dello stretto necessario per prendere i documenti e ricevere la nomina a Governatore.

Che avesse così deciso perché insofferente all'idea di rivedere Caterina o perché temesse di cadere in tentazione, poco importava.

L'unica cosa che a Bianca dispiaceva un po' era che avrebbero dovuto probabilmente cavalcare anche di sera e di certo Tommaso, almeno al ritorno, non avrebbe voluto passare di nuovo da Faenza, per non dovere pagare due volte il pedaggio.

“Avanti.” fece l'uomo, spronando il suo cavallo, dopo essersi fermato un istante accanto alla moglie a rimirare da lontano le mura della città.

La loro piccola scorta, formata da qualche guardia che li aveva seguiti da Imola su ordine di Gian Piero Landriani, li precedette in città, dando risalto al loro ingresso più di quanto i due avrebbero voluto.

Caterina li aspettava sulle merlature di Ravaldino, ben decisa a far sì che il loro incontro non avvenisse davanti a troppi occhi indiscreti. La notizia del ritorno di Tommaso Feo si era sparsa a macchia d'olio e in molti fin dal mattino si erano sistemati davanti alla rocca in attesa di assistere a quel momento tanto atteso da tutti i pettegoli di Forlì.

Quando vide i cavalli avvicinarsi, Caterina scese dal camminamento e diede ordine alle guardie di dire ai due nuovi arrivati di raggiungerla nello studiolo del castellano: “Tanto il Governatore Tommaso Feo sa bene dov'è.”

Bianca e Tommaso lasciarono i cavalli agli stallieri e, dopo essersi tolti la neve ghiacciata dagli stivali, si addentrarono nella rocca.

Non erano state predisposte grandi cerimonie, per loro, non era nemmeno stati schierati i figli della Contessa, ma i due preferivano così. Bianca, in particolare, avrebbe voluto rivedere subito i nipoti, ma era contenta di poterlo fare per conto suo, senza un pubblico, solo dopo aver avuto modo di rivedere sua sorella.

La Contessa aspettava seduta alla scrivania di Cesare Feo, giocherellando nervosamente con una delle penne per scrivere, quando uno dei soldati entrò per annunciarle la sorella e il cognato.

Bianca fu la prima a entrare nello studiolo e salutò Caterina con una breve riverenza, tenendo lo sguardo alto verso di lei. Entrambe stavano ripensando all'ultima volta in cui si erano viste e parlate e quel ricordo pesava su di loro come un macigno.

Come a rispondere a una richiesta inespressa, Bianca allargò appena le braccia e Caterina girò attorno alla scrivania e andò ad abbracciarla. Non si dissero nulla, lasciando che la stretta parlasse per loro. I loro volti non erano illuminati da un sorriso, ma su entrambi si poteva leggere una sorta di sollievo nel potersi incontrare di nuovo a quel modo.

Mentre il loro abbraccio si scioglieva, Caterina guardò oltre la spalla di Bianca e vide Tommaso. Lo trovò invecchiato, benché mancasse da Forlì solo da un paio d'anni. I suoi capelli cominciavano ad avere qualche filo d'argento, malgrado l'età ancora giovane, e i suoi lineamenti si erano fatti più tirati.

Spostando con gentilezza la sorella ponendole una mano sulla spalla, la Contessa si avvicinò al nuovo Governatore di Imola, che se ne stava accanto alla porta, incapace di prendere l'iniziativa.

Con un gesto che le costò più di quanto aveva previsto, Caterina allungò una mano e Tommaso si vide costretto a prenderla nella sua, stringendo come avrebbe fatto con un vecchio amico.

“Sono felice di rivedervi.” disse la Contessa, con voce roca.

“Ho sentito dire che siete stata malata.” fece Tommaso, mesto, mentre i suoi occhi indagavano il viso della Contessa, come a cercare i segni della sofferenza che la suocera, Lucrezia, gli aveva descritto quando erano passati per Imola.

Caterina aveva riconosciuto nel modo burbero di esprimersi di Tommaso una sincera preoccupazione, perciò si sentì in dovere di rassicurarlo: “Non è stato nulla di importante. Mi sono ripresa in fretta.”

L'uomo chinò il capo e si schiarì la voce, prima di dire: “Se volete darmi i documenti necessari, io e mia moglie saremo a Imola prima di domani.”

“Non vi fermate nemmeno una notte?” domandò Caterina, cercando anche lo sguardo di Bianca, per vederne la reazione.

“No, preferiamo sistemarci subito.” rispose la giovane.

La Contessa, a quel punto, annuì e andò di nuovo alla scrivania, prese gli incartamenti e li porse a Tommaso, che li afferrò con la sua stretta sicura e se li mise sotto al braccio, raddrizzando la schiena in modo marziale.

“Mi scuso a nome di Giacomo – soggiunse Caterina, chiedendosi se Tommaso volesse davvero incontrare di nuovo suo fratello, dopo tutto quello che era accaduto – ma non è potuto essere qui oggi, aveva molto da fare.”

“Immagino.” commentò Tommaso, pentendosene subito e cercando di riparare con un: “Il suo ruolo è molto importante e di responsabilità. Sono sicuro che le sue giornate siano molto impegnative.”

Caterina annuì con un sospiro e poi decise di chiudere quella penosa visita, sperando che il tempo rimarginasse una ferita che lei stessa aveva provocato.

“Se vuoi, i miei figli sono nella stanza dei giochi.” fece la Contessa, rivolta alla sorella: “Sei mancata a tutti loro, sarebbero felici di salutarti, dato che non vi fermate per la notte...”

Bianca accettò di buon grado, mentre Tommaso tornò fuori, con la pretesa di controllare i cavalli prima del viaggio di ritorno, ma in realtà solo per non restare solo con la sua signora.

 

Giacomo Feo stava guardando il cielo grigio che nascondeva il calare del sole all'orizzonte. Le nuvole portatrici di neve si stavano addensando di nuovo e non si poteva escludere una tormenta già quella notte.

Il vento freddo aveva ricominciato a soffiare e il giaccone imbottito del Governatore Generale, per quanto ottimamente ricamato, non sembrava all'altezza di quel gelo.

Distogliendo lo sguardo da quello spettacolo deprimente e puntando gli occhi verso la città, Giacomo bevve un sorso dalla bottiglia che si era fatto dare dall'oste in città. La faccia sinistra di quel grasso ristoratore l'aveva indisposto, quando si era fatto consegnare il vino, ma doveva ammettere che la bottiglia era di un'ottima annata e che, non essendogli costata nulla se non un'occhiataccia, sembrava ancora più dolce.

Quanto ci avrebbe messo suo fratello? Sperava con tutto il cuore che non avesse deciso di fermarsi anche per la notte alla rocca. Probabilmente no. Se conosceva ancora Tommaso, era probabile che si fosse affrettato a ripartire alla volta di Imola.

Caterina aveva provato a insistere, dicendogli che sarebbe stato meglio anche per lui rivedere Tommaso, per non compromettere un loro futuro sodalizio in caso di bisogno, ma Giacomo aveva rifiutato in modo categorico. Quando la donna aveva provato a calcare la mano, egli aveva tirato in ballo Bernardino, senza molta logica, attaccandola in un campo che la vedeva alquanto in difficoltà.

Con un sospiro pesante e vinoso, Giacomo si rimise in piedi, prese la coperta che aveva steso sull'erba e la gettò sulla sella del cavallo che brucava tranquillo al suo fianco, cercando un po' d'erba secca tra la neve e il ghiaccio.

Stava venendo sera e il Governatore non aveva voglia di gelarsi fino alle ossa. Se Tommaso fosse stato ancora alla rocca, allora lui si sarebbe fatto portare la cena al Paradiso dalla cameriera di sua moglie, così non si sarebbero incontrati.

Salì in sella con un movimento un po' impacciato, vuotò la bottiglia in un colpo solo e poi la lasciò cadere sul terreno gelato. Il suo cavallo si agitò un po' nel sentire il rumore del vetro che si infrangeva sul suolo, ma Giacomo già lo stava spronando per tornare a Ravaldino.

 
   
 
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