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Autore: sam_di_angelo    14/09/2016    0 recensioni
Quando gli occhi di un ragazzo dalle cattive abitudini incontrano per puro caso lo sguardo dell'altro, inchiodato in un letto d'ospedale, tutto cambia, tutto assume un aspetto differente.
Due mondi a sé stanti, due personalità troppo simili eppure così puramente diverse.
casa[cà-sa] s.f.
1 Edificio a uno o più piani, di dimensioni e aspetto vari, adibito ad abitazione dell'uomo.
Qual è la vera casa di Cole Blaze? La sua piccola dimora numero 251 affacciata sulla strada più vecchia e consumata del suo quartiere, oppure quegli occhi a mandorla color caffè che continuano imperterritamente a tormentarlo?
"It's their loss. Not yours."
CAST:
Park Chanyeol - Cole Blaze
Byun Baek-hyun - Boyce Hanks
© Sam Di Angelo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Baekhyun, Baekhyun, Chanyeol, Chanyeol, Kai, Kai, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1

Cole Blaze odiava il suo riflesso nello specchio. Troppo alto, riusciva a vedersi solo fino alla fronte. Troppo magro, sembrava un palo della luce. Era lì, in piedi, un pennellone con le orecchie a panna. Ma non era assolutamente stato un problema con le ragazze. 
Cole era il figo più ambito del liceo, aveva compiuto da poco diciotto anni e rispecchiava assolutamente lo stereotipo di "bello e impossibile". Ogni adolescente con gli ormoni a mille desiderava poter diventare "la" ragazza di Cole Blaze.

Camminata lenta, ondeggiante, chiodo di pelle, matita nera, mani nelle tasche e sguardo tenebroso. Un vero duro, se si può dire, e nonostante disprezzasse ogni suo lineamento ostentava una sicurezza disarmante, che mascherava dettagliatamente ogni suo risentimento.

Viso allungato, occhi a mandorla, rigorosamente scuri, naso piccolo e labbra carnose. Cercava in ogni modo di trasformare questa femminilità che aveva il suo volto in arroganza: sopracciglia corrucciate, sguardo ghiacciato, labbra strette. A quanto pareva funzionava, dato che Cole Blaze vantava un numero pazzesco di ragazze cadute ai suoi piedi.

Non aveva ancora trovato quella giusta, in quanto ognuna di loro sembrava essere sempre la stessa: sorridente, bramava con smaniosa impazienza di stampargli un bacio su quelle labbra carnose e si faceva portare a letto senza opporsi.

Mai nulla di interessante, mai nulla che risvegliasse la voglia in Cole di conoscere una persona più a fondo.

Dopo mezz'ora, il tempo esatto di farsi una doccia e di sistemarsi i capelli neri con una bella dose abbondante di gel, Cole uscì dal bagno in boxer.

Trovò la madre in piedi accanto al letto, e non appena il figlio uscì dal bagno con le piastrelle verde oliva gli lanciò addosso una maglietta pulita, che profumava di ammorbidente.

Cole la ringraziò con uno sguardo muto e tirò fuori dall'armadio i suoi pantaloni preferiti. Erano neri, con due strappi sfilacciati sulle ginocchia. Li abbinò alla maglia grigia che sua madre gli aveva lanciato in faccia e alle sue amate Converse total black.

Se avesse dovuto seguire sua madre all'inferno, almeno ci sarebbe andato con stile.

«Cole, muoviti! Dobbiamo essere lì per l'una!» in tutta risposta lo stomaco di Cole brontolò rumorosamente. E in tutta risposta alla sua risposta, la madre gli lanciò un panino. Lo afferrò appena in tempo.

«Mamma, puoi smetterla di lanciarmi qualsiasi cosa, per favore?» si lamentò il figlio, poggiando il sandwich avvolto in una pellicola sul letto mentre si infilava il chiodo di pelle nera con le borchie sulle spalle.

Afferrò il portafoglio prima di lasciare a malincuore la sua stanza e prese le sue inseparabili cuffiette, infilandosele in tasca.

2

Era la seconda volta che Cole ascoltava Break Your Little Heart degli All Time Low, mentre la madre agitava le mani, imprecando e sbuffando in continuazione. Il ragazzo non poteva sentirla, ma sapeva che lo stava rimproverando per l'ennesima sbronza del giorno prima. Cole però aveva concentrato tutta la sua attenzione sul panino che stava divorando, dondolando la testa a ritmo della canzone. Quel panino era favoloso: c'era il prosciutto, l'insalata, i pomodori e il formaggio.

Quel ragazzo era così, amava le cose abitudinarie, le routine. Quando gli piaceva una canzone la ascoltava fino a stancarsi, e da anni mangiava sempre lo stesso panino. Lo spaventavano a morte i cambiamenti, persino quelli più banali.

Quando Break Your Little Heart partì per la terza volta, i due erano ormai arrivati nel parcheggio dell'ospedale. La madre di Cole spense il motore ed uscì dal veicolo, sbattendo la portella.

Cole fece altrettanto, tenendo gli occhi incollati all'edificio.

La struttura era immensa, tutta grigia e cadente; un brivido di ribrezzo percosse Cole.

Seguì sua madre sbuffando su per le scale che portavano al portico. Quei gradini maledetti erano larghi almeno un metro l'uno (sua madre aveva prontamente detto "sono fatti così per chi ha le stampelle e cose simili"). Cole si era limitato a fare una smorfia: già li odiava.

Il portico aveva il pavimento fatto da piastrelle in marmo, scivoloso. Rifletteva la luce biancastra dei neon che illuminavano quello spazio ombroso. C'erano diverse panchine, su una in particolare, quella più lontana dall'entrata, c'era una giovane donna, probabilmente sulla trentina, che sedeva scomposta, con i piedi sul legno e un braccio che cingeva le ginocchia, strette al petto. L'altro era occupato a sorreggere una flebo. Cole si sentì inquietato da quegli occhi: la donna era pallida, aveva profonde occhiaie attorno agli occhi azzurri e i capelli biondi erano evidentemente sporchi e tutti arruffati. La vestaglia bianca e consumata e le pantofole grige con i buchi la facevano assomigliare ad una protagonista di un film horror.

La donna squadrò Cole mentre camminava spedito. Cole squadrò lei. Quando la superò sentì ancora il suo sguardo bruciare sulla sua schiena, come se lei lo guardasse con ostilità, con una smorfia imbronciata è una lucidità spaventosa.

Entrò nella struttura seguendo sua madre. Si concentrò sulla canzone che sgorgava dagli auricolari, in modo tale da perdersi le orribili vicende che l'ospedale ospitava. Attraversarono diversi corridoi illuminati dalle ampie finestre su un lato. C'erano tante porte bianche dall'altro, e su ognuna c'era scritto un nome diverso, su altre un numero.

Don't be so sentimental, no.

Diceva la canzone. Cole ricordò la ragazza con cui aveva passato una notte l'estate precedente che gli prometteva amore eterno e cercava di trattenerlo con assurde moine e poesie Shakespeariane.

This love, was accidental.

L'altra ragazza bionda con cui era stato a letto e che aveva lasciato la mattina dopo. Si era trovato il telefono intasato di messaggi, ma li aveva ignorati tutti. Era stato un amore accidentale di una notte e basta.

So give it up, this was never meant to be more than a memory for you.

Partì l'assolo di chitarra elettrica, e Cole chiuse gli occhi. Evitò lo sguardo curioso degli infermieri e si limitava a suonare la sua chitarra immaginaria con enfasi.

Quando la canzone finì aprì gli occhi e nel momentaneo silenzio scoppiarono gli sgradevoli suoni della vita in quell'ospedale. Sentì una signora anziana su una barella lamentarsi, producendo una sorta di cantilena lacrimosa. Telefoni squillare, i passi svelti dei dottori e le barelle scivolare sul pavimento di plastica blu, rotto in più punti.

Cole iniziò ad odiare seriamente quel posto. Si immaginò quei corridoi di notte, pieni dei lamenti sommessi dei pazienti, con le porte che scricchiolavano e i neon bianchi che brillavano spettrali. Il pavimento lucido che rifletteva quelle bianche luci ronzanti e la luna che disegnava inquietanti ombre sui muri con la sua luce lattea. Terrificante.

Cole si scrollò di dosso quella sensazione orribile e si accorse che sua madre, che prima camminava davanti a lui, era sparita. Si sentì morire.

Una cuffia gli cadde dall'orecchio. Si mise a camminare a passo svelto per i corridoi. Nemmeno sapeva in quale reparto si trovasse sua nonna. Cazzo.

Girovagò per tutto l'ospedale, maledicendosi più e più volte. Non poteva chiedere agli infermieri dove fosse sua nonna, mica conoscevano ogni singolo paziente. Tuttavia, domandò a qualcuno della signora Stone, il cognome dell'anziana. Niente. Nessuno sapeva e tutti lo indirizzavano alla segreteria. Ma dove cazzo era questa segreteria? Tutti gli davano indicazioni diverse. Terzo piano, subito a destra. Secondo piano, a sinistra.

Stava per mettersi a piangere, quando qualcosa attirò la sua attenzione.

«Boyce Hanks?» un'infermiera davvero carina aveva aperto la porta numero 137.

«Non ora!» gridò qualcuno dall'interno. Era una voce strana, forse di un ragazzo. «Devo somministrarle la medicina.» ribatté la donna. Era molto giovane, con dei lunghi capelli rossi e le lentiggini sul naso. Cole si sistemò la giacca e si avvicinò.

«Scusi l'intromissione.» disse, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi. La donna lo guardò accigliata, per poi sorridere.«Mi dica, come posso aiutarla?» Cole si poggiò al muro con nonchalance, mettendosi le mani nelle tasche.

«Semmai, come posso aiutarla io.» fece una pausa ad effetto. «Il paziente qui dentro è mio amico e, se permette, è un gran testone.» (Speriamo sia maschio, pregò Cole).

La ragazza sorrise, invitandolo a proseguire.

«Che medicine deve dargli?» l'infermiera gli mostrò una scatola che aveva in mano.

«Una di queste pillole, ma il paziente da giorni fa storie, e non vuole prenderle.» Cole sorrise.

«Non ti preoccupare, raggio di sole.» disse, allungando una mano. «Dai a me, gliele faccio prendere io.» la ragazza sembrò riflettere. «Mh, non saprei...» rispose, palesemente indecisa.

«Mi aspetti fuori dalla porta, appena prende la pillola glielo dirò.» altra pausa. «Se ci riesco, però, merito un premio.» non c'era niente da fare, Cole restava un irrimediabile rubacuori.

«Mi darà il suo numero?» più che una domanda era un'affermazione. L'infermiera ridacchiò.

«Va bene, mi hai convinto.» gli porse le pillole e gli fece segno di entrare. Cole sorrise per la sua piccola vittoria ed entrò nella stanza numero 137.

Si ritrovò a guardare un ragazzo, seduto in un letto disfatto. Aveva in mano un joystick dell'ultima PlayStation, e continuava a premere tasti all'impazzata guardando lo schermo di una grande TV. Cole si domandò cosa ci facesse in una stanza d'ospedale un televisore al plasma e una PlayStation.

«Chi è? Stella?» chiamò il ragazzo, senza mai distogliere lo sguardo dallo schermo. «Non ora, voglio vincere questo round.» Cole lo studiò. Aveva un viso allungato, la pelle pallidissima. Occhi a mandorla scuri come il caffè, occhiaie violacee spaventose. I capelli erano castani e tutti scompigliati, il naso piccolo e schiacciato e le labbra altrettanto piccole e pallide. Uscì fuori la lingua a corrucciò le sopracciglia, evidentemente impegnato al massimo in ciò che stava facendo.

«Non le voglio quelle cazzo di pillole.» sbottò. Cole sorrise, era davvero un tipo.

«Invece dovrai volerle, Boyce.» sentenziò Cole, trattenendo una risata per via di quel nome assurdo. Il ragazzo strabuzzò gli occhi e mise pausa al videogioco. Mortal Kombat X, notò Cole, bel gioco.

«Tu sei? Un servo di Ade per caso?» Cole pensò che il piccoletto si riferisse al suo abbigliamento, infatti lo aveva indicato per poi squadrarlo, con le sopracciglia arcate.

«Sì, sono risalito dall'inferno, e ho il dovere di farti mandare giù queste pillole.» disse, guardandolo. L'altro rise.

«Non le accetto da Stella, la mia infermiera da ormai anni, e dovrei accettarle da te, chi saresti poi?»

«Un ragazzo che desidera tanto avere il numero di telefono di Stella. Se prendi queste pillole mi fai un favore, e poi sparirò dalla tua vita.» Boyce lo guardò male.

«E in cambio io che cosa ottengo?» Cole ci pensò su. «La mia più sincera gratitudine.»

«Mi ci pulisco il culo con la tua gratitudine.» Cole strabuzzò gli occhi. Nessuno gli aveva mai parlato così, tanto meno un nanetto in un letto di ospedale.

«Facciamo così.» Boyce lo guardò, accennando un sorriso. «Mi annoio a morte qui dentro, solo come un cretino.» iniziò. «Perciò, se io prendo quelle pillole, tu dovrai venire a farmi visita due volte a settimana.» Cole scoppiò a ridere. «E perché mai dovrei?»

«E' un patto.» rispose l'altro. «La tua compagnia per il numero di Stella, ci stai? E poi, due giorni a settimana sono pochi. Avrai tutto il tempo di fare il cascamorto con Stella negli altri giorni.» Cole era davvero divertito. Avrebbe accettato, sì, si sarebbe fatto dare il numero di Stella e sarebbe sparito da quel cacchio di ospedale per sempre.

«Ci sto.» si avvicinò al letto del ragazzo e afferrò la sua mano, mentre con quella libera dietro la schiena incrociava le dita.

La stretta di Boyce lo scosse. Era così debole all'apparenza, debolezza dovuta al motivo per cui quel ragazzo doveva essere inchiodato a quel letto bianco da settimane - o mesi - ma al contempo era una stretta decisa, sicura. Fuori da quell'ospedale quel tipo sarebbe stato una forza della natura, Cole lo leggeva in quegli occhi scuri che bruciavano.

Il suo viso aveva qualcosa che colpì Cole nello stomaco. Gli occhi taglienti dell'altro non gli lasciavano via di scampo. Era forse così che si sentivano le ragazze quando lui le guardava? No, il suo era uno sguardo costruito, montato. Quello di Boyce invece era vero, scuro e freddo. Cole si domandò perché quegli occhi così duri si trovassero su un viso dolce e rilassato come il suo.

«E dammi queste pillole infernali allora.» Boyce ritirò la mano dalla stretta, come scottato. Guardò fuori dalla finestra. Quegli alberi che conosceva così bene, quei tre palazzi che si scorgevano, la strada. Avrebbe potuto disegnare quel paesaggio ad occhi chiusi.

Il rumore dell'altro ragazzo che apriva lo scatolo con quelle maledette pillole lo svegliò.

«Come ti chiami?» gli chiese, ridacchiando, mentre lo guardava sforzarsi per far uscire la pillola dalla capsula di carta argentata, invano. Sembrava buffo e imbranato.

«Da' qua.» disse Boyce, togliendogli lo scatolo dalle mani.

«Cole Blaze.» gli rispose, imbronciato.

«Quanti anni hai? E quanto sei alto? Dio, sembri un gigante.» Cole si sentì a disagio sotto lo sguardo dell'altro. «Ho diciotto anni e sono alto 1,85.» Boyce fece una smorfia.

«Io sono altro un metro e ottantavoglia di crescere.» disse a Cole, sconfitto, facendolo ridere.

«Seriamente, quanto sei alto? E quanti anni hai?» Boyce spostò lo sguardo sullo schermo della sua TV.

«1,74, ho diciannove anni.» Cole scoppiò a ridere.

«Ma davvero? Sei davvero un tappo.» Boyce lo fulminò con lo sguardo. Prese la pillola troppo grande e, senza staccare gli occhi da quelli di Cole, la mandò giù.

«Bravo bambino.» commentò Cole, ottenendo come risposta il dito medio dell'altro.

«Allora vado.» annunciò Cole, sorridendo. Non sorrideva spesso, eppure gli era venuto naturale farlo in quella circostanza.

«Tornerai?» gli chiese Boyce, la voce leggermente inclinata, gli occhi puntati in quelli del più piccolo.

«Tornerò.» Cole mentì ed uscì dalla stanza chiudendo la porta, senza guardarsi indietro.

   
 
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