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Autore: Chipped Cup    17/09/2016    4 recensioni
[ Captain Swan | AU senza magia ]
Emma Swan, ventotto anni, sola, un lavoro scadente che la faceva a malapena arrivare a fine mese. Oramai ci aveva messo una pietra sopra e aveva accettato, seppur malvolentieri, quella schifosa vita che le era capitata. Poi la svolta: una chiamata, un'offerta di lavoro nella piccola cittadina di Fort Kent, Maine, le da la spinta che le serviva per ricominciare. Emma Swan arriva in città senza troppe aspettative, tutto quello che chiede è un po' di pace, ma con Killian Jones, padre trentenne e solo, tra i piedi e un segreto a lungo custodito che sembra voler spuntare fuori ad ogni costo rimescolando così tutte le carte in tavola, la sua nuova vita a Fort Kent sarà tutto fuorché tranquilla.
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Dalla storia:
Emma sorrise. Un sorriso sincero, entusiasta, tenero e rassicurante. Aveva appena avuto la dimostrazione del grande cambiamento che stava affrontando Killian Jones: piano piano stava lasciando andare la sua “parte oscura” e stava crescendo, maturando e diventando responsabile. E lo faceva per suo figlio, ma anche per lei. Se prima poteva aver avuto dei dubbi su di lui, in quel momento vennero spazzati via come una ventata d'aria fresca.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Un posto in cui tornare a casa




Boston; Aprile 2016


Alla fine dimenticò di metterlo a caricare, il cellulare. Emma interruppe il suo sonno, svegliata dal cinguettio delle rondini che da un paio d'anni avevano deciso di abitare proprio sopra la finestra della sua camera. Girandosi sul fianco destro, dalla parte opposta alla luce del sole, si domandò ancora una volta perché, tra i quattro appartamenti situati all'ultimo piano del condominio, quegli animali dovessero nidificare proprio lì, in quel punto. Non che la infastidissero, preferiva decisamente il loro canto al suono infernale della sveglia. Aveva anche combattuto con ogni sua energia contro gli altri condomini affinché lasciassero il nido lì dov'era: volevano abbatterlo per degli stupidi capricci e interrompendo così il normale svolgimento della natura, ma lei non lo aveva permesso e l'aveva avuta vinta. Doveva aver ereditato quel suo lato dai suoi genitori, attivisti di Greenpeace o qualcosa del genere, come aveva scoperto anni prima durante le sue ricerche.
Si fece forza e tornò a girarsi dall'altro lato, portandosi una mano sopra gli occhi per evitare l'impatto con i raggi. Si tirò su con il gomito sinistro, leggermente, socchiuse appena le palpebre e con la mano destra prese a tastare il comodino affianco al suo letto, alla ricerca dell'orologio da polso che si era tolta la sera prima. Fu costretta ad allungarsi appena con il braccio e con il corpo, ma perché lo aveva poggiato in un punto così lontano?! Lo afferrò e lo avvicinò alla faccia, prima di strizzare appena gli occhi notando come le lancette le apparissero tanto sfocate. Ci vollero all'incirca cinque, o forse sei secondi, prima di mettere a fuoco quei piccoli numeri che segnavano le 8:15.
8:15?! 8:15. Merda.
Scattò subito in piedi, scalciando via le coperte con un rapido movimento delle gambe, correndo poi da una parte all'altra della casa senza però concludere un bel niente. Isaac, il suo capo, le aveva chiesto di aprire il bar, quella mattina, e questo comportava il doversi presentare a lavoro alle 8:30 spaccate. Ed Emma, l'unica cosa che aveva spaccato, era la lente dei suoi occhiali da lettura che aveva, sbadatamente, lasciato sopra il letto e che aveva fatto cadere a terra insieme alle lenzuola.
Cominciò a saltellare per il corridoio, fra le camere, mentre provava ad indossare un paio di jeans chiari e stretti, i primi che aveva trovato in mezzo al mucchio di vestiti che avrebbe dovuto stirare da... quattro, cinque giorni, se la memoria non la ingannava. Si levò la canottiera bianca, restando in reggiseno, gettandola poi via, in direzione del letto che mancò, neanche a dirlo, clamorosamente e cadde a terra. Non aveva tempo di raccoglierla, maledizione, sarebbe rimasta lì un bel po'. Corse in bagno e aprì il rubinetto del lavandino di ceramica situato sotto il grande specchio che rifletteva la sua immagine stravolta, stanca, assonnata e isterica, quasi. Unì le mani e cominciò a darsi una sciacquata veloce al viso, cominciando ad imprecare sottovoce per via del dentifricio che non aveva la minima intenzione di uscire fuori dal tubetto, arrotolato completamente su se stesso e praticamente vuoto. Riuscì comunque a recuperarne un po' e a metterlo sul suo spazzolino arancione. Dio, quanto odiava quel colore.
Prese a lavarsi i denti velocemente, spostando il peso del corpo da una gamba all'altra, di continuo, non riuscendo a stare ferma. Lanciava un'occhiata al suo orologio all'incirca ogni dieci secondi, neanche avesse paura che le lancette potessero muoversi d'un tratto più veloci. Spostò il volto, poi, verso la finestra aperta e non poté non beccare Jefferson, un tizio che abitava nell'appartamento di fronte al suo e che non perdeva mai occasione di farle delle avance più o meno spinte. Per lo più spinte. Solamente spinte.
Emma si incupì improvvisamente e prese a lanciargli sguardi glaciali che avrebbero fatto rabbrividire chiunque, mentre l'altro se la rideva soddisfatto. Corse vicino alla finestra e posò una mano sul vetro gelido di primo mattino. «Pervertito!» Gridò, con tutta la voce che aveva in corpo e forse anche di più, sbattendo poi la finestra con un gesto secco e forte. Quel tipo era folle, completamente matto. Ed aveva anche una bambina di otto anni. O forse nove. Comunque sia, povera piccola. La giovane Swan storse appena le labbra a quel pensiero, prima di sputare nel lavandino e sciacquarsi la bocca. Jefferson non era un cattivo padre, anzi, aveva avuto modo di constatarlo più volte lei stessa, era solo una figura un po' troppo eccentrica per i suoi gusti. Anche se, pensandoci bene, era uno dei pochi, o forse l'unico, a starle simpatico, in tutto il suo quartiere.
Tornò in camera di corsa ed aprì un'anta del suo armadio, la mano sinistra percorreva rapida ogni stampella alla ricerca di qualcosa da mettere. Alla fine le sue dita si fermarono su una maglia leggera color grigio pallido, la indossò e poi si abbassò a raccogliere i suoi stivali scuri, che si infilò una volta essersi seduta meglio – non aveva mai avuto un buon equilibrio. Prese la sua giacca di pelle marroncino chiaro, borsa sotto spalla e prese a correre per le scale, saltando gli scalini, per colpa dell'ascensore perennemente rotto, mentre si allacciava, come meglio poteva, i lunghi capelli in una coda non troppo alta.
Arrivò al suo maggiolino giallo che quasi non si reggeva in piedi. Entrò dentro cercando di controllare il fiatone, mise in moto dando un'altra occhiata all'orario: le 8:26. Non ce l'avrebbe mai fatta, lo sapeva. Sperava solo che Isaac se la prendesse comoda, visto che per una volta non era costretto ad arrivare per primo nel locale.


Fort Kent, Maine; Ottobre 2004


Camminava lentamente, la mano sinistra sulla pancia, lo sguardo basso attenta a mettere un piede davanti l'altro e a non creare casini andando a sbattere contro qualche scaffale. Passò davanti una porta frigo contenente surgelati di ogni tipo e vi si soffermò qualche secondo, giusto il tempo di catturare la sua immagine riflessa. Si mise di fianco e girò il capo per osservare bene ogni dettaglio, poi si volse dall'altro lato per essere certa che non le sfuggisse niente. La camicetta bianca usciva appena da sotto il giacchetto di jeans chiaro che indossava ormai da anni e che cominciava ad andarle stretto, ma non era quello che stava controllando, no di certo, non si era mai preoccupata di come apparissero i suoi vestiti e di certo non avrebbe cominciato in quel momento. Era concentrata sulla pancia, ben attenta a scovare anche il minimo rigonfiamento che l'avrebbe messa senz'altro dei guai, e non sarebbe stata la prima volta.
Era entrata nel supermercato più grande della città, Emma, circa dieci minuti prima e dopo essere sgattaiolata via senza permesso dall'orfanotrofio. Non era una novellina in quel fatto, anzi, ormai non veniva neanche rimproverata dato che ci avevano fatto tutti l'abitudine, una volta capito (e ci erano volute, più o meno, una quindicina di fughe tutte a distanza di tempo ravvicinate) che quel suo temperamento non sarebbe cambiato neanche con dieci strigliate al giorno. Dopotutto frequentava le lezioni del professor Hopper senza mai saltarne una, studiava e dava sempre una mano per pulire i dormitori e, qualche volta, la mensa. Quella era l'unica cosa che contava, per i tutori. In più, tornava sempre dopo le sue brevi fughe giornaliere, quindi perché avrebbero dovuto perdere tempo a preoccuparsi per quella ragazzina quando ne avevano altri trenta o più a cui badare?
Quando fu fuori dal negoziò cominciò a cercare un luogo sicuro e isolato per tirare fuori il bottino, esaminare la situazione e pensare a dove e come tenerlo nascosto dalle tutrici, o dalle ragazze con cui condivideva la stanza.
Percorse un centinaio di metri, girò a destra e poi a sinistra. Sapeva bene dove si stava dirigendo: poco oltre il parco vi era una panchina isolata vicino a un piccolo laghetto artificiale. Era il suo posto, fin da quando lo aveva trovato per caso, tre anni prima, durante una delle sue vere fughe, una di quelle serie dove riusciva a non farsi trovare per settimane intere. Quella panchina era comparsa quasi magicamente; ricordava ancora il sollievo che aveva provato sedendovisi sopra, dopo aver corso, forse, per cinque chilometri o qualcosa di più, a detta sua, senza mai fermarsi. Nessuno era venuto a disturbarla, anche se ogni tanto capitava di veder spuntare qualche passante, ma pareva quasi che non riuscissero a scorgerla, o più probabilmente nessuno dava molta importanza a una ragazzina che se ne stava lì, seduta, a riflettere. E rifletteva davvero su tutto, ma più che altro su i più svariati piani di fuga. Programmava ogni cosa, nel minimo dettaglio. Poi veniva beccata e riportata in orfanotrofio, non era importante quanto si allontanasse (una volta l'avevano scovata anche fuori dal Maine), sembrava che il suo destino volesse impedirle di fuggire lontano e la rispedisse sempre in quel posto che mai e poi mai sarebbe riuscita a definire come “casa”.
Si sedette sulla panchina di legno mentre, dopo essersi guardata intorno, per sicurezza, tirava giù la zip del suo giacchetto, rivelando una bottiglia di spumante di seconda categoria. Non si era mai azzardata a rubare cose di valore, un po' per paura di finire doppiamente nei guai in caso l'avessero beccata, un po' perché si sentiva in colpa. Non le piaceva rubare e non ne andava certo fiera, ma quello era il solo modo che conosceva per mettere qualcosa di decente sotto ai denti.
Alle sue spalle, un ragazzino non l'aveva persa di vista neanche per un istante, mentre la bionda se ne stava lì, calma, a guardare prima la bottiglia tra le mani e poi l'acqua cristallina del lago. Un sorrisetto furbo si disegnò sul suo volto, prima di cominciare a muoversi di soppiatto, avvicinandosi a lei. Piede destro in avanti, sinistro, destro, sinistro, destro. Piano, piano. Così. La sua intenzione era quella di prenderla di sorpresa, saltando fuori all'improvviso e gridando un “BU!” con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma Emma si era già accorta di ogni cosa e sorrideva divertita, pregustandosi il momento in cui gli avrebbe rovinato la festa. Lo aveva sentito avvicinarsi, per quanto provasse a non far rumore, riteneva che il suo amico avesse un passo fin troppo pesante per poter credere di farla fessa. Aspettò ancora un secondo, parve avvertire la sua presenza proprio dietro di lei.
«Ciao, forestiero», esclamò trattenendo forzatamente le risa, gli occhi non si erano staccati neanche per un secondo da una paperella che pareva giocare con l'acqua, immergendosi e riemergendo poco dopo, come se fosse una danza. Il ragazzino rimase di sasso, imbambolato sulla figura della ragazza, con la bocca aperta colto sul fatto. Alla fine si riscosse, schiena dritta. Si sistemò appena la giacca di pelle, prima di prendere posto accanto all'amica, alla sua sinistra.
«Quella bottiglia?» Domandò subito, l'indice destro proteso verso di essa per indicarla meglio. Sapeva da sé da dove provenisse, non era la prima volta che trovava Emma con un qualche bottino proveniente dal supermercato, e immaginava anche quale occasione l'avesse spinta a tanto. In altre parole, la sua era una stupida domanda, dettata più che altro dalla curiosità e dalla voglia di vedere fondata quella sua idea.
«Lo sai», mormorò, difatti, lei, veloce. I suoi occhi si abbassarono appena per scorgerla ancora una volta, se la rigirò tra le mani e con la mente camminava tra i corridoi dell'orfanotrofio, passava accanto le donne dall'occhio lungo con fare innocente e noncurante, arrivava nel suo dormitorio e... e lì si fermava. Continuava a non trovare il luogo adatto dove nasconderla: il letto era fuori discussione, l'armadio era in comune e più di una volta aveva avuto l'impressione che qualcuno avesse curiosato nel suo cassetto personale. «E' per stasera», si ritrovò a rispondere poi, sovrappensiero, tanto per confermare i sospetti del ragazzo e non lasciare la domanda troppo in sospeso «ci vediamo stasera, vero?»
Lo chiese così teneramente che il ragazzo non poté non sorridere leggermente. Emma era ancora una ragazzina, ma aveva già sofferto tanto nella sua vita, lui sapeva bene la sua storia, buona parte l'aveva vissuta in prima persona, prima di essere adottato, oramai, quasi tre anni prima. Per questo si era ripromesso che avrebbe fatto di tutto, anche l'impossibile, per poter sgattaiolare via, quella sera, e raggiungerla in quel posto che lei amava tanto. Annuì, quindi «Sai che non mi perderei il tuo compleanno per nulla al mondo. Soprattutto dopo aver visto questa bottiglia di spumante», scherzò con leggerezza per stemperare la tensione «ma l'ultima volta che sono uscito di casa senza permesso ho rischiato di essere beccato, se non mi vedessi arrivare...»
«August», lo interruppe subito Emma, imponendosi anche con lo sguardo duro e determinato «non me ne vado senza salutarti, lo sai», sentenziò guardandolo dritto negli occhi, per fargli capire quanto fosse irremovibile su quel fatto, anche se non credeva che ce ne fosse particolarmente bisogno.
«Sei proprio decisa a partire, quindi?» Fece lui, per tutta risposta. Aveva visto Emma tentare la fuga un'infinità di volte, ma non si era mai preoccupato perché era certo che in qualche modo sarebbe tornata, di sua spontanea volontà o meno. Eppure c'era qualcosa di diverso, quella volta, era come se, attraverso i suoi occhi, riuscisse a scorgere il suo futuro e, in esso, non c'erano altre giornate da passare a Fort Kent. Deglutì scoraggiato, non sapeva come dire addio anche alla sua migliore amica. Emma, alla fine annuì, silenziosa. Riteneva che non ci fossero altre parole da aggiungere. Il giovane Booth sospirò, abbassò lo sguardo e scorse la bottiglia di vetro ancora tra le braccia della ragazza. «Questa penso che sia meglio che la tenga io», affermò togliendogliela dalle mani prima che potesse accorgersene «non riusciresti a fare neanche tre passi senza fartela requisire, e non vorrei mai che la cara Mulan si ritrovasse a festeggiare al posto nostro.»
Quelle parole fecero, finalmente, sorridere Emma. Mulan, o meglio la Signorina Sun, era una delle loro tutrici. Non era una cattiva persona, ma era incredibilmente severa e non ammetteva nessuna trasgressione del regolamento. Era una tale bacchettona, ma conoscendola meglio non si poteva non volerle bene. «Ci vediamo questa sera, allora», sentenziò infine la ragazzina, alzandosi di scatto dalla panchina e voltandosi appena a guardare l'amico di sempre «non fare tardi.»

Boston; Aprile 2016


Esausta. Non c'erano altre parole per descriverla in quel momento. Si chiuse la porta del suo appartamento alle spalle velocemente, neanche fosse inseguita da un branco di cani feroci. Si voltò appena, facendo scivolare delicatamente i piedi sul pavimento, serrò l'occhio sinistro e osservò dallo spioncino, prima a sinistra, in direzione della rampa di scale, poi a destra, per accertarsi di non trovare nessuno. Alla fine sospirò, si tolse la giacca di pelle e la lanciò sul divano poco lontano dall'ingresso, dopo essersi passata una mano veloce fra i capelli per sistemarli come meglio poteva. Se li sentiva elettrici, ed era una cosa che odiava.
Uscita dal lavoro era andata subito a pagare le bollette più urgenti che aveva, per non rischiare di rimanere senza acqua calda o elettricità, ed era rimasta con la notevole somma di 25 bigliettoni. Non di più e non di meno. Si era rintanata scoraggiata nel suo maggiolino giallo che aveva senza dubbio bisogno di una revisione anche lui – la spia del motore era praticamente accesa da anni, si chiedeva quando l'avrebbe abbandonata definitivamente. Una volta parcheggiata l'auto nel posto a lei riservato proprio davanti al palazzo dove abitava, si rese conto di essere ancora indietro con l'affitto e che, quindi, doveva fare ben attenzione a non incontrare i proprietari. Solitamente a quell'ora la Signora Ashley portava la piccola Alexandra a fare una passeggiata, molte volte Emma si era chiesta se quello fosse solamente un fortuito caso o se, cosa di cui ormai era quasi certa, la donna non lo facesse apposta per chiederle, tra le righe e comunque in modo gentile, quando sarebbero arrivati i soldi dell'affitto. Ma non era di Ashley che si preoccupava, ma del Signor Herman, il marito. Era anche lui una persona tranquilla, ma riusciva a farle pressione e più di una volta le aveva detto che non potevano aspettare le rate arretrate ancora per molto.
Così Emma era costretta a sgattaiolare lungo la rampa di scale, scarpe o stivali in mano per evitare anche il minimo suono, calze che più volte la facevano quasi scivolare giù se non fosse stata per la mano ferma sulla ringhiera. Entrava in casa più veloce della luce e, la maggior parte delle volte poteva giurare di sentire, proprio in quel momento, una porta aprirsi nel piano inferiore al suo, quello dove vi era il modesto appartamento dei signori Herman.
Aspettò ancora qualche istante, fino a quando non udì una porta chiudersi, fino a quando non poté affermare a se stessa di averla scampata ancora una volta. Espirò appena, posò gli stivali che ancora le erano rimasti in mano a terra, poi si piazzò sul divano ed accese distratta la tv. Neanche aveva intenzione di guardarla, era solamente un gesto automatico che faceva ogni volta che tornava a casa.
L'ennesima dichiarazione d'amore del Dottor Stranamore, alias Derek Shepherd riempì la casa vuota e silenziosa. Gli occhi di Meredith Grey parvero sorridere di gioia, quelli di Emma Swan rotearono, invece, verso l'alto, provata da tutto quel miele che le faceva solamente venire la nausea.
«Ma lui non era morto, poi?!» Domandò a voce alta, rivolta verso il televisore. Davvero, non capiva. Per giorni si era sorbita l'ultimo dei tanti traumi della Dottoressa Grey, la morte del suo grande amore, ed ora eccolo lì, vivo e vegeto. No, non stava davvero capendo. Prese il telecomando e curiosò tra le informazioni. Ah, era un episodio del 2012, ora aveva capito. Spense la televisione quasi subito, aspettò prima che mandassero la pubblicità, senza un particolare motivo.
Afferrò poi il cellulare, alla ricerca di qualcosa per passare il tempo. Pigiò sul tasto rotondo in basso allo schermo, pronta a “scorrere per sbloccare” con il pollice destro, come da indicazione. Si domandò se ci fosse davvero qualcuno così stupido da non capire al volo cosa bisognava fare per sbloccare il proprio telefono, ma non si interrogò ancora per molto, impegnata com'era a continuare a spingere quel piccolo tasto, visto che la prima volta non era successo niente. Ma lo schermo continuava a restare nero. Okay Emma, non farti prendere dal panico. Panico, sì, era proprio la parola più azzeccata per descrivere il suo stato d'animo; cominciò a sudare freddo mentre partiva ad eseguire dei respiri profondi per non dare di matto. Era completamente al verde, non poteva permettersi un nuovo cellulare, neanche uno dei più economici! Tentò ancora, pigiando il tasto in alto, quello di blocco, tenendolo anche premuto qualche secondo dicendosi che magari lo aveva spento e non se ne ricordava. Okay, non funzionava neanche in quel modo. Calmati Emma, rifletti, non c'è niente che ti sei dimenticata di provare? La batteria! Si alzò di scatto, e un po' goffamente, dal divano e corse in camera sua, non senza rischiare di cadere rovinosamente a terra per ben due volte. Collegò immediatamente il cellulare al caricatore e, din din din din din, bingo!
Sospirò sollevata e si lasciò cadere sopra il letto, il telefono che si accendeva lentamente ancora in mano. Quando tornò con lo sguardo sullo schermo notò subito le diverse notifiche segnalate in rosso, tutte provenienti da Facebook. Rimase impalata per un po', la fronte aggrottata e pensierosa. Sapeva che tra i soliti, numerosi e fastidiosi inviti a giocare a Candy Crush e Farm Ville, ci fosse anche Belle. Cosa voleva quella donna da lei? L'aveva cercata e adesso la contattava per quale motivo? Era successo qualcosa a Neal? No, l'avrebbe saputo. Riguardava, lo stesso, lui? Si domandò se lei e il Signor Gold fossero a conoscenza di quanto accaduto, del resto i rapporti tra Neal e suo padre erano sempre stati difficili, sapeva che potevano arrivare a non rivolgersi la parola per anni (ed era già successo), ma addirittura non sapere che suo figlio non si era più sposato? No, era una cosa impensabile. Ma non del tutto impossibile.
Maledisse Belle, maledisse Neal e maledisse anche se stessa per aver incessantemente pensato a lui in quelle ultime 24 ore. Doveva smetterla, darsi una calmata e riprendere il suo solito contegno. Si alzò dal letto diretta verso il bagno, lasciò scorrere l'acqua fredda per una manciata di secondi, dopodiché si bagnò il volto, dandosi una rinfrescata. Quando tornò in camera, pronta ad affrontare Belle, si sentì al sicuro protetta dalla sua fedele armatura.
- Ciao, Emma. Come stai? :)

La bionda fissò a lungo quello smile, esterrefatta. La futura matrigna del suo ex fidanzato le chiedeva come stava e, soprattutto, aggiungeva anche uno stupido smile. Ma c'era ancora gente che li usava, poi? Lasciò perde e pensò a come rispondere. Cosa si faceva in quei casi? Si mentiva o si diceva la verità? Si poteva scrivere qualcosa come “Il tuo figlioccio mi ha spezzato il cuore, lavoro in una topaia, sono al verde e fra poco mi cacceranno anche di casa. Ma per il resto va alla grande”?
- Salve Belle. Tutto bene, grazie.

Si ritrovò a inviare, alla fine, sbrigandosi subito ad aggiungere:
- Tu?

Si sentiva una stupida senza sapere bene il motivo. Tra l'altro, non aveva visto che la donna fosse online, quindi la sua tempestiva risposta la sorprese e allarmò non poco. Alla fine, comunque, Emma si tranquillizzò sempre più e prese a rispondere alle sue domande eliminando qualsiasi monosillabo dal suo vocabolario. Belle le chiese quasi ogni cosa, se vivesse ancora a Boston, che lavoro facesse, se si trovasse bene e cose del genere. Emma rispondeva cortesemente e con un filo di curiosità che la spingeva a continuare quell'inaspettata conversazione. Alla fine, Miss French sputò il rospo, rivelandole il vero motivo di quell'avvicinamento.
- Sono davvero felice che tu ti sia sistemata, Emma. Nonostante questo, però, vorrei comunque offrirti un lavoro, qui, nell'ormai storica libreria di Fort Kent. Come ben ricorderai, sono l'attuale titolare e unica commessa, ma con i preparativi del matrimonio fatico ad andare dietro a tutto (molte volte la libreria è rimasta chiusa per intere giornate!). Ho davvero bisogno di un aiuto, di una persona valida e di cui potermi fidare. Ho pensato subito a te. Insieme al posto di lavoro, sarà tuo anche l'appartamento sopra il negozio, non è molto grande ma è accogliente. Allora, cosa ne pensi?

Cosa ne pensava? Aveva passato tutta la sua infanzia a cercare di fuggire da quel posto e ora doveva ritornarci con la coda tra le gambe? No, grazie. Certo, il lavoro le faceva gola. Era sicuramente ben retribuito e sarebbe stata più che felice di lasciare sia quello schifo di locale, sia la clientela e sia il Signor Heller, che reputava un uomo viscido come pochi. Ma no, non era così disperata. Non credeva di esserlo almeno e, soprattutto, non se la sentiva ad accettare l'aiuto della futura Signora Gold, le sembrava di cadere più in basso. Sapeva che Belle era una persona buona e generosa, ma non le andava di sentirsi in debito con quella famiglia.
Per queste e molte altre ragioni, alla fine, rifiutò il posto e salutò Belle.


Fort Kent, Maine; Ottobre 2004


Cominciava a non sentirsi più le dita, il naso, le labbra, le orecchie, la faccia. Le auto che le passavano davanti a tutta velocità, facendo così alzare il vento, non l'aiutavano per niente a riscaldarsi, sperava solo che l'autobus non ci mettesse ancora molto, speranzosa di trovare un minimo calore al suo interno. Aveva aspettato August per ore, in quello che era il loro posto, il suo posto al riparo dalla realtà che le girava intorno. Aveva guardato l'acqua calma del laghetto per due ore buone, o almeno pensava, il conto del tempo era andato a farsi fottere dopo poco, quando il gelo della notte autunnale più fredda era calato su di lei. Si era alzata, dicendo che muoversi le avrebbe fatto bene, e anche sicura che ormai non l'avrebbe più raggiunta.
Ora sedeva amareggiata davanti la fermata del bus, le mani nelle tasche del giubbotto grigio, la destra stringeva i pochi bigliettoni che era riuscita a raccattare, curiosando in giro per il dormitorio. Non ne andava fiera, ma sapeva che a quelle ragazze non sarebbero mai veramente serviti, mentre a lei procuravano un bel biglietto di sola andata per un qualsiasi altro posto che non fosse il Maine. Le ginocchia si muovevano velocemente, la faccia guardava a sinistra ogni cinque secondi, speranzosa di vedere i fari gialli del suo tappeto volante. Più che altro cercava di non pensare.
Non vedeva l'ora di lasciarsi quella stupida cittadina alle spalle, non le importava di nessuno, sapeva che non le sarebbe mancata nessuna delle facce che aveva visto in tutti quegli anni. Le ragazze dell'orfanotrofio, le tutrici, quelli che l'avevano fatta sentire fuori posto e quelli che, invece, l'avevano trattata dolcemente e con tutte le cure. Sapeva che si sarebbe dimenticata presto tutti i loro nomi. August era l'eccezione, e le aveva appena spezzato il cuore.
Si erano conosciuti all'orfanotrofio, con Lily formavano un trio piuttosto combina guai, avevano fatto venire i capelli bianchi a parecchia gente. Poi Lily se n'era andata ed erano rimasti da soli; si erano avvicinati tanto e non si erano mai separati, neanche dopo che August venne adottato dai Booth, erano sempre riusciti a incontrarsi in un modo o nell'altro. Sapeva di avergli detto che non sarebbe riuscita a partire senza averlo salutato, ma anche di non poter mantenere quella promessa. Non poteva più aspettare, sperava che lui avrebbe capito. Invece di essere arrabbiata, si preoccupava affinché non se la prendesse, si dava della ridicola da sola.
Due piccole luci si mostrarono a qualche centinaio di metri di distanza: finalmente l'autobus arrivava, e insieme a lui August, che correva a perdifiato dalla parte opposta, gridando come un pazzo incurante dell'orario notturno.
«Emma!» La ragazza si pietrificò, una volta essersi alzata dalla panca pronta ad accogliere il bus «Emma, ti prego aspettami!» Mise su l'espressione più dura che potesse avere e si voltò di scatto, decisa più che mai a tenergli il muso, a farsi ricordare per sempre così, come una che non dimentica il minimo torto subito. Aveva sofferto, aspettandolo su quella panchina per due ore, con solo la consapevolezza che non avrebbe mai più festeggiato il compleanno col suo migliore amico. La consapevolezza che non avrebbe mai più rivisto quell'amico.
Ma poi lo vide, la sciarpa svolazzante al collo, le gambe che correvano veloci, disperate e colpevoli di non essere arrivate prima, il viso contratto per la fatica e, forse anche per il dolore per quell'imminente addio. Quando ormai le fu davanti non poté non sciogliersi. Gli occhi le si inumidirono ma riuscì a trattenere le lacrime. Gli si getto al collo, lo abbracciò forte e così fece lui. «Mi dispiace», affermò il ragazzo «Marc... mio padre mi teneva sorvegliato a vista. Mi ha anche requisito lo spumante, mi dispiace. Mi dispiace», non smetteva di ripeterlo. Emma annuì appena, la testa contro la sua spalla, mentre l'autobus si fermava davanti a loro.
«Devo andare», si limitò a mormorare la biondina, staccandosi dall'abbraccio e poggiando un piede sopra il primo scalino. L'altro, però, la fermò prendendole il braccio destro. La ragazza si girò e notò subito il cellulare che August le stava porgendo «Non capisco.»
«Regalo di compleanno», rispose semplicemente «il mio numero è già salvato. Non voglio perdere anche te, Emma». No, non lo avrebbero fatto, non si sarebbero mai persi di vista, Emma cominciò a capirlo. Prese il cellulare, prima di stringergli la mano per qualche secondo. Entrambi sorridevano, nessuno dei due si vergognava di farsi vedere commosso.
L'autista tossicchiò, aveva fretta di andarsene. Emma gli lasciò andare la mano e salì di un altro scalino. Le porte si chiusero, gli occhi dei due ragazzi non riuscirono a staccarsi dall'altro. August con le mani in tasca, Emma con il cellulare stretto al petto, l'ultimo contatto che gli rimaneva con quel mondo che stava, finalmente, abbandonando. Quando il mezzo prese a muoversi, la bionda corse agli ultimi posti, si sedette con le ginocchia su uno dei sedili in modo da guardare fuori. Continuarono a fissarsi finché poterono, entrambi alzarono la mano sinistra in segno di saluto, prima di vedere l'altro scomparire.
Emma aspettò ancora un po' prima di tornare composta, osservava Fort Kent senza un minimo di nostalgia ma con un nuovo senso di liberazione che cresceva sempre più. Non sarebbe più tornata in quella città, avrebbe trovato la sua casa altrove.


Boston; Aprile 2016


Interminabili attimi di assoluto silenzio. Il locale non era poi così pieno, niente passava inosservato, quindi. Nessuno fiatava, nessuno si muoveva. Nessuno osava mangiare o bere, nessuno girava il cucchiaino nella sua tazzina di caffè o giocava con la cannuccia del suo aperitivo. Emma trattenne il fiato mentre tutti, come un unico corpo, si giravano verso di lei e stavano semplicemente a guardare. La bocca aperta e incredula, il palmo della mano destra ancora aperto e fermo a mezz'aria, il cuore che le martellava neanche avesse corso la maratona.
Lo aveva colpito, aveva davvero alzato le mani contro un cliente. L'uomo si era subito portato la mano sulla guancia colpita, ma Emma era riuscita a vedere il segno rosso che gli aveva lasciato. Provò a parlare, ma le parole le morirono in gola. Le bastò un attimo prima di riscuotersi del tutto; le bastò vedere Isaac correre verso di lei furioso a farla tornare in sé e a fulminarlo con lo sguardo. Alla fine quel tipo se l'era cercata, non era dispiaciuta, affatto, anzi, lo avrebbe rifatto ancora se ce ne fosse stata la possibilità.
«Lei è pazza, Miss Swan,» prese a inveire il proprietario del pub, mentre partiva a gesticolare come un pazzo, dopo aver dato un'occhiata rapida al cliente abituale che ora minacciava di denunciare sia la cameriera che il locale «pazza!» Ribadì il concetto a voce più forte, come a volersi assicurare che quella parola non sfuggisse a nessun orecchio. Si girò verso l'altro uomo cominciando a blaterale scuse su scuse; Emma osservò la scena allibita e schifata, spalancando la bocca prima di scuotere la testa in modo contrariato.
«Mi stava molestando», esclamò adirata, indicandolo con la mano sinistra come se quel gesto fosse della minima utilità. Erano giorni che continuava a importunarla con battutine a sfondo sessuale, all'inizio era leggere e simpatiche ma poi erano diventate pesanti, e quando le aveva palpato il sedere non ci aveva visto più, la mano si era semplicemente mossa verso la sua guancia da sola. «Signor Heller!» Lo richiamò ancora più scocciata, dato che questi pareva non averla minimamente sentita.
Isaac Heller si voltò ad osservarla di controvoglia, serrò i denti e ridusse gli occhi a due fessure dopo che l'affezionato cliente si era detto innocente dall'accusa della giovane, non che lei si aspettasse il contrario. «Si consideri licenziata. Da questo istante. Si tolga pure quel grembiule, posi quello stupido vassoio, prenda le sue cose e se ne vada», la bionda rimase inorridita. Ferma sul posto prese a studiare l'espressione del suo capo, o forse avrebbe dovuto dire ex capo?, per capire se fosse serio o stesse solo facendo scena, ma alla fine scrollò le spalle, posò il vassoio sul bancone e portò le mani dietro la schiena per slacciarsi il grembiule.
«Bene», affermò anche se i lacci non si decidevano a venir via «sono restata in questa topaia fin troppo a lungo», finalmente riuscì a sciogliere il nodo che teneva stretto da quella mattina, abbassò il capo per far passare gli altri sopra il collo e oltre la testa, dopodiché posò anche il grembiule sul bancone, tornando a fissare Isaac con occhi di fuoco e un mezzo sorriso sulle labbra «sa cosa le dico, Signor Heller? Grazie, questa sì che è una liberazione.»
Mezz'ora dopo, appoggiata contro la porta d'ingresso del suo appartamento, non era dello stesso parere. Affatto. Quel lavoro era pessimo, la paga era minima, i colleghi scorbutici, il capo un coglione e la clientela fin troppo maniaca. Ma almeno era un lavoro, le portava dei soldi e così il modo di andare avanti, mentre adesso? Lei era al verde e i tempi per trovare un altro lavoro decisamente pessimi. Cosa avrebbe fatto?
Scoraggiata tirò fuori il suo cellulare dalla borsa, entrò su facebook e selezionò la chat con la futura signora Gold. Non salutò nemmeno, digitando quelle poche parole che decretavano, interiormente, la sua sconfitta.
- L'offerta di lavoro è ancora valida?

Nella sua vita non era mai stata ferma nello stesso posto per troppo tempo. Mai, neanche nel periodo di convivenza con Neal, avevano sempre cambiato città o casa, fino a quando, dopo la proposta di matrimonio, non si erano fermati a Boston, nel vecchio appartamento del Signor Gold. E lì Emma era rimasta anche per i cinque mesi dopo la loro rottura, anche se quelle mura le sembravano sempre più strette, perché non sapeva dove altro andare. Per questo le fece strano consegnare le chiavi ad Ashley, insieme alla promessa che le avrebbe pagato presto tutti gli arretrati. La donna si era fidata e le aveva augurato ogni bene.
Aveva caricato tutte le sue cose in macchina, sorprendendosi del fatto che era riuscita a far entrare tutto in quel suo vecchio maggiolino giallo. Non che avesse molto, due valigie e qualche scatolone con le cose alle quali era più affezionata. Jefferson le aveva dato una mano a portare quelli più pesanti. Non gli aveva chiesto niente, neanche aveva avuto occasione di dirgli che stava andando via, l'uomo l'aveva colta sul fatto, con due scatoloni tra le braccia, mentre usciva per andare a lavoro e subito si era offerto di aiutarla. Le sarebbe mancato, quel tipo, lo realizzò dopo aver abbracciato la figlioletta ed essere salita in macchina. Li aveva osservati dallo specchietto retrovisore per un po', sembravano davvero dispiaciuti di vederla andare via.
Viaggiò per qualche oretta, si fermò un paio di volte per mangiare e per fare pipì, le due cose in due fermate ben distinte ovviamente, giusto per farle perdere tempo. Prese in pieno un dosso troppo alto per i suoi gusti che era scappato dalla sua vista e sobbalzò appena, portandosi d'istinto una mano sulle tette. Ringraziò anche di non essere una tettona, una volta tanto. Cominciò a rallentare quando, anche se lontano, vide il cartello che indicava Fort Kent. Man mano che si avvicinava, in lei cresceva la consapevolezza che quel posto non era cambiato minimamente e questo le fece girare lo stomaco. Non era agitata, non proprio almeno.
Il cartello assumeva la forma di una casa, con tanto di caminetto sulla punta. Era fatto di legno, proprio come lo ricordava. La scritta di benvenuto era piccola rispetto a quella enorme e tutta in maiuscolo che segnava il nome della città, colorata di uno strano e inusuale verde acqua su una striscia con lo sfondo giallo, a sua volta circondata da una striscia colorata di verde. Quello che catturò l'attenzione di Emma, comunque, era la scritta bianca posta proprio sotto al nome della cittadina: “Un posto in cui tornare a Casa!” Casa? Le sembrava difficile che l'avrebbe trovata veramente lì, ma quel pensiero era meglio tenerselo per sé.
Sapeva che sarebbe restata poco, giusto il tempo di mettere qualcosa da parte e trovare un nuovo lavoro in qualche altra cittadina. Ecco, non era ancora arrivata e già pensava a fare i bagagli. Si accorse di essersi fermata proprio davanti la linea di confine, quando era successo? E da quanto tempo era ferma? Scosse la testa per riprendersi, mise la marcia e premette sull'acceleratore.
Un po' di pace, questo chiedeva. Qualche attimo di tranquillità prima di ripartire verso, magari, una metropoli più casinista.
Non le sembrava di chiedere poi molto.


Angolo dell'autrice:
Come promesso eccomi qui! Avrei voluto postare prima di partire (lo scorso weekend), ma avevo il terrore che il capitolo andasse perso visto i problemi del sito, così ho rimandato di una settimana ma alla fine ce l'ho fatta!
Mi è piaciuto DA MATTI scrivere il flashback di Emma. Mi piace inventare le loro storie, anche se, almeno per lei, qualcosa è rimasta la stessa. L'idea di questo trio formato da lei, August e Lily mi ha intrigato e alla fine ho deciso di inserirlo. L'amicizia tra lei e August è andata avanti anche dopo l'adozione di lui ed è cresciuta con loro, anche quando Emma se n'è andata sono comunque rimasti in contatto. Per il resto, ora comincia il divertimento VERO. Non vedo l'ora, sono emozionata. Nel prossimo capitolo verrà FINALMENTE presentato Killian, come la immaginate la sua vita? :P
Spero di aggiornare presto, giusto il tempo di organizzare le idee. Intanto, per chi non ci avesse fatto caso, vi informo che Hello, I love you [...] è ufficialmente conclusa, quindi avrò mooolto più tempo da dedicare a questa storia.
Fra pochi giorni, tra l'altro, ricomincia la nuova stagione. Siete emozionati? Io personalmente non ho molta ansia, ma non vedo l'ora di vedere la trama incentrata finalmente su Storybrooke.
Come sempre vi invito a farmi sapere i vostri pareri, sono davvero curiosa visto che si tratta di un AU :)
Un bacio e a presto :*

  
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