1. Un posto in cui tornare a casa
Boston; Aprile 2016
Alla fine
dimenticò di metterlo
a caricare, il cellulare. Emma interruppe il suo sonno, svegliata dal
cinguettio delle rondini che da un paio d'anni avevano deciso di
abitare proprio sopra la finestra della sua camera. Girandosi sul
fianco destro, dalla parte opposta alla luce del sole, si
domandò
ancora una volta perché, tra i quattro appartamenti situati
all'ultimo piano del condominio, quegli animali dovessero nidificare
proprio lì, in quel punto. Non che la infastidissero,
preferiva
decisamente il loro canto al suono infernale della sveglia. Aveva
anche combattuto con ogni sua energia contro gli altri condomini
affinché lasciassero il nido lì dov'era: volevano
abbatterlo per
degli stupidi capricci e interrompendo così il normale
svolgimento
della natura, ma lei non lo aveva permesso e l'aveva avuta vinta.
Doveva aver ereditato quel suo lato dai suoi genitori, attivisti di
Greenpeace o qualcosa del
genere, come
aveva scoperto anni prima durante le sue ricerche.
Si fece forza e tornò a girarsi
dall'altro lato, portandosi una mano sopra gli occhi per evitare
l'impatto con i raggi. Si tirò su con il gomito sinistro,
leggermente, socchiuse appena le palpebre e con la mano destra prese
a tastare il comodino affianco al suo letto, alla ricerca
dell'orologio da polso che si era tolta la sera prima. Fu costretta
ad allungarsi appena con il braccio e con il corpo, ma
perché lo
aveva poggiato in un punto così lontano?! Lo
afferrò e lo avvicinò
alla faccia, prima di strizzare appena gli occhi notando come le
lancette le apparissero tanto sfocate. Ci vollero all'incirca cinque,
o forse sei secondi, prima di mettere a fuoco quei piccoli numeri che
segnavano le 8:15.
8:15?! 8:15.
Merda.
Scattò subito in piedi,
scalciando via le coperte con un rapido movimento delle gambe,
correndo poi da una parte all'altra della casa senza però
concludere
un bel niente. Isaac, il suo capo, le aveva chiesto di aprire il bar,
quella mattina, e questo comportava il doversi presentare a lavoro
alle 8:30 spaccate. Ed Emma, l'unica cosa che aveva spaccato, era la
lente dei suoi occhiali da lettura che aveva, sbadatamente, lasciato
sopra il letto e che aveva fatto cadere a terra insieme alle
lenzuola.
Cominciò a saltellare per il
corridoio, fra le camere, mentre provava ad indossare un paio di
jeans chiari e stretti, i primi che aveva trovato in mezzo al mucchio
di vestiti che avrebbe dovuto stirare da... quattro, cinque giorni,
se la memoria non la ingannava. Si levò la canottiera
bianca,
restando in reggiseno, gettandola poi via, in direzione del letto che
mancò, neanche a dirlo, clamorosamente e cadde a terra. Non
aveva
tempo di raccoglierla, maledizione, sarebbe rimasta lì un
bel po'.
Corse in bagno e aprì il rubinetto del lavandino di ceramica
situato
sotto il grande specchio che rifletteva la sua immagine stravolta,
stanca, assonnata e isterica, quasi. Unì le mani e
cominciò a darsi
una sciacquata veloce al viso, cominciando ad imprecare sottovoce per
via del dentifricio che non aveva la minima intenzione di uscire
fuori dal tubetto, arrotolato completamente su se stesso e
praticamente vuoto. Riuscì comunque a recuperarne un po' e a
metterlo sul suo spazzolino arancione. Dio, quanto odiava quel
colore.
Prese a lavarsi i denti
velocemente, spostando il peso del corpo da una gamba all'altra, di
continuo, non riuscendo a stare ferma. Lanciava un'occhiata al suo
orologio all'incirca ogni dieci secondi, neanche avesse paura che le
lancette potessero muoversi d'un tratto più veloci.
Spostò il
volto, poi, verso la finestra aperta e non poté non beccare
Jefferson, un tizio che abitava nell'appartamento di fronte al suo e
che non perdeva mai occasione di farle delle avance più o
meno
spinte. Per lo più spinte. Solamente spinte.
Emma si incupì improvvisamente
e prese a lanciargli sguardi glaciali che avrebbero fatto
rabbrividire chiunque, mentre l'altro se la rideva soddisfatto. Corse
vicino alla finestra e posò una mano sul vetro gelido di
primo
mattino. «Pervertito!» Gridò, con tutta
la voce che aveva in corpo
e forse anche di più, sbattendo poi la finestra con un gesto
secco e
forte. Quel tipo era folle, completamente matto. Ed
aveva
anche una bambina di otto anni. O forse nove. Comunque sia, povera
piccola. La giovane Swan storse appena le labbra a quel pensiero,
prima di sputare nel lavandino e sciacquarsi la bocca. Jefferson non
era un cattivo padre, anzi, aveva avuto modo di constatarlo
più
volte lei stessa, era solo una figura un po' troppo eccentrica per i
suoi gusti. Anche se, pensandoci bene, era uno dei pochi, o forse
l'unico, a starle simpatico, in tutto il suo quartiere.
Tornò in camera di corsa ed
aprì un'anta del suo armadio, la mano sinistra percorreva
rapida
ogni stampella alla ricerca di qualcosa da mettere. Alla fine le sue
dita si fermarono su una maglia leggera color grigio pallido, la
indossò e poi si abbassò a raccogliere i suoi
stivali scuri, che si
infilò una volta essersi seduta meglio – non aveva
mai avuto un
buon equilibrio. Prese la sua giacca di pelle marroncino chiaro,
borsa sotto spalla e prese a correre per le scale, saltando gli
scalini, per colpa dell'ascensore perennemente rotto, mentre si
allacciava, come meglio poteva, i lunghi capelli in una coda non
troppo alta.
Arrivò al suo maggiolino giallo
che quasi non si reggeva in piedi. Entrò dentro cercando di
controllare il fiatone, mise in moto dando un'altra occhiata
all'orario: le 8:26. Non ce l'avrebbe mai fatta, lo sapeva. Sperava
solo che Isaac se la prendesse comoda, visto che per una volta non
era costretto ad arrivare per primo nel locale.
Fort Kent, Maine; Ottobre 2004
Camminava
lentamente, la mano
sinistra sulla pancia, lo sguardo basso attenta a mettere un piede
davanti l'altro e a non creare casini andando a sbattere contro
qualche scaffale. Passò davanti una porta frigo contenente
surgelati
di ogni tipo e vi si soffermò qualche secondo, giusto il
tempo di
catturare la sua immagine riflessa. Si mise di fianco e girò
il capo
per osservare bene ogni dettaglio, poi si volse dall'altro lato per
essere certa che non le sfuggisse niente. La camicetta bianca usciva
appena da sotto il giacchetto di jeans chiaro che indossava ormai da
anni e che cominciava ad andarle stretto, ma non era quello che stava
controllando, no di certo, non si era mai preoccupata di come
apparissero i suoi vestiti e di certo non avrebbe cominciato in quel
momento. Era concentrata sulla pancia, ben attenta a scovare anche il
minimo rigonfiamento che l'avrebbe messa senz'altro dei guai, e non
sarebbe stata la prima volta.
Era entrata nel supermercato più
grande della città, Emma, circa dieci minuti prima e dopo
essere
sgattaiolata via senza permesso dall'orfanotrofio. Non era una
novellina in quel fatto, anzi, ormai non veniva neanche rimproverata
dato che ci avevano fatto tutti l'abitudine, una volta capito (e ci
erano volute, più o meno, una quindicina di fughe tutte a
distanza
di tempo ravvicinate) che quel suo temperamento non sarebbe cambiato
neanche con dieci strigliate al giorno. Dopotutto frequentava le
lezioni del professor Hopper senza mai saltarne una, studiava e dava
sempre una mano per pulire i dormitori e, qualche volta, la mensa.
Quella era l'unica cosa che contava, per i tutori. In più,
tornava
sempre dopo le sue brevi fughe giornaliere, quindi perché
avrebbero
dovuto perdere tempo a preoccuparsi per quella ragazzina quando ne
avevano altri trenta o più a cui badare?
Quando fu fuori dal negoziò
cominciò a cercare un luogo sicuro e isolato per tirare
fuori il
bottino, esaminare la situazione e pensare a dove e come tenerlo
nascosto dalle tutrici, o dalle ragazze con cui condivideva la
stanza.
Percorse un centinaio di metri,
girò a destra e poi a sinistra. Sapeva bene dove si stava
dirigendo:
poco oltre il parco vi era una panchina isolata vicino a un piccolo
laghetto artificiale. Era il suo posto, fin da quando lo aveva
trovato per caso, tre anni prima, durante una delle sue vere fughe,
una di quelle serie dove riusciva a non farsi trovare per settimane
intere. Quella panchina era comparsa quasi magicamente; ricordava
ancora il sollievo che aveva provato sedendovisi sopra, dopo aver
corso, forse, per cinque chilometri o qualcosa di più, a
detta sua,
senza mai fermarsi. Nessuno era venuto a disturbarla, anche se ogni
tanto capitava di veder spuntare qualche passante, ma pareva quasi
che non riuscissero a scorgerla, o più probabilmente nessuno
dava
molta importanza a una ragazzina che se ne stava lì, seduta,
a
riflettere. E rifletteva davvero su tutto, ma più che altro
su i più
svariati piani di fuga. Programmava ogni cosa, nel minimo dettaglio.
Poi veniva beccata e riportata in orfanotrofio, non era importante
quanto si allontanasse (una volta l'avevano scovata anche fuori dal
Maine), sembrava che il suo destino volesse impedirle di fuggire
lontano e la rispedisse sempre in quel posto che mai e poi mai
sarebbe riuscita a definire come “casa”.
Si sedette sulla panchina di
legno mentre, dopo essersi guardata intorno, per sicurezza, tirava
giù la zip del suo giacchetto, rivelando una bottiglia di
spumante
di seconda categoria. Non si era mai azzardata a rubare cose di
valore, un po' per paura di finire doppiamente nei guai in caso
l'avessero beccata, un po' perché si sentiva in colpa. Non
le
piaceva rubare e non ne andava certo fiera, ma quello era il solo
modo che conosceva per mettere qualcosa di decente sotto ai denti.
Alle sue spalle, un ragazzino
non l'aveva persa di vista neanche per un istante, mentre la bionda
se ne stava lì, calma, a guardare prima la bottiglia tra le
mani e
poi l'acqua cristallina del lago. Un sorrisetto furbo si
disegnò sul
suo volto, prima di cominciare a muoversi di soppiatto, avvicinandosi
a lei. Piede destro in avanti, sinistro, destro, sinistro, destro.
Piano, piano. Così. La sua intenzione era quella di
prenderla di
sorpresa, saltando fuori all'improvviso e gridando un
“BU!” con
tutto il fiato che aveva in corpo. Ma Emma si era già
accorta di
ogni cosa e sorrideva divertita, pregustandosi il momento in cui gli
avrebbe rovinato la festa. Lo aveva sentito avvicinarsi, per quanto
provasse a non far rumore, riteneva che il suo amico avesse un passo
fin troppo pesante per poter credere di farla fessa. Aspettò
ancora
un secondo, parve avvertire la sua presenza proprio dietro di lei.
«Ciao, forestiero», esclamò
trattenendo forzatamente le risa, gli occhi non si erano staccati
neanche per un secondo da una paperella che pareva giocare con
l'acqua, immergendosi e riemergendo poco dopo, come se fosse una
danza. Il ragazzino rimase di sasso, imbambolato sulla figura della
ragazza, con la bocca aperta colto sul fatto. Alla fine si riscosse,
schiena dritta. Si sistemò appena la giacca di pelle, prima
di
prendere posto accanto all'amica, alla sua sinistra.
«Quella bottiglia?» Domandò
subito, l'indice destro proteso verso di essa per indicarla meglio.
Sapeva da sé da dove provenisse, non era la prima volta che
trovava
Emma con un qualche bottino proveniente dal supermercato, e
immaginava anche quale occasione l'avesse spinta a tanto. In altre
parole, la sua era una stupida domanda, dettata più che
altro dalla
curiosità e dalla voglia di vedere fondata quella sua idea.
«Lo sai», mormorò, difatti,
lei, veloce. I suoi occhi si abbassarono appena per scorgerla ancora
una volta, se la rigirò tra le mani e con la mente camminava
tra i
corridoi dell'orfanotrofio, passava accanto le donne dall'occhio
lungo con fare innocente e noncurante, arrivava nel suo dormitorio
e... e lì si fermava. Continuava a non trovare il luogo
adatto dove
nasconderla: il letto era fuori discussione, l'armadio era in comune
e più di una volta aveva avuto l'impressione che qualcuno
avesse
curiosato nel suo cassetto personale. «E' per
stasera», si ritrovò
a rispondere poi, sovrappensiero, tanto per confermare i sospetti del
ragazzo e non lasciare la domanda troppo in sospeso «ci
vediamo
stasera, vero?»
Lo chiese così teneramente che
il ragazzo non poté non sorridere leggermente. Emma era
ancora una
ragazzina, ma aveva già sofferto tanto nella sua vita, lui
sapeva
bene la sua storia, buona parte l'aveva vissuta in prima persona,
prima di essere adottato, oramai, quasi tre anni prima. Per questo si
era ripromesso che avrebbe fatto di tutto, anche l'impossibile, per
poter sgattaiolare via, quella sera, e raggiungerla in quel posto che
lei amava tanto. Annuì, quindi «Sai che non mi
perderei il tuo
compleanno per nulla al mondo. Soprattutto dopo aver visto questa
bottiglia di spumante», scherzò con leggerezza per
stemperare la
tensione «ma l'ultima volta che sono uscito di casa senza
permesso
ho rischiato di essere beccato, se non mi vedessi arrivare...»
«August», lo interruppe subito
Emma, imponendosi anche con lo sguardo duro e determinato
«non me ne
vado senza salutarti, lo sai», sentenziò
guardandolo dritto negli
occhi, per fargli capire quanto fosse irremovibile su quel fatto,
anche se non credeva che ce ne fosse particolarmente bisogno.
«Sei proprio decisa a partire,
quindi?» Fece lui, per tutta risposta. Aveva visto Emma
tentare la
fuga un'infinità di volte, ma non si era mai preoccupato
perché era
certo che in qualche modo sarebbe tornata, di sua spontanea
volontà
o meno. Eppure c'era qualcosa di diverso, quella volta, era come se,
attraverso i suoi occhi, riuscisse a scorgere il suo futuro e, in
esso, non c'erano altre giornate da passare a Fort Kent.
Deglutì
scoraggiato, non sapeva come dire addio anche alla sua migliore
amica. Emma, alla fine annuì, silenziosa. Riteneva che non
ci
fossero altre parole da aggiungere. Il giovane Booth
sospirò,
abbassò lo sguardo e scorse la bottiglia di vetro ancora tra
le
braccia della ragazza. «Questa penso che sia meglio che la
tenga
io», affermò togliendogliela dalle mani prima che
potesse
accorgersene «non riusciresti a fare neanche tre passi senza
fartela
requisire, e non vorrei mai che la cara Mulan si
ritrovasse a
festeggiare al posto nostro.»
Quelle parole fecero, finalmente,
sorridere Emma. Mulan, o meglio la Signorina Sun, era una delle loro
tutrici. Non era una cattiva persona, ma era incredibilmente severa e
non ammetteva nessuna trasgressione del regolamento. Era una tale
bacchettona, ma conoscendola meglio non si poteva non volerle bene.
«Ci vediamo questa sera, allora»,
sentenziò infine la ragazzina,
alzandosi di scatto dalla panchina e voltandosi appena a guardare
l'amico di sempre «non fare tardi.»
Boston; Aprile 2016
Esausta.
Non c'erano altre
parole per descriverla in quel momento. Si chiuse la porta del suo
appartamento alle spalle velocemente, neanche fosse inseguita da un
branco di cani feroci. Si voltò appena, facendo scivolare
delicatamente i piedi sul pavimento, serrò l'occhio sinistro
e
osservò dallo spioncino, prima a sinistra, in direzione
della rampa
di scale, poi a destra, per accertarsi di non trovare nessuno. Alla
fine sospirò, si tolse la giacca di pelle e la
lanciò sul divano
poco lontano dall'ingresso, dopo essersi passata una mano veloce fra
i capelli per sistemarli come meglio poteva. Se li sentiva elettrici,
ed era una cosa che odiava.
Uscita dal lavoro era andata
subito a pagare le bollette più urgenti che aveva, per non
rischiare
di rimanere senza acqua calda o elettricità, ed era rimasta
con la
notevole somma di 25 bigliettoni. Non di più e non di meno.
Si era
rintanata scoraggiata nel suo maggiolino giallo che aveva senza
dubbio bisogno di una revisione anche lui – la spia del
motore era
praticamente accesa da anni, si chiedeva quando l'avrebbe abbandonata
definitivamente. Una volta parcheggiata l'auto nel posto a lei
riservato proprio davanti al palazzo dove abitava, si rese conto di
essere ancora indietro con l'affitto e che, quindi, doveva fare ben
attenzione a non incontrare i proprietari. Solitamente a quell'ora la
Signora Ashley portava la piccola Alexandra a fare una passeggiata,
molte volte Emma si era chiesta se quello fosse solamente un
fortuito caso o se, cosa di cui ormai era quasi certa, la donna non
lo facesse apposta per chiederle, tra le righe e comunque in modo
gentile, quando sarebbero arrivati i soldi dell'affitto. Ma non era
di Ashley che si preoccupava, ma del Signor Herman, il marito. Era
anche lui una persona tranquilla, ma riusciva a farle pressione e
più
di una volta le aveva detto che non potevano aspettare le rate
arretrate ancora per molto.
Così Emma era costretta a
sgattaiolare lungo la rampa di scale, scarpe o stivali in mano per
evitare anche il minimo suono, calze che più volte la
facevano quasi
scivolare giù se non fosse stata per la mano ferma sulla
ringhiera.
Entrava in casa più veloce della luce e, la maggior parte
delle
volte poteva giurare di sentire, proprio in quel momento, una porta
aprirsi nel piano inferiore al suo, quello dove vi era il modesto
appartamento dei signori Herman.
Aspettò ancora qualche istante,
fino a quando non udì una porta chiudersi, fino a quando non
poté
affermare a se stessa di averla scampata ancora una volta.
Espirò
appena, posò gli stivali che ancora le erano rimasti in mano
a
terra, poi si piazzò sul divano ed accese distratta la tv.
Neanche
aveva intenzione di guardarla, era solamente un gesto automatico che
faceva ogni volta che tornava a casa.
L'ennesima dichiarazione d'amore
del Dottor Stranamore, alias Derek Shepherd riempì la casa
vuota e
silenziosa. Gli occhi di Meredith Grey parvero sorridere di gioia,
quelli di Emma Swan rotearono, invece, verso l'alto, provata da tutto
quel miele che le faceva solamente venire la nausea.
«Ma lui non era morto, poi?!»
Domandò a voce alta, rivolta verso il televisore. Davvero,
non
capiva. Per giorni si era sorbita l'ultimo dei tanti traumi della
Dottoressa Grey, la morte del suo grande amore, ed ora eccolo
lì,
vivo e vegeto. No, non stava davvero capendo. Prese il telecomando e
curiosò tra le informazioni. Ah, era un episodio del 2012,
ora aveva
capito. Spense la televisione quasi subito, aspettò prima
che
mandassero la pubblicità, senza un particolare motivo.
Afferrò poi il cellulare, alla
ricerca di qualcosa per passare il tempo. Pigiò sul tasto
rotondo in
basso allo schermo, pronta a “scorrere per
sbloccare” con il
pollice destro, come da indicazione. Si domandò se ci fosse
davvero
qualcuno così stupido da non capire al volo cosa bisognava
fare per
sbloccare il proprio telefono, ma non si interrogò ancora
per molto,
impegnata com'era a continuare a spingere quel piccolo tasto, visto
che la prima volta non era successo niente. Ma lo schermo continuava
a restare nero. Okay Emma, non farti prendere dal panico. Panico,
sì, era
proprio la parola più azzeccata per descrivere il suo stato
d'animo;
cominciò a sudare freddo mentre partiva ad eseguire dei
respiri
profondi per non dare di matto. Era completamente al verde, non
poteva permettersi un nuovo cellulare, neanche uno dei più
economici! Tentò ancora, pigiando il tasto in alto, quello
di
blocco, tenendolo anche premuto qualche secondo dicendosi che magari
lo aveva spento e non se ne ricordava. Okay, non funzionava neanche
in quel modo. Calmati Emma, rifletti, non c'è niente che ti
sei
dimenticata di provare? La batteria! Si alzò di scatto, e un
po'
goffamente, dal divano e corse in camera sua, non senza rischiare di
cadere rovinosamente a terra per ben due volte. Collegò
immediatamente il cellulare al caricatore e, din din din din din,
bingo!
Sospirò sollevata e si lasciò
cadere sopra il letto, il telefono che si accendeva lentamente ancora
in mano. Quando tornò con lo sguardo sullo schermo
notò subito le
diverse notifiche segnalate in rosso, tutte provenienti da Facebook.
Rimase impalata per un po', la fronte aggrottata e pensierosa. Sapeva
che tra i soliti, numerosi e fastidiosi inviti a giocare a Candy
Crush e Farm Ville, ci fosse anche Belle. Cosa voleva quella donna da
lei? L'aveva cercata e adesso la contattava per quale motivo? Era
successo qualcosa a Neal? No, l'avrebbe saputo. Riguardava, lo
stesso, lui? Si domandò se lei e il Signor Gold fossero a
conoscenza
di quanto accaduto, del resto i rapporti tra Neal e suo padre erano
sempre stati difficili, sapeva che potevano arrivare a non rivolgersi
la parola per anni (ed era già successo), ma addirittura non
sapere
che suo figlio non si era più sposato? No, era una cosa
impensabile.
Ma non del tutto impossibile.
Maledisse Belle, maledisse Neal
e maledisse anche se stessa per aver incessantemente pensato a lui in
quelle ultime 24 ore. Doveva smetterla, darsi una calmata e
riprendere il suo solito contegno. Si alzò dal letto diretta
verso
il bagno, lasciò scorrere l'acqua fredda per una manciata di
secondi, dopodiché si bagnò il volto, dandosi una
rinfrescata.
Quando tornò in camera, pronta ad affrontare Belle, si
sentì al
sicuro protetta dalla sua fedele armatura.
- Ciao, Emma. Come stai? :)
La bionda
fissò a lungo quello
smile, esterrefatta. La futura matrigna del suo ex fidanzato le
chiedeva come stava e, soprattutto, aggiungeva anche uno stupido
smile. Ma c'era ancora gente che li usava, poi? Lasciò perde
e pensò
a come rispondere. Cosa si faceva in quei casi? Si mentiva o si
diceva la verità? Si poteva scrivere qualcosa come
“Il tuo figlioccio mi ha
spezzato il cuore, lavoro in una topaia, sono al verde e fra poco mi
cacceranno anche di casa. Ma per il resto va alla grande”?
- Salve Belle. Tutto bene, grazie.
Si
ritrovò a inviare, alla
fine, sbrigandosi subito ad aggiungere:
- Tu?
Si sentiva
una stupida senza
sapere bene il motivo. Tra l'altro, non aveva visto che la donna
fosse online, quindi la sua tempestiva risposta la sorprese e
allarmò
non poco. Alla fine, comunque, Emma si tranquillizzò sempre
più e
prese a rispondere alle sue domande eliminando qualsiasi monosillabo
dal suo vocabolario. Belle le chiese quasi ogni cosa, se vivesse
ancora a Boston, che lavoro facesse, se si trovasse bene e cose del
genere. Emma rispondeva cortesemente e con un filo di
curiosità che
la spingeva a continuare quell'inaspettata conversazione. Alla fine,
Miss French sputò il rospo, rivelandole il vero motivo di
quell'avvicinamento.
- Sono davvero felice che tu ti sia sistemata, Emma.
Nonostante questo, però, vorrei comunque offrirti un lavoro,
qui, nell'ormai storica libreria di Fort Kent. Come ben ricorderai,
sono l'attuale titolare e unica commessa, ma con i preparativi del
matrimonio fatico ad andare dietro a tutto (molte volte la libreria
è rimasta chiusa per intere giornate!). Ho davvero bisogno
di un aiuto, di una persona valida e di cui potermi fidare. Ho pensato
subito a te. Insieme al posto di lavoro, sarà tuo anche
l'appartamento sopra il negozio, non è molto grande ma
è accogliente. Allora, cosa ne pensi?
Cosa ne
pensava? Aveva passato
tutta la sua infanzia a cercare di fuggire da quel posto e ora doveva
ritornarci con la coda tra le gambe? No, grazie. Certo, il lavoro le
faceva gola. Era sicuramente ben retribuito e sarebbe stata
più che
felice di lasciare sia quello schifo di locale, sia la clientela e
sia il Signor Heller, che reputava un uomo viscido come pochi. Ma no,
non era così disperata. Non credeva di esserlo almeno e,
soprattutto, non se la sentiva ad accettare l'aiuto della futura
Signora Gold, le sembrava di cadere più in basso. Sapeva che
Belle
era una persona buona e generosa, ma non le andava di sentirsi in
debito con quella famiglia.
Per queste e molte altre
ragioni, alla fine, rifiutò il posto e salutò
Belle.
Fort Kent, Maine; Ottobre 2004
Cominciava
a non sentirsi più
le dita, il naso, le labbra, le orecchie, la faccia. Le auto che le
passavano davanti a tutta velocità, facendo così
alzare il vento,
non l'aiutavano per niente a riscaldarsi, sperava solo che l'autobus
non ci mettesse ancora molto, speranzosa di trovare un minimo calore
al suo interno. Aveva aspettato August per ore, in quello che era il
loro posto, il suo posto al riparo dalla realtà che le
girava
intorno. Aveva guardato l'acqua calma del laghetto per due ore buone,
o almeno pensava, il conto del tempo era andato a farsi fottere dopo
poco, quando il gelo della notte autunnale più fredda era
calato su
di lei. Si era alzata, dicendo che muoversi le avrebbe fatto bene, e
anche sicura che ormai non l'avrebbe più raggiunta.
Ora sedeva amareggiata davanti
la fermata del bus, le mani nelle tasche del giubbotto grigio, la
destra stringeva i pochi bigliettoni che era riuscita a raccattare,
curiosando in giro per il dormitorio. Non ne andava fiera, ma sapeva
che a quelle ragazze non sarebbero mai veramente serviti, mentre a
lei procuravano un bel biglietto di sola andata per un qualsiasi
altro posto che non fosse il Maine. Le ginocchia si muovevano
velocemente, la faccia guardava a sinistra ogni cinque secondi,
speranzosa di vedere i fari gialli del suo tappeto volante.
Più che
altro cercava di non pensare.
Non vedeva l'ora di lasciarsi
quella stupida cittadina alle spalle, non le importava di nessuno,
sapeva che non le sarebbe mancata nessuna delle facce che aveva visto
in tutti quegli anni. Le ragazze dell'orfanotrofio, le tutrici,
quelli che l'avevano fatta sentire fuori posto e quelli che, invece,
l'avevano trattata dolcemente e con tutte le cure. Sapeva che si
sarebbe dimenticata presto tutti i loro nomi. August era l'eccezione,
e le aveva appena spezzato il cuore.
Si erano conosciuti
all'orfanotrofio, con Lily formavano un trio piuttosto combina guai,
avevano fatto venire i capelli bianchi a parecchia gente. Poi Lily se
n'era andata ed erano rimasti da soli; si erano avvicinati tanto e
non si erano mai separati, neanche dopo che August venne adottato dai
Booth, erano sempre riusciti a incontrarsi in un modo o nell'altro.
Sapeva di avergli detto che non sarebbe riuscita a partire senza
averlo salutato, ma anche di non poter mantenere quella promessa. Non
poteva più aspettare, sperava che lui avrebbe capito. Invece
di
essere arrabbiata, si preoccupava affinché non se la
prendesse, si
dava della ridicola da sola.
Due piccole luci si mostrarono a
qualche centinaio di metri di distanza: finalmente l'autobus
arrivava, e insieme a lui August, che correva a perdifiato dalla
parte opposta, gridando come un pazzo incurante dell'orario notturno.
«Emma!» La ragazza si
pietrificò, una volta essersi alzata dalla panca pronta ad
accogliere il bus «Emma, ti prego aspettami!» Mise
su l'espressione
più dura che potesse avere e si voltò di scatto,
decisa più che
mai a tenergli il muso, a farsi ricordare per sempre così,
come una
che non dimentica il minimo torto subito. Aveva sofferto,
aspettandolo su quella panchina per due ore, con solo la
consapevolezza che non avrebbe mai più festeggiato il
compleanno col
suo migliore amico. La consapevolezza che non avrebbe mai
più
rivisto quell'amico.
Ma poi lo vide, la sciarpa
svolazzante al collo, le gambe che correvano veloci, disperate e
colpevoli di non essere arrivate prima, il viso contratto per la
fatica e, forse anche per il dolore per quell'imminente addio. Quando
ormai le fu davanti non poté non sciogliersi. Gli occhi le
si
inumidirono ma riuscì a trattenere le lacrime. Gli si getto
al
collo, lo abbracciò forte e così fece lui.
«Mi dispiace», affermò
il ragazzo «Marc... mio padre mi teneva sorvegliato a vista.
Mi ha
anche requisito lo spumante, mi dispiace. Mi dispiace», non
smetteva
di ripeterlo. Emma annuì appena, la testa contro la sua
spalla,
mentre l'autobus si fermava davanti a loro.
«Devo andare», si limitò a
mormorare la biondina, staccandosi dall'abbraccio e poggiando un
piede sopra il primo scalino. L'altro, però, la
fermò prendendole
il braccio destro. La ragazza si girò e notò
subito il cellulare
che August le stava porgendo «Non capisco.»
«Regalo di compleanno»,
rispose semplicemente «il mio numero è
già salvato. Non voglio
perdere anche te, Emma». No, non lo avrebbero fatto, non si
sarebbero mai persi di vista, Emma cominciò a capirlo. Prese
il
cellulare, prima di stringergli la mano per qualche secondo. Entrambi
sorridevano, nessuno dei due si vergognava di farsi vedere commosso.
L'autista tossicchiò, aveva
fretta di andarsene. Emma gli lasciò andare la mano e
salì di un
altro scalino. Le porte si chiusero, gli occhi dei due ragazzi non
riuscirono a staccarsi dall'altro. August con le mani in tasca, Emma
con il cellulare stretto al petto, l'ultimo contatto che gli rimaneva
con quel mondo che stava, finalmente, abbandonando. Quando il mezzo
prese a muoversi, la bionda corse agli ultimi posti, si sedette con
le ginocchia su uno dei sedili in modo da guardare fuori.
Continuarono a fissarsi finché poterono, entrambi alzarono
la mano
sinistra in segno di saluto, prima di vedere l'altro scomparire.
Emma aspettò ancora un po'
prima di tornare composta, osservava Fort Kent senza un minimo di
nostalgia ma con un nuovo senso di liberazione che cresceva sempre
più. Non sarebbe più tornata in quella
città, avrebbe trovato la
sua casa altrove.
Boston; Aprile 2016
Interminabili
attimi di assoluto
silenzio. Il locale non era poi così pieno, niente passava
inosservato, quindi. Nessuno fiatava, nessuno si muoveva. Nessuno
osava mangiare o bere, nessuno girava il cucchiaino nella sua tazzina
di caffè o giocava con la cannuccia del suo aperitivo. Emma
trattenne il fiato mentre tutti, come un unico corpo, si giravano
verso di lei e stavano semplicemente a guardare. La bocca aperta e
incredula, il palmo della mano destra ancora aperto e fermo a
mezz'aria, il cuore che le martellava neanche avesse corso la
maratona.
Lo aveva colpito, aveva davvero
alzato le mani contro un cliente. L'uomo si era subito portato la
mano sulla guancia colpita, ma Emma era riuscita a vedere il segno
rosso che gli aveva lasciato. Provò a parlare, ma le parole
le
morirono in gola. Le bastò un attimo prima di riscuotersi
del tutto;
le bastò vedere Isaac correre verso di lei furioso a farla
tornare
in sé e a fulminarlo con lo sguardo. Alla fine quel tipo se
l'era
cercata, non era dispiaciuta, affatto, anzi, lo avrebbe rifatto
ancora se ce ne fosse stata la possibilità.
«Lei è pazza, Miss Swan,»
prese a inveire il proprietario del pub, mentre partiva a gesticolare
come un pazzo, dopo aver dato un'occhiata rapida al cliente abituale
che ora minacciava di denunciare sia la cameriera che il locale
«pazza!» Ribadì il concetto a voce
più forte, come a volersi
assicurare che quella parola non sfuggisse a nessun orecchio. Si
girò
verso l'altro uomo cominciando a blaterale scuse su scuse; Emma
osservò la scena allibita e schifata, spalancando la bocca
prima di
scuotere la testa in modo contrariato.
«Mi stava molestando», esclamò
adirata, indicandolo con la mano sinistra come se quel gesto fosse
della minima utilità. Erano giorni che continuava a
importunarla con
battutine a sfondo sessuale, all'inizio era leggere e simpatiche ma
poi erano diventate pesanti, e quando le aveva palpato il sedere non
ci aveva visto più, la mano si era semplicemente mossa verso
la sua
guancia da sola. «Signor Heller!» Lo
richiamò ancora più
scocciata, dato che questi pareva non averla minimamente sentita.
Isaac Heller si voltò ad
osservarla di controvoglia, serrò i denti e ridusse gli
occhi a due
fessure dopo che l'affezionato cliente si era detto innocente
dall'accusa della giovane, non che lei si aspettasse il contrario.
«Si consideri licenziata. Da questo istante. Si tolga pure
quel
grembiule, posi quello stupido vassoio, prenda le sue cose e se ne
vada», la bionda rimase inorridita. Ferma sul posto prese a
studiare
l'espressione del suo capo, o forse avrebbe dovuto dire ex capo?, per
capire se fosse serio o stesse solo facendo scena, ma alla fine
scrollò le spalle, posò il vassoio sul bancone e
portò le mani
dietro la schiena per slacciarsi il grembiule.
«Bene», affermò anche se i
lacci non si decidevano a venir via «sono restata in questa
topaia
fin troppo a lungo», finalmente riuscì a
sciogliere il nodo che
teneva stretto da quella mattina, abbassò il capo per far
passare
gli altri sopra il collo e oltre la testa, dopodiché
posò anche il
grembiule sul bancone, tornando a fissare Isaac con occhi di fuoco
e un mezzo sorriso sulle labbra «sa cosa le dico, Signor
Heller? Grazie, questa sì che è una
liberazione.»
Mezz'ora dopo, appoggiata contro
la porta d'ingresso del suo appartamento, non era dello stesso
parere. Affatto. Quel lavoro era pessimo, la paga era minima, i
colleghi scorbutici, il capo un coglione e la clientela fin troppo
maniaca. Ma almeno era un lavoro, le portava dei soldi e
così il
modo di andare avanti, mentre adesso? Lei era al verde e i tempi per
trovare
un altro lavoro decisamente pessimi. Cosa avrebbe fatto?
Scoraggiata
tirò fuori il suo cellulare dalla borsa, entrò su
facebook e
selezionò la chat con la futura signora Gold. Non
salutò nemmeno,
digitando quelle poche parole che decretavano, interiormente, la sua
sconfitta.
- L'offerta di lavoro è ancora valida?
Nella sua
vita non era mai stata
ferma nello stesso posto per troppo tempo. Mai, neanche nel periodo
di convivenza con Neal, avevano sempre cambiato città o
casa, fino a
quando, dopo la proposta di matrimonio, non si erano fermati a
Boston, nel vecchio appartamento del Signor Gold. E lì Emma
era
rimasta anche per i cinque mesi dopo la loro rottura, anche se quelle
mura le sembravano sempre più strette, perché non
sapeva dove altro
andare. Per questo le fece strano consegnare le chiavi ad Ashley,
insieme alla promessa che le avrebbe pagato presto tutti gli
arretrati. La donna si era fidata e le aveva augurato ogni bene.
Aveva caricato tutte le sue cose
in macchina, sorprendendosi del fatto che era riuscita a far entrare
tutto in quel suo vecchio maggiolino giallo. Non che avesse molto,
due valigie e qualche scatolone con le cose alle quali era
più
affezionata. Jefferson le aveva dato una mano a portare quelli
più
pesanti. Non gli aveva chiesto niente, neanche aveva avuto occasione
di dirgli che stava andando via, l'uomo l'aveva colta sul fatto, con
due scatoloni tra le braccia, mentre usciva per andare a lavoro e
subito si era offerto di aiutarla. Le sarebbe mancato, quel tipo, lo
realizzò dopo aver abbracciato la figlioletta ed essere
salita in
macchina. Li aveva osservati dallo specchietto retrovisore per un
po', sembravano davvero dispiaciuti di vederla andare via.
Viaggiò per qualche oretta, si
fermò un paio di volte per mangiare e per fare
pipì, le due cose in
due fermate ben distinte ovviamente, giusto per farle perdere tempo.
Prese in pieno un dosso troppo alto per i suoi gusti che era scappato
dalla sua vista e sobbalzò appena, portandosi d'istinto una
mano
sulle tette. Ringraziò anche di non essere una tettona, una
volta
tanto. Cominciò a rallentare quando, anche se lontano, vide
il
cartello che indicava Fort Kent. Man mano che si avvicinava, in lei
cresceva la consapevolezza che quel posto non era cambiato
minimamente e questo le fece girare lo stomaco. Non era agitata, non
proprio almeno.
Il cartello assumeva la forma di
una casa, con tanto di caminetto sulla punta. Era fatto di legno,
proprio come lo ricordava. La scritta di benvenuto era piccola
rispetto a quella enorme e tutta in maiuscolo che segnava il nome
della città, colorata di uno strano e inusuale verde acqua
su una
striscia con lo sfondo giallo, a sua volta circondata da una striscia
colorata di verde. Quello che catturò l'attenzione di Emma,
comunque, era la scritta bianca posta proprio sotto al nome della
cittadina: “Un posto in cui tornare a Casa!”
Casa?
Le sembrava difficile che l'avrebbe trovata veramente lì, ma
quel
pensiero era meglio tenerselo per sé.
Sapeva che sarebbe restata poco,
giusto il tempo di mettere qualcosa da parte e trovare un nuovo
lavoro in qualche altra cittadina. Ecco, non era ancora arrivata e
già pensava a fare i bagagli. Si accorse di essersi fermata
proprio
davanti la linea di confine, quando era successo? E da quanto tempo era
ferma? Scosse la testa per riprendersi, mise la marcia e premette
sull'acceleratore.
Un po' di pace, questo chiedeva.
Qualche attimo di tranquillità prima di ripartire verso,
magari, una
metropoli più casinista.
Non le sembrava di chiedere poi
molto.
Angolo
dell'autrice:
Come promesso eccomi qui! Avrei
voluto postare prima di partire (lo scorso weekend), ma avevo il
terrore che il capitolo andasse perso visto i problemi del sito,
così
ho rimandato di una settimana ma alla fine ce l'ho fatta!
Mi è piaciuto DA MATTI scrivere
il flashback di Emma. Mi piace inventare le loro storie, anche se,
almeno per lei, qualcosa è rimasta la stessa. L'idea di
questo trio
formato da lei, August e Lily mi ha intrigato e alla fine ho deciso
di inserirlo. L'amicizia tra lei e August è andata avanti
anche dopo
l'adozione di lui ed è cresciuta con loro, anche quando Emma
se n'è
andata sono comunque rimasti in contatto. Per il resto, ora comincia
il divertimento VERO. Non vedo l'ora, sono emozionata. Nel prossimo
capitolo verrà FINALMENTE presentato Killian, come la
immaginate la
sua vita? :P
Spero di aggiornare presto,
giusto il tempo di organizzare le idee. Intanto, per chi non ci
avesse fatto caso, vi informo che Hello, I love you [...] è ufficialmente
conclusa,
quindi avrò mooolto più tempo da dedicare a
questa storia.
Fra pochi giorni, tra l'altro,
ricomincia la nuova stagione. Siete emozionati? Io personalmente non
ho molta ansia, ma non vedo l'ora di vedere la trama incentrata
finalmente su Storybrooke.
Come sempre vi invito a farmi
sapere i vostri pareri, sono davvero curiosa visto che si tratta di
un AU :)
Un bacio e a presto :*
Sà