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Autore: Adeia Di Elferas    18/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Da quando Ottaviano era tornato a Forlì, nella rocca di Ravaldino l'ambiente si era fatto abbastanza pesante.

Caterina rifuggiva la compagnia del figlio maggiore e di riflesso passava meno tempo anche con gli altri, presenziando sempre meno spesso alle loro lezioni ed evitando di fermarsi troppo a lungo con loro la sera per raccontare le storie della famiglia Sforza. Non osava nemmeno cercare un contatto con Bernardino, col risultato che Giacomo aveva preso l'abitudine di chiamare il bambino 'mio figlio' e non 'nostro figlio' anche quando erano soli.

In più, marito e moglie si stavano, non sempre silenziosamente, scontrando sul piano politico.

Pur non osando parlarne ancora in pubblico, Giacomo faceva di tutto per convincere Caterina ad aprirsi nei confronti di Napoli e Firenze, mentre lei tentennava, quasi sperando di ricevere un segno di benevolenza da parte di Milano.

Se era vero che si auspicava di restare sempre neutrale, era altrettanto vero che in caso di necessità avrebbe preferito schierarsi a favore della sua famiglia e della sua città d'origine, piuttosto che per Firenze, che aveva cercato appena cinque anni prima – e con azioni violente – di allungare le mani sulle sue città.

Quella sera, dopo cena, i due si erano ritirati subito, lasciando i figli della Contessa in compagnia delle balie e del castellano. Da qualche tempo Bianca aveva preso l'abitudine di cantare per tutti, come aveva fatto la sua omonima zia quando abitava a Ravaldino e così quel passatempo era diventato irrinunciabile per i fratelli e parte della servitù.

Caterina e Giacomo, però, dovevano portare avanti una discussione accesasi al mattino e protrattasi a vari intervalli per tutto il giorno, quindi lasciarono la saletta appena la bambina iniziò il suo spettacolino.

“Non capisci che Napoli ci proteggerebbe le spalle e ci permetterebbe di vincere? Se aspettiamo ancora...” stava dicendo Giacomo, accaldato dal dibattito, mezzo svestito.

Caterina si fingeva interessata al proprio riflesso, mentre si spalmava la crema in viso. La sua cameriera personale era rimasta alla rocca a sentire Bianca cantare e la Contessa le aveva concesso la serata libera.

“Cosa può darti tuo zio? Niente!” esclamò Giacomo: “Ci ha anche tagliato i fondi!” e inconsciamente si portò una mano al camicione di seta, uno degli ultimi regalatigli dalla moglie.

Caterina notò con la coda dell'occhio quel gesto e per un attimo si sentì mancare.

Mentre il ragazzo, in tutto il furore dei suoi ventidue anni, continuava la sua arringa in favore del Fatuo e di Ferrante, Caterina lo guardò con attenzione, cercando di vedere quello che c'era davvero da vedere.

Ne osservò i gesti spezzati e nervosi, lo sguardo perso in pensieri talmente confusi da atterrirlo, la cura ormai quasi maniacale per il suo aspetto, un tempo così selvaggio, attraente senza bisogno di bei vestiti e pettinature alla moda...

Per un terribile momento, rivide il suo primo marito, Girolamo. Anche lui aveva avuto una carriera velocissima e non meritata, ottenuta troppo in fretta e troppo facilmente.

Pur avendo avuto davanti agli occhi l'esempio bruciante di Girolamo, di quello che ne era stato di lui, Caterina aveva commesso con Giacomo, gli stessi imperdonabili errori che Sisto IV aveva commesso con il nipote.

Gli aveva dato potere e prestigio, senza dar peso al suo essere impreparato ed estraneo a quel mondo di tigri e leoni. Pensando di proteggerlo e favorirlo, lo aveva rovinato.

Aveva risvegliato in lui la vanità, l'avidità e la prepotenza. E allora perché non riusciva a disprezzarlo per i suoi modi arroganti e la sua ottusità politica? Perché non riusciva a fare altro che amarlo?

“Mio zio forse non può offrirci niente – ammise Caterina, a voce bassa, mentre continuava a fare il confronto poco edificante tra Giacomo e Girolamo – ma nemmeno Napoli ci darà quello che promette, non illuderti.”

“E perché non dovrebbe?” chiese il ragazzo, facendosi vicino alla moglie: “Sai qualcosa che io non so?”

Una strana luce nei suoi occhi rese Caterina incredibilmente cosciente del ferro che le toccava la gamba, sotto le vesti. Il suo pugnale era lì, nel caso ce ne fosse stato bisogno, per quanto la sola idea la ripugnasse.

“Quel...” cominciò Giacomo, per poi continuare, cercando di controllare almeno i termini, se non il tono: “Ottaviano ti ha detto qualcosa che io non so? Che cosa ha combinato mentre era a Ferrara? Perché non vuoi dirmelo?!”

Il viso di Giacomo era a pochi millimetri da quello di Caterina, che ne sentiva il respiro caldo e irregolare. Non ne aveva paura di lui. Forse avrebbe dovuto, ma non riusciva ad averne.

“Non ha combinato niente e io non so niente che non sappia anche tu.” rispose la Contessa con calma.

Giacomo la fissò per un lunghissimo istante, come a sondarne la sincerità e alla fine si allontanò, dando voce a uno dei pensieri che più lo tormentavano: “Avresti dovuto cacciare Ottaviano, dalla rocca, non mio figlio!”

“Bernardino è anche figlio mio!” reagì la donna, alzandosi per fronteggiare il marito.

Era più alto di lei e decisamente più forte, eppure nel vederli l'uno di fronte all'altra a quel modo, si sarebbe detto il contrario.

Giacomo si morse il labbro, preso in contropiede da quel modo di porsi della moglie e fece per dire qualcosa, forse per scusarsi in qualche modo, ma ormai Caterina si era accesa e non sarebbe stato tanto facile spegnerla.

“Tu lo sai cosa mi stai chiedendo, quando dici che dovrei allearmi con Napoli?” domandò Caterina, con un chiaro tono d'accusa: “Mi stai chiedendo di tradire il mio nome, la mia terra e la mia famiglia. Alcuni dei miei fratelli e mia madre Bona vivono ancora nelle terre del Ducato e se Napoli dovesse davvero muovere guerra a Milano e se la vincesse, sai di loro cosa ne sarebbe? Nella migliore delle ipotesi verrebbero uccisi.”

Giacomo aveva fatto un passo indietro e si era momentaneamente ammutolito.

“La mia famiglia...” riprese Caterina, ma a quel punto il ragazzo decise di contrattaccare.

All'inizio della loro storia, forse non si sarebbe mai permesso di farlo, ma ormai sentiva di avere anche lui un certo potere e conosceva l'ascendente che aveva sulla moglie.

“Mi sembra che la tua famiglia sia stata la prima a tradire te.” disse, appena udibile.

Fu la volta di Caterina di indietreggiare. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Aveva dato lei stessa le armi a suo marito e ora lui le stava usando.

“Loro ti hanno tradita. Ti hanno usata e ti hanno venduta solo per evitare una guerra.” rincarò Giacomo, mentre la Tigre di Forlì, davanti a lui, non appariva più la solita trentenne spavalda e sicura di sé: “Loro, tutti loro, perfino tua madre Bona, hanno messo la ragion di Stato davanti a tutto, perfino davanti a te.”

Richiamandole alla mente il grande tradimento perpetrato nei suoi confronti dalla sua intera famiglia – o almeno così l'aveva sempre visto – Caterina si sentì di nuovo la bambina spaventata e sperduta che si era sentita a nove anni, al palazzo di Porta Giovia, quando suo padre le aveva detto che sarebbe diventata la moglie di Girolamo Riario, nipote di Sisto IV...

Non avrebbe mai più voluto sentirsi così in vita sua.

“Adesso la tua famiglia sono io.” la rassicurò Giacomo, allargando le braccia con fare invitante, offrendole il sostegno che le serviva proprio nel momento esatto in cui lei lo stava cercando.

Caterina così si tuffò nel suo abbraccio il rancore, la paura, la tristezza e la rabbia tutti mescolati assieme e mitigati immediatamente dal tocco delle mani del suo giovane marito.

Giacomo inspirò a fondo il profumo di galbano che si sollevava dalla pelle della moglie e la fece andare verso il letto. La fece coricare e poi, con lentezza, senza dire più nulla, iniziò a sollevarle le gonne.

Quando vide il pugnale, il ragazzo ebbe un momento di esitazione. Da qualche tempo aveva notato che Caterina aveva ricominciato a portarlo con sé tutti i giorni e non più solo saltuariamente.

Non voleva attirare l'attenzione della donna, quindi le tolse l'arma come faceva sempre, sperando di non aver tentennato troppo a lungo.

“Lo tengo con me – fece Caterina, rispondendo alle perplessità silenziosa di Giacomo – solo perché i tempi si sono fatti incerti.”

Giacomo si mise allora sopra di lei, puntellandosi coi gomiti e guardandole il viso ombreggiato dalla luce incerta delle candele, le disse: “Se accetteremo l'aiuto di Firenze, saremo più al sicuro.”

Caterina voltò lo sguardo di lato, offrendo involontariamente il collo morbido e bianco alle labbra di Giacomo.

Mentre il giovane la baciava appena sotto all'orecchio, la Contessa cedette: “Prenderemo qualche accordo preliminare – sussurrò – ma con Napoli. Di Firenze non mi fido.”

Giacomo avrebbe a quel punto voluto dire che lui si era prodigato nello scrivere fior fior di lettere a Piero Medici e non a Ferrante d'Aragona, ma non era il caso di sottilizzare.

Mentre il marito ricominciava a spogliarla, Caterina si sentì, una volta tanto, più preda, che non cacciatrice.

 

I palafrenieri con abiti in broccato, seguiti da una schiera di bambini vestiti di sete dai mille colori, scortavano Giovanni Sforza verso il cuore del Vaticano, la mattina dei 9 giugno.

Il cielo era terso e per fortuna il caldo non era ancora pressante come lo era stato nei giorni addietro alla medesima ora del mattino.

Il signore di Pesaro si lasciò condurre docilmente fino alla Porta del Popolo, sotto la quale l'attendeva un variopinto esercito formato dai parenti dei Cardinali, accorsi per far feste allo sposo.

Tra loro stava l'ambasciatore della Repubblica Veneziana, che si fece largo tra la folla, fino a poter fare il suo discorso direttamente allo Sforza. Voleva rimarcare l'amicizia di Venezia per Pesaro e si felicitava con lui per quel lieto evento.

Le trombe e i pifferi intonarono una melodia allegra che ridiede il passo al corteo, ingigantitosi, che si stava portando verso il palazzo di San Marco.

Giovanni Sforza era troppo agitato per rimirare Campo dei Fiori e poi Castel Sant'Angelo, che pareva quasi inchinarsi di fronte a lui e al suo seguito, in quella luce gloriosa d'estate. Da lì, poi, virarono verso il Borgo, facendo una piccola deviazione per poter passare sotto al palazzo della sposa, in segno di rispetto.

Lucrecia aspettava da sola sulla loggia. Adriana Mila, che l'aveva preparata con tanta cura aveva dovuto mettersi d'impegno per convincere la giovane a lasciare le sue gonne. La tredicenne avvertiva gli occhi di tutti puntati su di lei e ne era in egual misura lusingata e terrorizzata.

Quando il corteo fu proprio sotto il suo palchetto d'onore, Lucrecia non riuscì a nascondere la sua impazienza. Era curiosa di rivedere Giovanni Sforza e tutto quel dispiegamento di paggi e staffieri che lo celavano alla sua vista la irritava.

Il signore di Pesaro vide prima il gineceo papale, in una loggia vicina a quella in cui stava la sua sposa. Assieme a Giulia Farnese, la favorita di Alessandro VI, si affacciavano dal palazzo di Santa Maria in Portico Adriana Mila, le Orsini, le Colonna, le parenti del defunto Innocenzo VIII e altre di varia estrazione e parentela.

Quando finalmente Giovanni ritrovò Lucrecia sul loggione, i suoi occhi restarono catturati da quello che vedevano.

I capelli d'oro della ragazza le scendevano in finissimi riccioli fino ai fianchi e il vestito di broccato le copriva le piccole spalle, facendola apparire incredibilmente indifesa e dolce.

Per un interminabile istante, per Lucrecia e Giovanni scomparvero il fracasso della folla, il suono delle trombe e dei pifferi, la confusione dei colori e delle persone che li circondavano. C'erano solo loro.

Risvegliandosi da quell'improvviso momento di sogno, Giovanni si piegò al cerimoniale, esibendosi in un inchino plateale rivolto alla sposa. Anche Lucrecia rientrò nel suo personaggio e ricambiò quel saluto con una profonda riverenza.

Quasi strappato via con la forza, Giovanni dovette assecondare ancora una volta il corteo che lo doveva portare infine in Vaticano, affinché egli si prostrasse dinnanzi al papa, prima di potersi ritirare presso il Cardinale di Aleria per prepararsi al matrimonio.

 

Gian Piero Landriani e Tommaso Feo si alzarono da tavola scusandosi con le rispettive moglie e si eclissarono parlottando animatamente tra loro, diretti allo studio del castellano.

Quella sera Bianca e suo marito erano stati invitati alla rocca di Imola a cenare, giacché il Governatore e il castellano dovevano portare a termine alcuni discorsi nati quel giorno. Da Forlì erano arrivati ordini di difficile interpretazione, a quanto avevano detto, e insieme volevano cercare di capire cosa la Contessa volesse esattamente senza doverle chiedere esplicitamente altre precisazioni.

“Livio è poi stato meglio?” chiese Bianca, sapendo che sua madre Lucrezia era in contatto regolare con Caterina.

La donna bevve un sorso di vino, mentre i servi si avvicinavano alla tavola per cominciare a sparecchiare, con il bene placito della padrona di casa: “Sì, ha avuto una ricaduta, ma alla fine è stato bene... Una brutta influenza, nulla di più.”

“Deve essere orribile, quando un figlio non sta bene.” constatò Bianca, con un tono che a Lucrezia apparve più grave del necessario.

Con tatto, la donna fece segno ai servi di uscire un attimo e quando fu sola con la figlia le chiese a voce bassa: “Qualcosa non va, bambina mia?”

Bianca scosse il capo, ma era palese che avesse qualcosa da dire. Così Lucrezia le appoggiò una mano sulla spalla e le diede un po' di tempo.

Quando capì che la figlia non avrebbe rotto per prima il silenzio, provò: “Qualcosa non va con Tommaso?”

Lucrezia aveva in Tommaso il genero perfetto. Educato, rispettoso e tremendamente servizievole, sempre pronto ad aiutare e sempre con una buona parola per tutti. Nei confronti della figlia, almeno in sua presenza, si comportava da buon marito, apparendo presente e attento, ma mai opprimente.

Però Bianca non aveva mai fatto un mistero alla madre dei sentimenti che Tommaso aveva sempre nutrito per Caterina e tanto bastava a Lucrezia per stare in pena.

Bianca scosse ancora il capo e disse: “No, no... Lui... Da quando siamo tornati è stato sempre...” si morse il labbro e poi concluse: “So che per lui sono una seconda scelta, quindi vorrei almeno poterlo rendere felice...”

Lucrezia le accarezzò la guancia: “Perché credi che non lo sia?”

“Lui vorrebbe un figlio, lo so, ne abbiamo parlato – rispose Bianca, deglutendo – ma io non riesco a dargliene uno.”

La madre fece un sorriso pacato e le cominciò a rassicurarla: “Prima o poi vedrai che...” ma la figlia le fece segno di non dire altro.

“Un paio di volte è sembrato che...” gli occhi le si fecero lucidi e terminò la frase piangendo: “Ogni volta sembra che tutto vada per il meglio e poi sto male e sanguino e... I medici che mi hanno visitata hanno detto che potrei non essere adatta a generare...”

Lucrezia, a quella rivelazione, restò sconvolta. Bianca non le aveva mai confidato di aver perso dei bambini. La tristezza per quel fatto era quasi oscurata dalla preoccupazione che la donna provò per la salute della figlia.

Le prese la mani nelle sue e gliele strinse, senza riuscire a trovare le parole per consolarla. Come si poteva consolare una donna che affrontava una simile tragedia? Lucrezia aveva avuto sei figli e non ne aveva persi mai. Non poteva nemmeno immaginare il dolore, fisico e dell'animo, che la sua povera Bianca doveva aver provato...

“E invece lei – soggiunse a un certo punto Bianca, tirando su col naso, la voce rotta trasmutata dal rancore che si mostrava improvviso e spietato – è riuscita a partorire anche un bast...”

“Bianca!” la rimproverò Lucrezia, capendo che la figlia si stava riferendo a Caterina: “Non devi parlare così di tua sorella!”

La giovane ritirò le mani da quelle della madre e con un gesto stizzito alzò il mento e concluse: “Non avrei dovuto parlartene. Ora scusa, vado ad aspettare Tommaso fuori dallo studio. Ho voglia di tornare a casa.”

Lucrezia guardò la figlia alzarsi e uscire dalla porta senza trovare la forza di fermarla. Non avrebbe, forse, dovuto interromperla a qual modo. Avrebbe dovuto lasciare che si sfogasse. La sua rabbia, in un certo senso, era legittima, anche se la sua rabbia era pericolosa.

Richiamando i servi affinché finissero di sparecchiare, Lucrezia si alzò da tavola e, sentendosi vecchia come non mai, si diresse verso le sue stanze, improvvisamente desiderosa di stare da sola.

 
   
 
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