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Autore: WillofD_04    25/09/2016    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Quando misi piede sul sottomarino di Law per la prima volta, mai avrei potuto immaginare ciò che mi aspettava. Il chirurgo mi aiutò a scendere dalla barca tendendomi la mano. Quando mi girai verso la nave dei mugiwara strinsi gli occhi per vedere meglio. In lontananza mi parve che stessero tutti a guardare il mio nuovo inizio su quel sommergibile e che mi salutassero. Nel dubbio, scossi la mia mano in segno di saluto. Decisi di imprimermi bene quella scena nella mente e nel cuore.
Tutta la ciurma, composta da venti uomini, dei Pirati Heart si era radunata sul ponte.
«Capitano! Finalmente ci hai portato un’altra ragazza nell’equipaggio!» fece quello che riconobbi essere Penguin. Il suo amico Shachi annuì compiaciuto. Non sapevo come comportarmi. Tutti mi fissavano, forse in attesa che dicessi qualcosa.
«Ciao» cominciai «io sono Camilla. Ma chiamatemi pure Cami» dissi, incerta. Ci furono attimi di silenzio che mi parvero interminabili. «Anche se alcuni di voi credo che lo sappiano già, visto che mi avete già conosciuta durante la festa di qualche giorno fa, sul ponte della Thousand Sunny» proseguii poi, decisa a terminare quel momento fatto di quiete imbarazzante.
«Cami, giusto» proclamò poi Penguin, come se stesse soppesando quel nome e ricordandosi di me. «Mi piace» da sotto il cappello potei vedere il suo viso aprirsi in un largo sorriso.
«Beh, Cami, benvenuta a bordo!» esclamò il compagno che lo aveva appoggiato poco prima.
«Grazie!» la mia voce un pochino stridula tradiva la mia emozione.
«Non fare caso a questi idioti. Possono essere fastidiosi, ma ti garantisco che sono innocui» una figura minuta si fece largo tra la folla.
«Io sono Maya, molto piacere» una ragazza dalla pelle color caramello, gli occhi color cioccolato fondente, il naso alla francese e i capelli ricci, abbastanza corti e folti, mi si parò davanti con uno smagliante sorriso e la mano tesa. La strinsi debolmente.
«Tanto per la cronaca, sono contenta che ci sia un’altra donna nell’equipaggio. Cominciavo a sentirmi un po’ sola. Law ha fatto bene a dirti di venire!» continuò lei vedendo che io non spiccicavo parola. A quella sua esclamazione io e Traffy ci scambiammo un’occhiata fugace. Dovetti sforzarmi per non scoppiare a ridere davanti a tutti i suoi sottoposti. Se avessero saputo che lo avevo incastrato...a pensarci bene, avrei potuto ricattarlo ancora con quella storia. Gli avrei potuto chiedere di avere dei privilegi in cambio del mio silenzio. Comunque, fino a quel momento ero stata così presa dal cercare di apparire normale davanti alla ciurma di Law, che non mi ero accorta che il tempo era cambiato. Non c’era più il sole ma solo una vasta distesa di nebbia. Mi girai freneticamente in cerca della Sunny, ma non ce n’era traccia. Fui presa da un momento di panico misto a sconforto. Fu come se tutte le mie sicurezze fossero crollate nel preciso istante in cui i miei occhi non avevano trovato l’imponente nave. Presi un profondo respiro nel tentativo di calmarmi e di non far vedere a tutti la mia agitazione e il mio malessere. Una mano dalle lunghe dita affusolate si strinse decisa attorno al mio braccio, riportandomi alla realtà e facendomi in parte calmare. Rimasi a fissarla più a lungo di quanto avessi voluto.
«Ti mostro la tua stanza» annunciò il mio capitano. Senza aspettare risposta, fece una leggera pressione sul braccio affinché lo seguissi. Non obiettai e mi lasciai condurre, sotto lo sguardo vigile di tutti.
 
Osservavo con meticolosità tutti i particolari dei corridoi angusti – ma non troppo – del sottomarino. Erano piuttosto grigi e spogli, come mi aspettavo che fossero. Avevano un’aria solenne, non come un edificio antico dalle ampie volte e dalle decorazioni rifinite, ma come un luogo dove si salvano vite o dove si fanno ricerche mediche di estrema importanza. E probabilmente proprio per questo sui muri non vi era una crepa e sul soffitto non c’era alcun segno di qualche infiltrazione d’acqua. Giurai perfino che sul pavimento ci si potesse mangiare da quanto era pulito. Gli interni del sommergibile rispecchiavano il modo di essere di Law. Freddo, impersonale e spento, ma impeccabile ed ineccepibile.
«Da adesso in poi scordati qualsiasi soprannome con cui tu mi abbia mai chiamato. Per te, come per il resto dei miei sottoposti, io sono il Capitano» calcò sull’ultima parola quasi fosse una questione di vita o di morte. Beh, forse per me lo era...
«Bepo ti spiegherà tutte le altre regole da rispettare e ti consegnerà la divisa»
Mi fermai di colpo e lasciai cadere il borsone con i miei effetti personali sul pavimento.
«Divisa? Quale divisa?» il mio sguardo era bieco. Poi d’improvviso mi ricordai.
«No. No, no. Non esiste. Io quella cosa non me la metto. Non sono né un’apicoltrice, né una disinfestatrice, né tantomeno una carcerata. Non intendo indossare quella trappola infernale fatta tuta. Mai e poi mai.»
Il chirurgo della morte non si era fermato. «Come te la cavi con il nuoto?» chiese.
«Nuoto?»
«Se parti adesso, potresti raggiungere Mugiwara-ya in cinque ore, al massimo.»
Buttai fuori un sospiro rassegnato e sibilai un “ti odio” così a bassa voce che a malapena mi sentii io.
In poco tempo arrivammo alle cabine. Ne passammo una decina prima di arrivare in fondo al corridoio. Eravamo arrivati all’ultima porta a sinistra. Il pirata la aprì. La stanza che mi si presentò davanti era una singola.
«Sei stata fortunata. Per il momento c’è questa cabina singola disponibile» mi annunciò.
Era abbastanza spaziosa per essere una singola. Al centro vi era il letto, con le lenzuola rigorosamente grigie e bianche, proprio come i muri. A vederla pervadeva un certo senso di tristezza. Accanto al letto, sulla destra, c’era un comodino in mogano, alto e con tre cassetti. Sopra di esso c’era una abat-jour che illuminava fiocamente il resto della stanza. Schiacciato lungo la parete destra c’era l’armadio, anch’esso grigio. Lungo la parete opposta, invece, c’era un piccolo scrittoio accompagnato da un’altrettanto piccola lampada. Allungai la testa per capire se la cabina fosse finita lì, ma ancora non avevo visto il bagno, la cui porta d’ingresso era situata accanto alla scrivania. Non era molto grande, ma lo era abbastanza per farmi sentire a mio agio. Per di più era pulitissimo. Comprendeva un water, un lavandino, una doccia e un mobiletto a specchio per i medicinali. Non c’era il bidet ma avrei potuto farne a meno. Non pensavo di poter avere il privilegio di avere un bagno privato. Avrei detto che finora la sistemazione mi andasse più che bene. C’era un’unica pecca: non c’erano finestre. Gli unici sprazzi di luce, oltre alle due lampade, provenivano da un oblò situato sopra al tavolo.
«Da questo momento fino a nuovo ordine, questa è la tua stanza. Puoi gestirla come ti pare, ma dovrai averne cura» si pronunciò Law, calmo e serio come suo solito. «Vedi di non affezionartici troppo».
Questo poteva essere un problema. Io non sapevo nemmeno come si rifacesse un letto. Cercai di non scoraggiarmi. Avrei avuto tempo e modo di imparare tutto quello che c’era da imparare sulle faccende domestiche. Prima che me ne accorsi, il chirurgo si era già avviato alla porta.
«La chiave non c’è, vero?» chiesi io, nella speranza che in realtà ci fosse
«Non siamo più nel tuo mondo» mi rispose lui «ma non temere, i miei uomini sono educati. Busseranno» lo disse quasi con disprezzo.
«Il pranzo è alle tredici. La cena alle venti» aggiunse, prima di chiudersi definitivamente la porta alle spalle. Fissai il punto in cui era scomparso a braccia larghe e sguardo attonito. Una prigione. Ero finita in una prigione. Mannaggia a quello stupido medico.
 
Prima che me ne accorgessi fu l’ora di pranzo. Uscii dalla mia camera dopo aver sistemato la mia roba ed aver testato che tutto fosse funzionante. Avevo passato a fare su e giù con l’interruttore delle lampade per mezz’ora buona. Mi ero anche sdraiata sul letto per capire se fosse comodo. C’era di peggio.
«Oh! Bentornata tra noi, Cami!» esclamò Penguin vedendomi arrivare. Era un tipo piuttosto esuberante. In risposta chinai leggermente il capo e sorrisi.
C’erano due tavoli apparecchiati nella sala da pranzo. Li fissai un po’ disorientata. Tutti avevano preso posto come se nulla fosse, ma io non avevo idea di dove sedermi. Per fortuna arrivò in mio soccorso Maya, che mi fece cenno di prendere posto accanto a lei.
«È una delizia per gli occhi sapere che finalmente ora siamo bilanciati» fece un tizio seduto vicino a Maya. Non riuscivo a capire. Per fortuna ci pensò la mia nuova amica a spiegarmi.
«Ora che sei dei nostri, siamo ventuno togliendo il capitano, che sta a capotavola. Questo vuol dire che ci sono undici membri per tavolo e undici membri per lato. Siamo perfettamente equilibrati» mi rivolse un sorriso raggiante. I conti non mi tornavano. Se Law sedeva a capotavola, perché eravamo undici per lato? Chi mi ero persa? Dovevo avere una faccia piuttosto stranita, perché l’altro tizio intervenne.
«È perché Jean Bart occupa due posti» sussurrò, suscitando la mia allegria. Anche tre, avrei voluto dirgli io, una volta che ebbi osservato meglio la sua stazza. Ma se in quel modo eravamo in equilibrio, non fosse mai che mi sarei permessa di sconvolgerglielo. Del resto, sapevo bene quanto a Law piacessero le cose bilanciate.
«Io comunque sono Omen, piacere» aggiunse.
Ci presentammo e per qualche minuto parlammo del più e del meno. Era un ragazzo di aspetto e di corporatura normali. L’unico tratto particolare che lo contraddistingueva erano i capelli dritti e ondulati. Mi aveva anche confidato che quando c’era da combattere si metteva una maschera sul volto. Non chiesi il perché. Lui e Maya però, sembravano parecchio affiatati; anche se avrei scommesso la mia nuova camera singola che Omen fosse più giovane di lei di qualche anno.
«Scusate, ma che stiamo aspettando?» chiesi ai due ragazzi, quando notai che, nonostante il cibo fosse stato servito e tutti fossero seduti, nessuno stava mangiando.
Entrambi mi guardarono con un po’ di tenerezza, come si guarda una bambina ingenua che ha appena detto una cosa stupida.
«Il capitano!» disse Maya con enfasi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Solo in quel momento mi accorsi che Law non era a tavola.
«Capita spesso che si trattenga nel suo studio e faccia tardi» mi spiegò.
Perciò non solo noi dovevamo essere puntuali come orologi svizzeri mentre lui poteva prendersela con tutta calma, ma pretendeva addirittura che lo aspettassimo? Certo. Equo. Davvero molto equo. Dopo un primo momento di irritazione, che mi aveva portato ad appoggiarmi contro lo schienale della sedia, incrociare le braccia ed agitare il piede sul pavimento, pensai a come avesse fatto la ciurma di Law su Zou, senza il suo prezioso capitano. Non avevano mangiato per niente in attesa che ritornasse? O per una volta se ne erano fregati? A giudicare dalla corporatura di qualche presente, il cibo non doveva aver costituito un problema per loro.
Finalmente il chirurgo si degnò di presentarsi. Era in ritardo di un quarto d’ora. E pensare che quando eravamo nel mio mondo mi aveva ripreso infinite volte per la mia tendenza ad essere sempre in ritardo. Dunque anche lui era un altro di quelli che predicavano bene e razzolavano male.
Dopo che tutti ebbero osannato il capitano, potemmo finalmente iniziare a mangiare. Nel menu erano compresi spaghetti al sugo, vari contorni e braciole di maiale.
«Ti piace?» mi chiese Maya indicando il mio piatto di pasta. Mi piaceva? Sì, non c’era che dire, era buono, ma dopo aver assaggiato la cucina di Sanji – e aver mangiato solo piatti cucinati da lui per lungo tempo – tutto il resto sembrava senza sapore. Feci di sì con la testa assumendo un’espressione nostalgica.
«Il capitano ci ha detto delle incredibili capacità del cuoco di cappello di paglia» fece Omen, che probabilmente aveva intuito a cosa stessi pensando
«Non c’è molto da dire. Ciò che cucina è magico. Lo assaggi e ti sembra di essere in un altro mondo»
«Wow»
«Già. Ti auguro di non provare mai la sua cucina o ti sognerai il sapore delle sue pietanze la notte» scherzai io, arrotolando gli spaghetti alla forchetta.
Poco dopo finii di mangiare. Avevo già deciso che non avrei preso le braciole. Per pranzo era meglio tenersi leggeri. Fissavo il piatto non del tutto vuoto. C’era rimasto del sugo. Mi guardai attorno per cercare il pane. Non ce n’era traccia. Potevo capire l’avversione di Law per tutto ciò che contenesse lievito e farina, ma come si poteva vivere senza il pane? Senza la pizza? Come poteva sopportarlo la sua ciurma? Ma ciò che mi premeva di più era un'altra cosa: come la facevo io la scarpetta?
 
 
Più i giorni passavano, più riuscivo a capire come funzionavano le cose su quel sottomarino e più mi ambientavo. I primi tempi furono tremendi. Mi dividevo tra faccende domestiche – che comprendevano apparecchiare, sparecchiare, lavare i piatti, fare il bucato, pulire e una lunga lista di altre cose –, l’addestramento con Bepo, che era tutt’altro che l’adorabile orsetto che voleva far credere, e Law che mi dava da studiare pesanti tomi di anatomia e biologia. Non avevo idea di come riuscissi ad arrivare fino a sera senza stramazzare per terra e avevo ancor meno idea di come facessi a ricominciare tutto da capo il giorno dopo. All’ inizio, prima di coricarmi, piangevo silenziosamente nel letto, incapace di trovare pace. Con il passare del tempo la stanchezza accumulata era talmente tanta che non avevo la forza nemmeno di piangere. Appena poggiavo la testa sul cuscino gli occhi mi si chiudevano da soli e nel giro di due minuti cadevo nelle braccia di Morfeo. Poi, tutto ricominciava. La mia vita era diventata solo quello. Mi svegliavo, mi addestravo, pulivo, mangiavo, mi addestravo ancora, studiavo biologia, pulivo, mangiavo, studiavo anatomia e andavo a letto. Dormire era la mia unica consolazione, sebbene fossi in debito di sonno di parecchie ore, forse di giorni. Però una cosa positiva dello stare lì c’era: ero così impegnata che non avevo tempo per pensare a quale enorme cazzata avessi fatto e di conseguenza non potevo nemmeno deprimermi più di tanto.
Comunque, le cose pian piano cominciarono a migliorare. Avevo fatto un patto con il mio capitano, per cui dovevo indossare quella ridicola divisa solo quando sbarcavamo su un’isola. E visto che non mi era praticamente permesso sbarcare, potevo pure cestinare quell'orribile cosa. Mi ero perfino abituata all’assenza di pane in tavola. E dopo circa sei settimane che mi dava da studiare quegli enormi libri di medicina, il chirurgo della morte mi interrogò. Fece domande abbastanza meticolose e puntigliose. Alcune mi misero in difficoltà non poco, ma alla fine riuscii a richiamare la risposta nel mio cervello grazie alla mia memoria fotografica. Non avevo mai studiato tanto in vita mia. Di tutti i quesiti che mi aveva posto, ce n’era solo uno a cui non ero riuscita a rispondere. Law mi aveva detto di studiare meglio – come se fosse possibile – perché mi avrebbe interrogato ancora.
Quando, un altro paio di settimane dopo, disse che ero pronta, fui veramente molto felice. Avevo lavorato duro per essere “pronta” e sebbene ancora non sapessi per cosa, ero decisamente di buonumore e soddisfatta di me stessa. Tuttavia, quel momento idilliaco durò poco. Il capitano mi fece entrare in ciò che lui e il resto dell’equipaggio chiamavano “cella frigorifera”. Io avrei definito l’intera stanza più come un obitorio. C’erano almeno tre cadaveri. Avevo sempre scherzato su quanto Law avesse potuto essere macabro, sul fatto che dissezionasse cadaveri e quant’altro, ma non pensavo potessi avere ragione. Ma dove diavolo li aveva presi tre cadaveri!? Li aveva uccisi lui? Da quanto erano lì?
Fissavo quell’orribile e raccapricciante spettacolo con la faccia per metà perplessa e per metà disgustata.
«Voglio che tu mi dica la causa del loro decesso»
«Cosa?»
«Procedi.» mi ordinò.
Ci misi un po’ a realizzare che era serio. Mi avvicinai titubante al tavolo degli strumenti chirurgici. Mi infilai i guanti in lattice e deglutii. Sapevo cosa dovevo fare, ma non potevo farlo in quel momento. Lo sguardo del chirurgo incombeva su di me, come una catastrofe naturale.
«Non sapevo che le infermiere avessero anche il ruolo di medico legale» mi permisi di dire. Tenevo il bisturi in mano e fissavo il corpo del povero uomo morto.
Dopo qualche minuto di inattività e silenzio, mi decisi ad agire. Prima di tutto, procedetti con l'esame esterno, per il quale - per la mia gioia - dovetti momentaneamente appoggiare lo scalpello anatomico sul tavolo. Notai che tutti e tre gli uomini avevano un rash cutaneo non troppo esteso o visibile. Poi iniziai l'esame interno. Incisi la cassa toracica, per poi praticare il classico taglio a “Y”. Faceva uno stranissimo effetto sentire per la prima volta la pelle di un altro essere umano squarciarsi sotto la lama del bisturi. Piazzai i divaricatori e presi le forbici. Quando venne il momento di tagliare nervi e costole, il mio corpo fu scosso da violenti conati. Vidi con la coda dell’occhio che lo stupido medico mi aveva avvicinato con il piede un secchio dove poter rimettere. Non si era sconvolto neanche un po’. Era rimasto lì, impassibile, in attesa che io riprendessi il mio operato. Ma io non avrei ripreso a tagliuzzare cadaveri molto presto, anzi, non avrei ripreso affatto, perché stavo piegata in avanti con una mano poco sopra lo stomaco e l’altra davanti alla bocca. Non potevo vedermi, ma probabilmente ero anche esangue. Probabilmente in quel momento sembravo più morta io che quei corpi senza vita.
Non faceva per me. Mi ero sbagliata. Appena non ebbi più l’impulso di rigettare tutto quello che avevo mangiato per pranzo, mi raddrizzai, soffiai l’aria fuori dai polmoni e senza dire una parola mi avviai verso la porta. Ormai l’avevo aperta e stavo per uscire, quando lo sentii. Law che sbuffava una risata. Chiusi gli occhi strizzandoli leggermente, la mano ancora sulla maniglia. Non gliela avrei data vinta. Tornai sui miei passi, dove mi aspettava a braccia incrociate il mio capitano, che non si era mosso un centimetro. Ripresi le forbici in mano, tagliai quello che c’era da tagliare ed estrassi gli organi interni. Cercai di sembrare impavida per tutto il tempo, ma lo stomaco ancora era in subbuglio e di certo quelli che stava facendo non erano salti di gioia. Esaminai organo per organo – la parte più schifosa fu quando toccò all’intestino – di ogni cadavere presente in quella stanza. Non tralasciai neanche di esaminare il cervello. Poi, come se niente fosse, rimisi tutto al proprio posto, come dovevo fare.
«Tutti i pazienti sono morti per cause naturali. C'è un'alta probabilità che a stroncarli sia stato un virus letale» conclusi, riponendo gli strumenti con cura sul carrello e guardando dritto negli occhi il mio interlocutore.
«Spero per te che non sia contagioso» dissi poi, togliendomi i guanti, appallottolandoli e lanciandoglieli. Lui sorrise compiaciuto e fece un lieve cenno del capo. Feci per andarmene ma cambiai idea.
«Spero che tu ti diverta a dissezionare con tanta leggerezza cadaveri di persone che una volta avevano una vita, una famiglia, dei compagni.» sputai, dandogli le spalle e rivolgendomi verso l’uscita.
«Io non li ho toccati. Sei stata tu a fare tutto il lavoro»
Strinsi i pugni in preda ad un attacco di rabbia. Per fortuna in quei giorni avevo imparato a controllarmi molto di più di quanto non facessi prima.
«Stai pur certo che prima o poi lo farò anche con te. E non sai quanta gioia proverò.» affermai duramente, senza voltarmi. Potevo immaginare che sulla sua faccia fosse apparso un ghigno di soddisfazione. Infilai la porta a passo deciso. Ero accecata dalla rabbia, era come se andassi a fuoco. Quel ragazzo era l’unico in grado di farmi perdere il controllo. O almeno, era l'unico capace di farmi perdere la ragione così tanto e così facilmente. Doccia. Mi serviva una doccia per sbollirmi.


Angolo autrice
Ciao a tutti! Capitolo un pochino macabro, me ne rendo conto. Soprattutto l'ultima parte.
Comunque, i nomi Maya e Omen me li sono inventata io, ispirandomi ad una tavola che ha disegnato Oda con la ciurma dei pirati Heart al completo. Per le descrizioni mi sono ispirata proprio alla ragazza presente in quella tavola e al ragazzo accanto a lei. Spero apprezzerete questa mia iniziativa (anche perché ci saranno altri personaggi di cui dovrò inventare il nome e probabilmente anche la descrizione) e soprattutto spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Come sempre, fatemi sapere che ne pensate!
A presto!
   
 
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