4. Bad Wendy
Non appena i suoi piedi tornarono a
terra una sensazione dolce le invase il cuore: sono tornata a casa, si disse.
Sentì i due fratelli giungere poco dopo di lei, e sui loro volti ben chiara era
la gioia del ritorno, anche se un po’ di malinconia serpeggiava ancora nei loro
cuori. L’Isola CheNonC’è sarebbe rimasta sempre nella
loro memoria e con lei tutte le avventure meravigliose che in essa avevano
passato.
Facendo meno rumore possibile, John e Michel si nascosero sotto
le coperte, per allietare la mamma al suo arrivo. Chissà quanto sarebbe stata
contenta a vederli lì, di nuovo nei loro letti, come se nulla fosse successo in
quei giorni...come se tutto fosse stato un sogno.
< Wendy,
mettiti anche tu sotto le coperte > le disse John,
a bassa voce
< Sì, ora arrivo > rispose
lei, andando incontro alla finestra.
Doveva salutarlo…ancora un volta
prima di lasciarlo.
Il vento danzava dolcemente con le
tende azzurre che coprivano la finestra aperta; buone carezze toccavano il suo
vestito da notte, logorato e sporco come non mai; freschi sospiri allietavano
il suo viso, stravolto per il lungo viaggio in volo che avevano appena
compiuto.
Cautamente scostò le tende,
trovandosi davanti il volto fanciullo che mai sarebbe invecchiato.
< Peter…
> sussurrò, accostando una mano alla sua gota, ma egli si scostò
bruscamente, indietreggiando di un poco. I suoi occhi, splendenti come il cielo
del suo mondo lontano, la guardavano con astio, trafiggendole il cuore ancora
immaturo, ma già segnato da tante emozioni.
< Peter…
> ripeté, con voce tremante di sofferenza. Non voleva salutarlo così: voleva
conservare un ultimo ricordo felice < Mi dimenticherai, Peter?
> chiese, timorosa della risposta.
Gli occhi del ragazzo parvero raddolcirsi
un poco < No… > rispose secco, girando, poi, il viso da un lato
< Sono contenta > disse Wendy, con un sorriso pieno di tristezza < Perché neanch’io lo farò >
Il volto, di solito sempre
arrogante, del fanciullo tornò a guardarla: nei suoi occhi, l’astio era
scomparso, mettendo a nudo la sua fragilità. Con movimenti fluidi si avvicinò
alla giovane, che ancora sostava davanti alla finestra. Una delle sue mani si
posò sulla lunga chioma bruna, in cui s’intrecciavano fili d’erba e terriccio
ancora fresco.
< Non ci sarà un’altra Wendy nel mio cuore > le disse, per poi allontanarsi
velocemente < Andiamo Campanellino > esclamò, trovando il suo solito tono
da capitano < Terza stella a destra e poi dritto…fino al mattino >.
E Wendy
vide allontanarsi quel giovane volante, che mai più avrebbe rivisto, ma che
sempre avrebbe vissuto nella sua memoria e nel suo cuore…
Avrebbe raccontato la sua storia ai
suoi figli, ed essi l’avrebbero raccontata ai loro figli, ed essi ai loro
figli, e così via…tramandata di generazione in generazione. E tutti avrebbero
iniziato la storia con…
< Tutti i bambini crescono. Tutti
tranne uno…>
Chiudo il
libro e con un sospiro mi sciolgo nell’abbraccio gentile della poltrona. La mia
mano ancora indugia sulla copertina di cuoio di questo manoscritto, che è il
mio più prezioso tesoro, e le mie dita giocano con le lettere dorate che
compongono il nome di questo mio scrigno.
Il fuoco
scoppietta allegro nel camino, diffondendo un caldo protettivo per tutta la
stanza, e illuminando, con luci e ombre, ogni angolo di questo luogo, per me
paradisiaco: la mia personale Isola CheNonC’è.
Qua, in
compagnia della favola che ho sempre amato, del fuoco caldo e di lui…il mio Peter Pan.
Ora dorme,
tra le pieghe della mia gonfia gonna rossa, con un sorriso soave sul suo volto
di eterno fanciullo.
Si
addormenta sempre quando leggo la sua storia. Crolla prima di poter udire la
fine: la separazione tra Wendy e Peter…lei
crescerà, mentre lui rimarrà un eterno bambino.
“Ma la nostra favola finirà in modo
diverso, vero Peter?
La tua Wendy
non tornerà da quegli adulti cattivi…lei rimarrà bambina…con te…”
Tolgo le
ciocche platino dal volto del mio bell’addormentato,
e il suo respiro mi solletica le dita, come volerle accarezzare per un tacito
ringraziamento. Mi chino e poggio un leggero bacio sulla sua guancia diafana,
ora tinta di fuoco grazie ai riflessi del camino. Appena mi stacco lui
s’immerge di più tra le pieghe del tessuto, con un mugolio soddisfatto ed io
continuo ad accarezzare i suoi capelli, coccolandolo come dal nostro primo
incontro continuo a fare. Non ricordo quanto tempo è passato da quel giorno…so
che è tanto, tanto tempo.
Anche
allora, come tutt’oggi, avevo tredici anni e lui
aveva, e ha, la mia stessa età.
Anche
allora eravamo chiusi in quest’orfanotrofio, dove i
nostri genitori ci abbandonarono per poi non tornare mai più…entrambi…
Ignoravo di
avere un fratello quando c’incontrammo la prima volta, e ignoravo che mio
fratello fosse il medesimo ragazzo che sgattaiolò nel dormitorio femminile nel
cuore della notte. Coraggiosamente sfidò le rigide regole imposte dalle suore,
che proibivano l’accesso in quest’ala
dell’orfanotrofio da parte dei fanciulli (la stessa cosa valeva per le
fanciulle, per quanto riguardava il dormitorio maschile, che comunque erano
meno ardite sulla questione). Una volta all’interno di quella sala, per lui
territorio proibito, si mise a girovagare in mezzo ai letti alla ricerca di una
fanciulla: io.
Mi svegliai
grazie al suo respiro che batteva sul mio volto, e mi ritrovai il suo volto a
pochi centimetri di distanza dal mio. Non reagii: stetti immobile a osservare
quei due occhi azzurri, che curiosi mi osservavano.
- Tu sei Wendy? – mi chiese, in un flebile sussurro. Annuì,
involontariamente.
- Io sono Peter – si presentò – Proprio come il protagonista della
storia che racconti di più – mi disse con un sorriso compiaciuto sul volto
- Conosci
le storie che racconto? – chiesi meravigliata
- Certo! Io
e i ragazzi ci fermiamo spesso ad ascoltarle – saltò in piedi sul mio letto,
provocando brusche onde del materasso – Sono belle e avventurose e…- fui
costretta a interromperlo, premendo una mano sulla sua bocca. Se le suore ci
avessero scoperto…oh, quante frustate avrebbero dato a entrambi!
- Non
parlare a voce alta - gli dissi, mentre lo costringevo a sedersi nuovamente - O
le suore ti scopriranno -
Egli annuì,
e io lo liberai da ciò che gli fermava le parole, costrette in bocca
- Dimmi,
ora, perché sei venuto qui? - chiesi
- Non
riesco a dormire! – mi rispose, sincero – Raccontami una storia –
Fu la prima
volta che me lo chiese…ma non sarebbe stata l’unica…
Dal giorno
successivo io e Peter diventammo inseparabili: lui
m’insegnava a tirare di fionda, a giocare con le biglie, ad arrampicarmi sugli
alberi e io, in cambio, raccontavo favole a lui e ai nostri bimbi sperduti.
Ovviamente
le suore non vedevano di buon’occhio questa amicizia
tra una fanciulla e una marmaglia di ragazzi, così provarono più volte a
dividerci, ma tutti i loro sforzi furono vani: per quanto ci punissero, ci separassero,
ci sgridassero, io e Peter tornavamo sempre insieme,
e continuavamo a essere felici in compagnia dei bimbi sperduti.
Quest’ultimi,
però, iniziarono a lasciarci, uno per uno. Essi non potevano più rimanere
bambini per sempre: ora, gli obbligavano a crescere! Li obbligavano diventare
adulti…
“Cos’hanno di così speciale gli
adulti, Peter? Essi sono crudeli, cattivi, meschini…
Sono proprio loro che ci hanno
portato via i nostri bimbi: quelle dame, dai sontuosi abiti, pronte a regalare
dolci biscotti, a noi proibiti dalle suore; accompagnate da gentiluomini
carichi di buoni sorrisi.
Loro li hanno portati via per farli
crescere! Loro…li hanno obbligati a crescere…
Ma noi non cresceremo, vero Peter? Noi rimarremo sempre bambini, perché noi siamo gli
ultimi rimasti…”
Piano piano, infatti, tutti i nostri bimbi sperduti ci
abbandonarono per diventare adulti, mentre io e Peter
rimanevamo sempre fanciulli.
Piano piano, le suore presero a rimproverarci più severamente,
urlando che ormai eravamo grandi e che non dovevamo più comportarci come
bambini.
Piano piano, vedevamo gli altri bambini farsi sempre più piccoli
e minuti…
Poi, un bel
giorno, di punto in bianco, le suore ci trascinarono in questa stanza e ci
chiusero qui dentro.
All’inizio
eravamo confusi: non capivamo il motivo di quell’improvvisa
scelta, non capivamo perché ci avessero privato della possibilità di correre
per i prati. Però eravamo felici: eravamo ancora insieme, in questa nuova Isola
CheNonC’è! Eravamo ancora insieme…
“Tu non mi abbandonerai mai, vero Peter? Mi resterai sempre vicino…”
Iniziarono
a pulirci con attenzione, a farci curare da veri dottori, a vestirci con abiti
che avevamo visto solo indosso a quelle dame e a quei signori che venivano a
rapire i nostri bimbi sperduti, a nutrirci con ogni leccornia, a viziarci con
ogni giocattolo e libro che desideravamo.
Non
riuscivamo a capire perché, ora, venivamo trattati da piccoli lord. Finché non
arrivò quel giorno, in cui la verità ci fu sbattuta davanti agli occhi, senza
alcun preavviso, senza alcuna dolcezza…
“Gli adulti sono tutti meschini,
vero Peter? Ma noi non lo diventeremo. Noi saremo
sempre buoni, perché saremo per sempre bambini…”
Ricordo che
era una bella giornata: luminosa, fresca, profumata come una delle tante
giornate di primavera. Gli altri bambini giocavano allegramente per il
giardino, mentre io e Peter eravamo costretti a
restare in quella piccola stanza, rimpiangendo le dolci carezze della
verdeggiante erba di Maggio. Ma presto ci lasciammo alle spalle quei rimpianti,
e ci mettemmo a giocare.
Giocavamo
ai pirati e Peter era in netto vantaggio, anche a
causa dei vestiti tanto comodi che indossava, al contrario di me, costretta in
un sontuoso abito carico di pizzi e merli. Saltavamo da un letto all’altro,
brandendo le nostre spade di legno, gridando – All’erta marrano! – o – Ti
ucciderò vile canaglia! -.
Ridevamo,
cadevamo, ci rialzavamo, ci colpivamo a vicenda, gridavamo e poi ancora
ridevamo.
Eravamo
felici, perché ancora eravamo insieme…
Proprio
mentre saltavamo da una parte all’altra della stanza, evitando con maestria le
pile di libri e di giocattoli sparsi per la stanza, ecco aprirsi la pesante
porta di quercia, che ci divideva dal resto del mondo: sull’uscio sostava
l’esile figura della Madre Superiora dell’orfanotrofio.
In
rarissime occasioni i bambini potevano vederla, eppure chi aveva avuto la
fortuna di avere anche un solo breve incontro, ricordava a lungo quel volto
gentile, cosparso di aura fatata, che si distaccava nettamente dai volti duri e
spigolosi delle altre donne. Io stessa la incontrai un’unica volta, e ancora
ricordavo la bellezza del suo volto e la profonda dolcezza che esso emanava,
anche se quel giorno il velo di zucchero dei suoi occhi, azzurri come frammenti
rubati al cielo, era stato mischiato con un pizzico di tristezza.
I suoi
capelli erano perpetuamente coperti dal velo nero, che contraddistingueva le
donne del Signore, ma due ciuffi sbucavano sbarazzini da quella prigionia,
mostrando il colore dorato di quella chioma celata.
Ci si
avvicinò con una camminata talmente sinuosa, che fu in grado d’ipnotizzarci.
Sia io che Peter, infatti, ci sedemmo immediatamente
su uno dei letti, come mossi da un muto ordine, mentre le altre suore
abbandonavano la nostra Isola, lasciando solo la Superiora.
Essa si
fermò solo quando ci fu dinnanzi, permettendoci di scoprire quelle profonde
linee che le rigavano il volto. Stava invecchiando…
Ci sorrise
mitemente, aumentando il numero di linee che deturpavano il suo bel viso
fatato.
-
Buongiorno – ci salutò, donando una carezza a entrambi. Quanto buone erano le
sue mani! Quanto caldo era il suo gesto…materno…
“E’ stata furba, vero Peter? Prima ci ha donato bianchi granelli di zucchero, per
poi avvelenarli con l’acido di un limone. Crudele! Ci ha ingannato!”
Dopo averci
incantato con la sua polvere luccicante, iniziò a raccontarci una storia…una
strana storia…
Ci spiegò
che lei, ancora giovane, s’era presto sposata con il Signore, che aveva dovuto
rinunciare all’amore terreno per mantenere puro quello spirituale. Ma lei non
era stata una buona sposa…aveva tradito il suo buon marito con un affascinante
giovane scrittore: lo incontrò casualmente la prima volta, e poi, senza che
neanche se ne accorgesse, cominciò a incontrarlo con sempre maggior frequenza,
finché non era diventata una sporca peccatrice, unendosi a quel corpo dalle
sembianze angeliche.
Sentivo la
voce della Madre Superiora sempre più sofferente, mentre le sue mani pallide
stringevano tremanti quelle mie e di Peter, ancora
intenti ad ascoltare la sua strana favola…
Continuò
dicendo che il Signore l’aveva punita e allo stesso tempo benedetta per quel
tradimento: dopo mesi erano, infatti, venuti alla luce i due frutti della sua
peccaminosa unione. Due bellissimi frutti dai capelli dorati come quelli degli
angeli, e dagli occhi azzurri come il cielo di primavera, stagione in cui
avevano aperto gli occhi quei figli del male. Ma anche se erano figli del male,
lei non poteva fare a meno di amarli perché erano suoi figli! I suoi adorati
figli…
Chiese alla
Madre Superiora di quel tempo di accettarli tra i bambini dell’orfanotrofio,
così che potesse almeno vederli crescere da lontano.
- E sono
cresciuti… - ci aveva sussurrato con voce roca, mentre lacrime rigavano il suo
volto – Sono cresciuti, splendenti come il sole, belli come la luna…- continuò,
accarezzando con le mani tremanti i nostri visi, mascherati d’incredulità.
Avevamo saputo la verità…
“Siamo fratelli Peter,
figli di una donna che non ci ha voluto…Lei è cattiva, vero Peter?
Ma io non sarò mai cattiva, non ti preoccupare. Perché io rimarrò sempre
bambina”
Peter
sconvolto mi guardava, mentre cacciavo in malo modo quella donna che ci aveva
rivelato di essere la nostra comune genitrice, la stessa donna che ci aveva
privato dell’amore di una reale famiglia. Quando fu sulla soglia della porta si
voltò a guardarci e quello che disse ci colpì…dritto al cuore…
- Vi prego,
bambini miei…crescete -
“Crescere? Perché dobbiamo crescere,
Peter? Si sta così bene da bambini…”
Nei giorni
successivi la vitalità di Peter si spense: rimaneva
sempre più spesso nascosto sotto le coperte in un silenzio sommerso nelle
lacrime. Lentamente smise di giocare, di ascoltare le mie favole. Iniziò a
rifiutare il cibo, diventando sempre più pallido e consumato, aumentando la sua
somiglianza con uno spettro tormentato. Anche quando m’infilavo nel suo letto,
accarezzandolo dolcemente nel dormiveglia, le sue lacrime non si placavano, e,
a poco a poco, iniziò a staccarsi completamente da me, rifiutando ogni mio più
piccolo gesto.
E io soffrivo…soffrivo
perché non potevo salvarlo da quell’abisso nero in
cui aveva scelto di cadere.
Ma alla
fine…alla fine Peter si risvegliò. Un giorno, così,
d’improvviso, lui era tornato il Peter di sempre:
sorridente, allegro, pronto a giocare, mangiare, ascoltare le mie storie, ad
accettare di nuovo le mie carezze.
E ora, lui
è qui con me, che si muove per uscire dal sonno. Presto i suoi occhi di
cristallo si aprono incontrando il mio volto, piegato premurosamente sul suo
- Peter? – lo chiamo, togliendogli dal volto le ciocche
dorate
- Wendy sei qui – mi sussurra lui, accarezzandomi le gote,
arrossate per l’eccessivo calore della stanza.
Mi sfiora
delicatamente, come se stesse toccando un sogno, ma poi sorride notando che non
il mio corpo non è inconsistente.
- Ho fatto
uno strano sogno…- mi spiega, scuotendo vigorosamente la testa – Noi
due…ecco…beh, non fa niente…- lascia cadere il discorso, con un nuovo sorriso
che gli piega il volto.
“Vuoi lasciarmi, Peter?
Vuoi abbandonarmi per andare in quel mondo che odiamo?…il mondo degli adulti…”
- Non mi
lascerai mai, vero Peter? –
Quella
domanda esce spontanea dalla mia bocca, mossa dalla paura di separarmi da quell’eterna creatura immortale, come me…
I suoi
occhi mi guardano interrogativi, quasi non capisse ciò che gli ho appena
chiesto. L’ansia deve aver storpiato il mio volto, perché presto la sua risata
riecheggia nell’aria, come a volermi risollevare
- Non
potrei mai lasciarti, Wendy – mi rassicura, tornando
a posare le mani sulle mie gote.
Tiro a
forza un sorriso, per dirgli che la sua risposta mi ha soddisfatto. Ma quella
teatrale piega del mio volto sparisce quando le labbra di Peter
sfiorano, con delicata innocenza, le mie, per poi ritirarsi intimorite.
- Resterò
sempre qui con te, Wendy – mi dice, tornando a
poggiare la testa sulle mie gambe e spargendo
i suoi fili
dorati sulla mia gonna bordò, per poi immergersi nuovamente tra le pieghe di
rosso velluto
- Resterò
per sempre bambino insieme a te. E tu, Wendy? -
Con
lentezza la mia mano, poggiata ancora sulla rilegatura del libro che mi ero
deliziata a leggere, prende ad accarezzare quel volto che rilassato s’appoggia
sul mio grembo.
- Resterò
per sempre bambina…con te…-
*
Non riesco
a trattenere le lacrime, che, impetuose, si sciolgono dai miei occhi, fissi a
osservare quella dama, ormai ventenne. Ma nonostante il suo corpo sia quello di
una donna pronta a nozze, la sua mente è rimasta quella di una fanciulletta di tredici anni.
Le lacrime
accarezzano le mie guance, mentre i miei occhi s’appannano, privandomi di quell’immagine per me tanto dolorosa, che sono costretta a
osservare solo attraverso una piccola finestrella che si apre su questa spessa
porta di quercia. So che se mi vedrebbe, la sua fragile mente crollerebbe del
tutto. E allora la guardo da lontano, rattristandomi di quell’illusione
in cui è caduta la mia bambina.
I lunghi
capelli dorati cadano morbidi sulla sua schiena, coperta del nero pizzo del
lutto; i suoi occhi, una volta splendenti come diamanti, ora sono vuoti,
privati d’anima, fissi a guardare un punto vuoto sulle sue ginocchia, e su quel
punto continua a danzare la sua mano, in ritmiche e dolci carezze, dedicate al
nulla. E infine il suo sorriso, quello che storpia mostruosamente quel volto,
facendolo sembrare quello di una folle.
Ma in fondo non è questo che è diventata la mia bella bambina?
Da
peccatrice creai quei due bellissimi frutti, e il Signore mi punì rendendoli
folli, proibendo alle loro menti di crescere, seguendo i loro corpi. Quando
raggiunsero i 16 anni, fui costretta a separarli dagli altri bambini,
chiudendoli in questa stanza, che loro rinominarono l’Isola CheNonC’è…
Oh, Johnatan, in loro si è riversata tutta la tua dolce
fantasia! Quella fantasia che mi spinse ad amarti e che ora ha maledetto i
nostri due splendidi figli!
Per due
anni interi li tenni chiusi in questa stanza, senza alcun contatto con
l’esterno, nella speranza che guarissero da questa loro pazzia. Ma la mia
speranza era del tutto vana: loro continuavano a rimanere due bambini, e come
tali continuavano a comportarsi.
Disperata e
distrutta da quella situazione, tanto dannosa per le mie due creature, decisi
di raccontarli tutto: raccontai a entrambi la mia, la loro storia e…feci il mio
primo errore: sconvolsi le loro menti, delicate come cristalli. Gli avevo
spaventati rivelandoli che la loro peggiore paura si era trasformata in realtà:
stavano crescendo!
Con quelle
mie parole in testa, i miei due bambini, reagirono in maniere completamente
differenti: mentre, infatti, Wendy rinnegava con
forza l’evidenza, nel cuore di Peter il seme del
dubbio aveva piantato le sue radici, sospendendolo in una dimensione che
sostava tra follia e sanità mentale. Immerso in quella confusione, però, iniziò
a perdere tutta la sua vitalità, arrivando a rifiutare sonno, cure, cibo e le
attenzioni che la dolce sorella era solita dedicargli.
Così
facendo, Wendy si disperava dalla sofferenza, sentendosi
impotente davanti alla “malattia” del gemello. Impotente…come una bambina!
E, nel
contempo, il dolore dei miei due piccoli, mi straziava il cuore, me lo lacerava
lentamente, me lo stracciava con perverso piacere. Così, mi vidi costretta a
intervenire una seconda volta, mossa, questa volta, dal desiderio di placare quell’auto-distruzione, a cui i miei figli si erano
dedicati. E sbagliai, per la seconda volta…questa volta fatalmente…
Nuovamente
cercai di essere persuasiva, usando il comune tono che una madre usa con i
frutti del proprio ventre, spiegandoli di nuovo tutto, con maggiore calma e
pazienza, come se realmente mi trovassi davanti a due bambini.
Questa
volta, quando terminai, non venni cacciata in malo modo dalla mia bella
fanciulla, la quale fu preceduta dall’annunciò che Peter
decise di darci:
- Io voglio
crescere…mamma…-
Se in me,
quelle quattro semplici parole, avevano fatto nascere una nuova e splendente
gioia, le stesse avevano distrutto definitivamente il cuore della sorella, e,
peggio ancora, la sua mente, già instabile.
Ricordo
ancora la felicità infantile che custodivo nel cuore, quando quella notte
m’immersi nel sonno.
Ma il
lustro della gioia tramontò su un mare rosso di sangue…
La mattina
seguente fui svegliata dalle urla di alcune giovani novizie, incaricate di
portare la colazione ai miei due fanciulli. Non compresi cosa esse
balbettassero tra le grida e le lacrime, ma capì all’istante che qualcosa di
terribile era successo…qualcosa che nemmeno la Confessione avrebbe potuto
lavare dal mio cuore.
Corsi verso
l’ Isola CheNonC’è, senza curarmi minimamente di
essere ancora in veste da notte. L’immagine straziante, che lì mi accolse, mi
colpì in pieno stomaco, con la stessa forza di un calcio: i muri, i pavimenti,
i letti, i giocattoli…tutto era imbrattato di uno scuro liquido rubino: sangue!
Lo stesso
che s’allargava, come un lago, attorno alle uniche due figure presenti all’interno:
vi era Wndy, i capelli dorati imbrattati con quel
liquido denso, che le macchiava anche il volto diafano; tra le braccia reggeva
il corpo inerme di Peter, sommerso dal suo stesso
sangue, a cui era stato aperto completamente il torace, mostrando gli organi
interni, ormai non più pulsanti. Poco più in là, vicino alla mano riversa del
mio bambino, un coltello annegava nel rosso.
Eppure non
era tutto quel sangue a rendere così straziante quella scena, di per se
raccapricciante: era quello sguardo azzurro, privo d’anima, fisso a guardare
l’altro sguardo zaffiro, privo di vita.
Tre giorni
dopo fu celebrato il funerale. Chiesi esplicitamente che fosse il mio bambino
fosse seppellito con degna cerimonia funebre, nonostante egli fosse nato dal
peccato e fosse morto da un altro peccato. A quella cerimonia io e poche suore,
che s’erano affezionate ai miei due gioielli proibiti, eravamo presenti.
Neanche Wendy era lì con noi, poiché, nonostante lei
stessa abbia martoriato quel corpo, posseduta da una cieca furia diabolica,
ancora vede la figura del fratello, come s’egli non l’avesse mai abbandonata.
Anche se il
suo corpo è qui, infatti, la sua mente è persa in altri luoghi…proprio come se
fosse morta…
E di nuovo
le lacrime prendono a scivolare sul mio volto, mentre il mio corpo cade in
ginocchio, oppresso dalle pene e dai Mea Culpa che aleggiano su di me.
Li
amavo…amavo entrambi…
I miei due
frutti del mio ventre, figli di un tradimento peccaminoso, eppure belli e
splendenti come angeli. Come potevo non amarli?
E loro sono
morti…morti per causa mia, poiché volevo strapparli da quel loro mondo, troppo
perfetto per essere reale; poiché volevo farli crescere per farli fuggire al
più presto da questo orfanotrofio, che, anche se non dovrei mai dirlo, da solo
sofferenza alle piccole creature abbandonate; poiché volevo sentire l’egoistico
sentimento della soddisfazione, che una madre prova per il proprio figlio…
Ti ho
tradito, mio Signore…ho sporcato con il peccato il Nostro Sacro Matrimonio, e,
peggio, ho amato follemente quel peccato…
E tu mi hai
punito! Mi hai punito facendomi macchiare del sangue di quell’amato
peccato! Mi hai punito facendomi assistere, impotente, alla fine dei miei due
figli, che avrei dovuto odiare poiché creature di un atto malefico…Ma come può
una madre odiare i propri figli?
Dimmelo,
Signore, perché in te ancora io confido!
Dimmelo,
Signore, perché io, anche dopo tutto questo, continuo ad amarli!
Dimmelo,
Signore…ti prego, dimmelo…
Pater Noster…