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Autore: _Frame_    25/09/2016    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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98. La metà di Russia e La metà di Polonia

 

 

Si svegliò ingoiando un ansimo di terrore che gli strinse lo stomaco. Lituania tirò su le spalle di scatto, gettò il capo in avanti, i capelli ricaddero sul viso, sentì la pelle della schiena accapponarsi e incollarsi alla camicia infradiciata. Le ciocche appiccicate sulle guance si bagnarono di sudore gelido, le punte scivolarono fra le labbra ansimanti che non smettevano di tremare, sapevano di sale.  

I respiri affannosi bruciavano nel petto, arrochivano gli ansimi che strisciavano lungo la gola e gli seccavano la bocca bagnata solo dal sudore che gocciolava dalla fronte e dalle tempie. Il galoppare del cuore rimbombava nelle orecchie, faceva pulsare la testa come dopo una martellata sul cranio, la pressione che lo strozzava attorno al collo gli diede l’impressione di avere una bolla d’acqua incastrata in fondo alla gola.

Lituania sbatté più volte le palpebre brucianti, goccioline di sudore scivolarono dalle ciglia e spannarono la vista, le macchie nere del sonno si squagliarono come nubi di fumo. Un solo filo di luce blu delineava i contorni della camera da letto, strisciava lungo le lenzuola scalciate via e raggrumate attorno ai suoi piedi nudi.

Lituania si portò entrambe le mani attorno al collo. Tremavano. Si toccò la pelle bagnata di sudore, le vene pulsarono sotto la pressione delle dita, gonfie e bollenti, e altri rivoletti colarono attraverso le nocche, sotto i palmi, e scivolarono lungo il petto, incollandogli la stoffa addosso.

Si stapparono le orecchie. Il martellare del cuore fece spazio al rauco ansimare del suo respiro.

Anf, anf, anf.”

Lituania risalì la gola con una mano umida e ghiacciata, tastò il battito del collo che palpitava come il suo cuore, e la posò sulla guancia, bagnata anche quella. Le sue labbra aperte vibravano, avide di fiato, e i denti battevano ancora di freddo e di paura, scuotendogli ogni muscolo del corpo. La bocca amara e secca, la lingua impastata al palato da cui non riusciva a scollarsi.

L’odore di sangue, di cenere e di ferro sciolto gli era rimasto incollato alle narici, gli torceva lo stomaco facendogli sentire ancora il calore rovente delle gettate di fumo e fiamme contro la sua pelle. Rievocò la sensazione soffice ma fredda della cenere che si apriva sotto la schiena sdraiata a terra, riassaporò il calore dell’abbraccio attorno a quel corpicino immobile e senza respiro. Immaginò di immergere nuovamente il viso nei suoi capelli che sapevano di sangue, terra e cenere, di accostare la guancia a quella ghiacciata di Polonia, mentre i flussi delle loro lacrime scorrevano fra i visi premuti uno sull’altro.

Una fitta al cuore lo fece rabbrividire.

Lituania si infilò le dita fra i capelli bagnati, risalì fin sopra l’orecchio, strinse sulla tempia che batteva ancora come il suo respiro, e chiuse l’altra mano sotto la gola. Il braccio scese, posò il pugno sopra il battito del cuore che galoppò contro le nocche.

Un sogno?

Sfilò le dita dalle ciocche di capelli, calò il braccio che ancora tremava e la sua mano premette sull’imbottitura del cuscino tiepido. Lituania spostò il tocco, si sporse con la spalla e andò più in là. Incontrò qualcosa di morbido e tiepido, una guancia. Gettò lo sguardo in basso, una scossa di speranza gli trafisse il cuore, le dita risalirono ma si intrecciarono a ciocche di capelli asciutti e mossi. La scia di luce blu brillava sul viso addormentato di Lettonia, scintillava fra le ciglia unite e tracciava il profilo morbido della guancia rigonfia di sonno, le labbra socchiuse e sibilanti. La speranza si spense: una fiammella nel vento glaciale.

Lettonia arricciò la punta del naso, spinse la guancia contro il cuscino, vi strinse le braccia attorno e mugugnò qualcosa fra le labbra. Si girò, le dita di Lituania scivolarono giù dal suo viso, e si rannicchiò contro il petto di Estonia, le ginocchia contro la pancia e il viso rintanato contro la sua spalla. Estonia stropicciò la fronte, la spinse contro il cuscino, gli occhi lontani dal sottile raggio di luce blu, e fece correre il braccio sopra il torso di Lettonia. Emise un profondo respiro che mosse il bozzolo di coperte facendolo salire e scendere, e tornò ad addormentarsi.

Lituania scollò la lingua dal palato, unì le labbra e deglutì un boccone amaro e secco. Il respiro rallentò, il formicolio sulle guance si sciolse, brividi di freddo scivolarono lungo la schiena sudata, giù dal collo e dalla fronte imperlata, e il cuore decelerò il battito. Richiamò le gambe, i piedi scivolarono fra le lenzuola, strusciarono contro il materasso, e si raccolsero contro di lui. Ritirò la mano dal cuscino di Lettonia e se la posò sul cuore, strinse la camicia ancora fradicia e fredda, minuscole gocce di sudore gli entrarono sotto le unghie. Inspirò ed espirò a fondo, mentre le due mani strette a pugno assecondavano i movimenti del petto. Lituania le sollevò entrambe, le aprì contro la nuca, dove i capelli ricadevano sciolti, e qualcosa cadde dal pugno che prima aveva lasciato stretto sul petto. La piccola ombra sventolò depositandosi sulle sue gambe, Lituania nemmeno se ne accorse. Tuffò le dita fra i capelli sciolti, fino alla cute, e un’altra cucchiaiata di amarezza gli fece torcere le labbra. Non erano più legati.

Accasciò le braccia, le raccolse il grembo, e un indice sfiorò l’oggetto che gli era caduto in mezzo alle gambe, leggero e soffice come un lungo petalo di rosa. Lituania sollevò un sopracciglio, chiuse piano le dita, la consistenza del petalo cedette e si deformò sotto il suo tocco.

E questa cosa...

Le dita scesero, la fibra morbida si assottigliò, divenne fine e rigida, il polpastrello incontrò la punta che pizzicò sulla pelle del dito. Lituania strinse le dita sul piccolo gambo e sollevò l’oggetto, portandolo sotto il raggio di luce blu. Spalancò le palpebre, rigirò il gambo fra le dita. Sfumature rossicce ondeggiarono sulla piuma bionda, color sabbia.

La piuma? 

Le dita di Polonia laceravano la pelle sulla scapola, la carne spolpata si divideva, lacrimava sangue e umori lungo la spalla, e le unghie scavavano fino al gambo della piuma, lasciandola piovere a terra. Lituania si chinava, allungava il braccio e raccoglieva la piuma sporca di sangue e cenere. La mano si infilava in tasca, la depositava sul fondo della giacca, al sicuro.

Ma allora...

Lituania sentì una scossa di paura che tornò a far accelerare il cuore. Il battito si fece più profondo, il petto più gonfio e caldo, la fiamma sulla candela della speranza si riaccese con una scintilla bianca e frizzante. Lituania chiuse le mani a coppa attorno alla piuma, senza schiacciarla, e la accostò alla guancia. Raccolse le gambe al petto, si fece piccolo nelle spalle. Strinse le labbra, strizzò le palpebre per tenere nel petto il dolore e il senso di speranza che stavano già bruciando e premendo in mezzo alle ciglia. Sfregò piano la guancia alle setole sottilissime della piuma, e gli parve di risentire l’odore della cenere impastata al sangue colato dal corpo di Polonia, il suo tocco freddo che si aggrappava a lui quando erano distesi al suolo, la sua voce singhiozzante che vibrava accanto all’orecchio.

Lituania chiuse la piuma in una mano sola, senza sciuparla, e gettò i piedi giù dal letto. Atterrò sul pavimento freddo, i brividi risalirono le gambe, gli fecero arricciare le dita, ma Lituania non si fermò, andò verso la sedia all’angolo di fianco alla finestra. Agguantò la sua giacca, se la buttò sulle spalle, passò sotto il raggio di luce blu che entrava dalle tende socchiuse, e andò verso la porta.

Doveva uscire da lì.

 

.

 

Aprì il terrazzo, spinse in avanti l’anta di vetro, e la vampata di aria fredda gli scivolò nei polmoni come ghiaccio liquido, bruciò sulla pelle ancora accaldata e umida del sudore spanto nel sonno. Lituania si strinse la giacca sulle spalle, rabbrividì, chinò lo sguardo soffiando una spessa nuvoletta di vapore che si spanse come fumo. Non si sciolse subito. Allungò il primo passo sul terrazzo senza richiudere l’anta di vetro. Il ghiaccio incrostato sulla pietra scricchiolò sotto la suola come una carta di plastica stropicciata, si frantumò emettendo il suono di una caramella rotta in mezzo ai denti. Lituania si sfregò le spalle, i respiri accelerati dal freddo e dal battere dei denti crearono un umido strato di condensa tutt’attorno al suo viso, ad appannargli la vista. Trascinò i piedi lungo il suolo incrostato di ghiaccio e impolverato di neve ruvida e secca, arrivò al cornicione del terrazzo che si affacciava sul giardino del Palazzo d’Inverno.

Tirò su col naso, si strofinò il viso pungente di freddo, e sollevò la fronte. Rivolse gli occhi al cielo.

La distesa di stelle brillava come una pioggia di diamanti, il cielo di un blu intenso, profondo e scuro come un mare in tempesta, spianava un’aria fredda, limpida, senza nuvole. Lituania spolverò il cornicione dai grani di neve che si sbriciolarono dal ghiaccio e piovvero giù. Incrociò le braccia sulla pietra, premendovi il peso delle spalle. Respirò piano, il battito del cuore rallentò, la pelle accaldata dal sudore si raffreddò sotto i pizzichi pungenti dell’aria notturna che gli soffiava dolcemente addosso come un vento di aghi. Sollevò una mano per tenere i capelli scostati dal viso, le ciocche dondolarono in mezzo alle dita, e assottigliò le palpebre, fissando l’orizzonte.

Un sottilissimo filo blu sfumava la linea di terra che toccava il cielo, faceva brillare di indaco la distesa di neve che tappezzava il giardino come un mantello di cristallo.

Lituania spinse la guancia dentro il palmo, mosse le dita – già infreddolite – della mano chiusa contro il cornicione di pietra. Il suo tocco carezzò qualcosa di soffice e leggero rimasto racchiuso nel palmo, quella sensazione gli diede una scossetta alla mano, strinse il cuore, e le sensazioni e le immagini del sogno risalirono in un conato freddo e raggelante. Lituania girò la mano, schiuse le dita, e scoprì la piuma che aveva raccolto in mezzo alla cenere. La leggera brezza notturna la fece vibrare sul suo palmo, la luce d’argento delle stelle ne percorse il profilo, sfumature dorate scivolarono lungo la fibra che diventava più scura e rossiccia al centro e verso l’attaccatura del gambo, dove il piumaggio si infoltiva assomigliando a lanugine. Lituania le fece una soffice carezza con la punta dell’indice, ne chiuse il gambo fra due polpastrelli, la lisciò percorrendo la consistenza morbida dalla base all’assottigliamento della punta. La rigirò sotto la luce delle stelle. La piuma brillò di un colorito biondo.

Rivide il suo braccio che si chinava verso la cenere, le sue dita che raccoglievano la piuma imbrattata di sangue, appena piovuta dal lacero scarnificato nella scapola di Polonia. Le sue unghie che affondavano nella pelle, che la strappavano via rivelando le punte di altre piume pronte a nascere. La nevicata di cenere tutta attorno a loro, il silenzio ovattato come l’interno di una bolla che avvolgeva la landa, il sangue di Polonia che gocciolava dal recinto di filo spinato, che chiazzava il tappeto di cenere. Lituania percepì di nuovo il calore del loro abbraccio all’ombra dell’albero carbonizzato, il suo cuore che batteva forte contro il petto immobile di Polonia, le lacrime che scivolavano fra le loro guance e che si mescolavano, il sangue di Polonia che si versava anche sul suo corpo, che gli scaldava la pelle.

La voglia bruciante di tenerlo abbracciato per sempre, di lasciarsi seppellire dalla pioggia di cenere, rimontò come una marea. Gli annebbiò la mente.

Lituania tornò ad avvolgere le dita attorno alla piuma, intrecciò le braccia sul cornicione e vi seppellì la fronte, i capelli ricaddero in avanti, toccarono le briciole di neve secca e congelata che impolveravano la pietra.

Strinse le palpebre, il flash di luce che esplose negli occhi lo sbatté davanti al viso infuriato di Polonia. Le lacrime mescolate ai rivoli di sangue che tingevano le guance, gli occhi vuoti iniettati di rosso.

“Tu mi lasci qui da solo e vai con quello che mi ha buttato dentro questo posto.”

Lituania schiacciò il pugno che non conteneva la piuma, infilò le unghie nel palmo. Sfregò la fronte contro le braccia incrociate e soppresse un singhiozzo di dolore.

Se solo fossi riuscito...

L’ultima immagine di Polonia era il suo viso triste e arrabbiato che lo trafiggeva come una lama, le sue parole d’accusa, la cenere che gli volteggiava intorno, il suo corpo inerme abbandonato fra le sue braccia, il respiro assente.

Se solo fossi riuscito a fargli capire che Russia...

Lituania sbirciò da sotto i capelli, sbatacchiò le ciglia contro il riflesso delle stelle che si specchiavano nel mare di neve baciato dal filo di cielo blu. Sospirò, premette la guancia contro il braccio, le labbra e il naso ad aspirare l’odore ferroso della pietra cristallizzata di ghiaccio.

Che è solo grazie a Russia che potrò salvarlo.

Chiuse gli occhi. Riaprì la mano che conteneva la piuma.

Freddo e tepore si mescolarono in una sensazione che gli aveva già toccato la pelle in passato, che gli aveva trasmesso quel brivido di affetto e malessere che era tornato a lacerargli il cuore, riaffiorando come una cicatrice.

 

♦♦♦

 

21 settembre 1940, Mosca

 

Lituania si strofinò la mano contro gli occhi ancora bagnati di lacrime, passò le dita sulle guance, raccolse le ultime gocce di pianto strizzandovi sopra le nocche, ed emise un profondo singhiozzo, ringoiandolo in fondo allo stomaco. Svoltò l’angolo del corridoio, le gambe ancora bruciavano per la corsa che lo aveva portato lontano da Finlandia, e riaprì gli occhi gonfi e appannati. Lo sguardo cadde a terra, sul pavimento che scorreva sotto i suoi piedi, e sulla mano ciondolante sul fianco che ancora stringeva uno dei biscotti ai canditi che gli aveva dato Moldavia. Lituania sollevò il biscotto davanti alla bocca, schiuse le labbra tremanti e strinse una piccola punta di pasta frolla fra i denti. Singhiozzò ancora.

Meno male che nessuno mi ha visto piangere.

Diede un piccolo morso. Il biscotto ancora tiepido di forno si sbriciolò, il pezzetto di pasta gli scivolò sulla lingua assieme a un candito rosso, gli riempì le guance di un cremoso e dolce sapore di burro unito a quello più fruttato del candito. Lituania rosicchiò il boccone, le labbra tremavano ancora, e si asciugò le ultime lacrime. Scollò dalle guance le ciocche di capelli inumidite dal pianto, tenne una mano posata sulla fronte, nascose l’espressione di autocommiserazione.

Sarebbe stato tragico e imbarazzante.

Svoltò un altro angolo di corridoio. I passi lenti e trascinati, la testa china, la vista appannata, il respiro ancora singhiozzante, e la testa che gli girava, gonfia di dolore e confusione. Lituania ingollò anche l’ultimo boccone di biscotto, succhiò le briciole dalla punta dell’indice. Il sapore dolce e il tepore della pasta appena sfornata lo calmarono.

Strinse una mano attorno alla spalla, si sfregò il braccio, e sospirò.

E io che pensavo di aver smesso di farlo.

Continuò a camminare, il viso chino e rivolto al suo riflesso che avanzava assieme a lui lungo il lucido del pavimento. Socchiuse le palpebre. L’eco della voce di Finlandia tornò a parlargli dietro le orecchie, Lituania rivide il suo sorriso triste, il suo sguardo speranzoso rivolto alla porta della camera dove Germania e Russia si erano ritirati, e i suoi occhi nostalgici, più opachi.

“Sai, ho saputo che Norvegia e Danimarca hanno combattuto durante la battaglia di Inghilterra. Loro due sono sotto il pieno controllo di Germania perché io ho perso la mia guerra al nord, e il pensiero che abbiano corso quel pericolo e che ne siano rimasti feriti solo per colpa mia, mi fa...” Il tono cedeva, le braccia stringevano sui documenti raccolti al petto, la fronte cadeva bassa, il debole sorriso vacillava. “Volevo, ecco, solo chiedergli... Solo chiedergli se stavano tutti bene, almeno loro due, visto che di Islanda non posso avere nessuna notizia dato che mi è proibito contattare Inghilterra.”

Lituania provò di nuovo la bruciante stretta al cuore che gli tolse il respiro, dal petto risalì l’avida voglia di pianto che gli inondò gli occhi riempiendoli di lacrime dure e aspre.

Si tappò lo sguardo con il braccio, continuò a camminare lungo il corridoio. I passi schioccavano bassi e lenti, la sua stessa voce tremò di dolore nella testa.

Almeno lui ha qualcuno che lo aspetta e qualcuno da cui sperare di tornare.

Strinse le labbra sotto la pressione dei denti, contenne un singhiozzo, due righe di lacrime scivolarono in bocca, riempirono le guance di un saporaccio salato che sostituì quello dolce dei biscotti.

Mentre io...

Sotto la pressione del braccio, nel buio, gli occhi percorsero i ricordi che gli erano rimasti. Lo sguardo di Polonia sorridente illuminato dal sole, i raggi dorati che scivolavano attraverso i capelli biondi, la mano stretta alla sua, il senso di pace e calore che se n’era andato per sempre, svuotandogli il cuore.

Lituania fece scivolare il braccio dagli occhi, raccolse la manica nel palmo, affondò le dita nella stoffa e si raschiò le guance, premendo forte sotto le palpebre arrossate e umide. Tirò su col naso, le labbra tremarono. Gli occhi tristi e annacquati tornarono a guardare il pavimento. Vide solo la sua immagine. Sola. Il cuore emise un battito doloroso come una lama che lo tagliava in due.

Polonia...

Due forti braccia gli scivolarono lungo le spalle, da dietro, si incrociarono contro il petto e lo avvolsero con calore. Una guancia fredda contro la sua, la voce allegra e familiare gli squillò dietro l’orecchio.

Litva!”

Lituania saltò come se gli avessero dato la scossa in fondo alla schiena, il cuore schizzò in gola. “Gha!” L’abbraccio di Russia bloccò il suo sobbalzo, lo strinse tenendogli la schiena ferma contro il suo petto, le labbra sorridenti a uno sfioro dalla guancia rossa e calda di pianto. L’intenso profumo di vodka, fumo e neve lo travolse penetrandogli la testa. “S-signore.” Lituania forzò un sorrisetto tremulo, girò lo sguardo. “Mi ha spaventato.”

Russia gli strinse le braccia al petto, lo tirò di un passetto indietro, gli poggiò il mento sulla spalla sorridendogli contro la guancia. Lituania sprofondò con la nuca nella stoffa soffice e nell’intenso e inebriante profumo della sciarpa.

“È colpa tua, Lituania,” gli disse Russia, “eri distratto.” Socchiuse le palpebre, gli scoccò un’occhiata fine, le sopracciglia sollevate e il sorriso ammorbidito. “Non è da te.”

Lituania allontanò lo sguardo, la pelle della guancia scivolò sfiorando quella di Russia, e finì con l’altro lato del viso premuto sul braccio poggiato sulla sua spalla, a circondargli il collo. Un brivido di disagio e timore gli fece vacillare il sorrisetto di cortesia. “M-mi scusi, ero solo...” L’occhio scavalcò la spalla di Russia appiccicata alla sua e cadde sull’uscita dell’ala del corridoio. Lituania si sporse, fece un passetto avanti portandosi dietro Russia, sollevò le sopracciglia, sguardo stupito. “Oh, ma il signor Germania è già...”

Russia gli intrecciò le mani sul petto, dove il cuore di Lituania batté più veloce, morso dall’ansia e dalla paura, gonfiato dai brividi freddi che gli correvano lungo la spina dorsale, dove il corpo di Russia premeva. Russia poggiò il capo sulla sua spalla e flesse la testa, guardando anche lui l’uscita del corridoio.

“È andato via poco fa,” disse Russia. Lituania sentiva il suo respiro lento solleticargli la guancia e l’orecchio, la sua voce espandersi dal busto e vibrargli contro la schiena. “Ci ha pensato Moldavia a riaccompagnarlo all’uscita.”

“Ah.” Lituania aprì la mano sulla guancia, lo sguardo mortificato. Il cuore gli balzò in gola, lo fece tremare. “S-sono desolato, avrei dovuto pensarci io, ma mi è...”

La mano di Russia si posò sulla guancia che Lituania non aveva coperto. Gliel’avvolse con un gesto morbido, ma era fredda come un lenzuolo di ghiaccio. Russia gli strinse delicatamente le dita all’altezza del mento e gli fece voltare lo sguardo verso l’alto. Le punte dei nasi si sfiorarono, Lituania trattenne il respiro, un breve ansimo gli fece schiudere le labbra. Le dita di Russia erano fredde ma delicate come fiocchi di neve, il suo sguardo mite ma triste, gli occhi scuri e violacei come un cielo annuvolato.

“Hai pianto, Lituania?”

Lituania irrigidì. Il braccio di Russia a stringergli il busto, a chiudergli il battito del cuore, e l’altra mano ad avvolgergli il viso. Le sue labbra vibrarono. “Uhm.” Gettò gli occhi a terra, ne nascose il rossore, la luce umida incastonata fra le ciglia, le palpebre sciupate e annerite dal pianto. Scosse il capo, la sua guancia scivolò dalle dita di Russia. “N-no, signore.”

Russia lo trattenne con delicatezza, fece una leggera pressione con le dita. Lo sguardo si chinò a cercare il suo. “Moldavia ci ha detto che piangevi,” gli disse, “e che ha provato a consolarti.” Sollevò le dita dalla sua guancia, percorse il profilo del volto arrossato con le punte, le intrecciò alle ciocche di capelli e gliele scostò dal viso, facendole correre dietro l’orecchio. “E ora hai tutte le guance rosse e gli occhi lucidi.”

Lituania voltò il viso fino a premersi la fronte e la bocca contro la spalla su cui era ancora poggiato il braccio di Russia. Nascose gli occhi, un profondo sentimento di vergogna gli strinse lo stomaco, il cuore accelerò, palpiti d’ansia gli fecero vibrare il respiro fra le labbra strette in mezzo ai denti. “M-mi perdoni,” mormorò. “Ero solo...” Fece scivolare un piede lungo il pavimento, girò lentamente le spalle premendo sul corpo di Russia. Il terrore bruciava nelle gambe, gli ordinava di andarsene. Gli occhi di nuovo gonfi, il petto pesante, il volto nascosto dai capelli e la voce arrochita. “Solo un po’...”

Scivolò fra le braccia di Russia, si girò ancora stretto dal suo abbraccio, gli posò le mani sulla spalla e allungò un primo passo in avanti, la fronte bassa. Russia lo trattenne. Gli avvolse la schiena, una mano fra le sue scapole, a contenere i tremiti del suo respiro, e l’altra gli risalì la nuca, gli fece posare il capo accanto al suo, le guance accostate. Quella calda e umida di Lituania contro quella ghiacciata di Russia. Il respiro di Russia gli soffiò accanto all’orecchio, freddo come una brezza invernale, e la sua voce triste gli mormorò vibrando contro il petto.

“Cosa c’è, Lituania?”

Lituania raggelò. Le mani ancora aperte sulla spalla di Russia irrigidirono, le dita raccolsero la stoffa della sciarpa e la strinsero contro i palmi. Il cuore si fermò. Sentiva solo quello lento e profondo di Russia che batteva contro il suo stesso petto.

Russia districò le dita dai capelli di Lituania, gli fece scivolare la mano sulla guancia, dandogli una soffice carezza con le nocche, e gliela posò sotto il mento. Gli sollevò il viso. Lituania si vide riflesso negli occhi di Russia, in quello sguardo scuro, profondo e freddo come una notte siberiana. Russia piegò le estremità delle sopracciglia verso l’alto, stese una sfumatura addolorata sul suo volto in penombra, gli occhi socchiusi luccicarono, malinconici. “Cos’è che ti rende triste?”

Lituania socchiuse le labbra tremanti, ma le parole si incollarono al palato. La mano fredda di Russia sulla sua guancia gli rese il viso di pietra, quella dietro la schiena tremò assieme al suo corpo scosso dai battiti cardiaci sempre più forti. Lo sguardo annegò in quello di Russia, si sentì travolgere da un’ondata di tristezza che gli stritolò il petto in una morsa di ghiaccio.

Russia gli posò un’altra soffice carezza sulla guancia, gli tenne i capelli in disparte. “Io non voglio che siate tristi, lo sai, nessuno di voi deve esserlo.” Il suo braccio scivolò giù dalla spalla di Lituania, la mano risalì l’altra guancia, le dita si aprirono e gli ressero il viso, tenendolo a fronte alta. Russia avvicinò lo sguardo. “Se c’è qualcosa che ti fa stare male me lo devi dire immediatamente.”

L’aura di Russia li avvolse in un’ombra grigia e fredda, il corridoio si fece buio, Lituania riuscì a udire solo il battito del suo cuore che pulsava in gola, il sibilo del suo respiro trattenuto nel petto gonfio e dolorante. Il suo sguardo si perse.

“I...” Lituania deglutì a vuoto. Il corpo tremò contro quello di Russia, il sangue ghiacciò, la morsa di paura gli fece ballare le ginocchia, il viso stretto fra quelle mani fredde divenne bianco come neve. Gli occhi lucidi e terrorizzati, ancora rossi di pianto. “Io...” Strinse le dita contro il petto di Russia, ruotò gli occhi verso il basso, li nascose, ma quell’aria gelida e buia continuò a stagnare nella testa. Paura, confusione e tristezza gli divoravano l’anima. “Io mi,” tentennò, “mi chiedevo solo...”

Non dirglielo, non dirglielo, non dirglielo!

Lituania restrinse gli occhi per contenere le lacrime, di nuovo gonfie e roventi fra le palpebre, e sfilò il viso dalle mani di Russia. Lo gettò a terra. “N-niente.” Mosse un passo lontano, le braccia di Russia gli trattennero le spalle.

“Cosa?” Russia gli tornò ad avvolgere il viso, gli girò lo sguardo, di nuovo a specchiarsi nel suo. “Spiegamelo.” Era uno sguardo sincero e apprensivo. Rifletteva in sé tutto il dolore di Lituania.

Lituania prese un respiro che gli fece diventare il volto di granito, il cuore pesante come un pezzo di ghiaccio. Gli tremò la bocca, gli occhi non riuscivano a staccarsi da quelli di Russia, risucchiati. “Io...” Sollevò una mano, la posò sul braccio di Russia, le dita si appesero, lo tennero aggrappato. “Io vorrei...” Un nodo di paura gli strinse lo stomaco, gli fece ringoiare le parole. Lituania tornò a inspirare, brividi di freddo e terrore gli scossero la schiena. “Ecco, i... il suo permesso, signore, di...” Ricacciò dentro le lacrime, raccolse un grumo di coraggio bruciante che sciolse il ghiaccio nel petto. Occhi limpidi e forti guardarono Russia dritto nelle pupille, ma la voce tremava ancora, arrochita dal pianto. “Vorrei il suo permesso di andare a Varsavia.”

L’ombra attorno a Russia si incupì, il corridoio divenne buio, l’aria gli si infittì come nebbia, fece splendere di viola i suoi occhi assottigliati. Russia sollevò il viso, la sua ombra si allargò, seppellì il volto di Lituania ancora avvolto dalle sue dita. “A Varsavia.” La voce profonda e cavernosa. Russia fece una lieve pressione con i polpastrelli, trasmise a Lituania una scossa di freddo. Sorrise. Un sorriso piccolo e cupo, increspato dalla penombra stesa sul suo viso. “Cosa speri di trovare a Varsavia, Lituania?”

Lituania irrigidì le spalle, strinse la mano che Russia gli aveva posato sul polso. “N-niente, è solo per...” Perché non crederò che sia morto fino a che non lo vedrò con i miei occhi, perché non riesco ad accettare che sia scomparso, perché non mi è stata nemmeno lasciata una tomba su cui andare a piangerlo, perché voglio andare a chiedergli scusa per non essere riuscito a proteggerlo, perché voglio restare là.

Abbassò gli occhi, non voleva far vedere che erano tornati gonfi e annacquati. Una rimonta di pianto gli aggredì la voce e infiammò il petto. “Perché vorrei vedere la città con...” Si sforzò di tenere le palpebre aperte, in modo da non far gocciolare le lacrime. La voce sfumò in un sibilo. “Con i miei occhi.”

Una mano di Russia corse lungo la sua guancia, le dita si intrecciarono a una ciocca di capelli, la scostarono dietro l’orecchio, discesero delicatamente lungo la curva della nuca. “E cosa speri di fare, una volta là?” La mano si chiuse, strappò a Lituania un gemito di sorpresa, gli reclinò il capo facendolo tornare a viso alto. Gli occhi di Russia premettero sui suoi, gli penetrarono lo sguardo, il sorriso crudele e allo stesso tempo innocente e tenero a incurvargli le labbra. “Cosa credi che ci sia ad aspettarti?”

Lituania contenne un fremito che gli fece vacillare lo sguardo. Il respiro vibrò. “Una prova.”

Russia sollevò un sopracciglio. “Una prova di cosa?” Avvicinò lo sguardo a quello di Lituania, il sorrisino dolce sempre lì a imporporargli le guance, e gli carezzò i capelli. “Che Polonia sia ancora vivo?”

Una coltellata di dolore trafisse il cuore di Lituania. Si aggrappò al braccio di Russia anche con l’altra mano, le ginocchia si fecero deboli, le gambe tremarono, la vista appannata divenne sempre più nebbiosa e bruciante. Un groppo di lacrime risalì la gola. “L...” Si morse il labbro, restrinse le palpebre inumidite per non far sgorgare il pianto, le mani aggrappate al braccio di Russia strinsero, le sue spalle si piegarono in avanti. La voce strozzata e implorante. “La prego, mi dia il permesso di andarci,” gemette. “Anche...” Singhiozzò senza spandere lacrime, nascose lo sguardo sotto i capelli. “Anche facendomi accompagnare, anche per un paio di ore soltanto, la... la prego.” Premette il capo contro la sua spalla, la pressione della mano di Russia dietro la sua nuca allentò, tornò soffice, una fredda carezza in mezzo ai capelli. Lituania tremò. “La prego, ho bisogno di sapere.”

Anche Russia abbassò la fronte, gli scostò una ciocca di capelli e gli accostò il viso alla guancia. Le sue labbra appiattite non sorridevano più. “I morti non tornano in vita, Lituania.” Il respiro gelido trasmise a Lituania un profondo brivido che scavò nella carne fino a penetrargli le ossa. Russia strinse il braccio che gli avvolgeva la schiena, i due corpi premuti, e stese la mano dietro la sua nuca, gli tenne il capo poggiato sulla sua spalla, il viso accostato all’orecchio. Gli passò un’altra carezza fra i capelli e la voce assunse un tono avvilito. “Vuoi davvero aspettare tutta la vita il ritorno di qualcuno che se n’è andato per sempre?”

“S...” Lituania strinse le dita sulla stoffa, il respiro vibrante lo fece parlare a singhiozzi. “S-speravo solo che...” Il senso di colpevolezza gli compresse il petto con più forza delle braccia di Russia avvolte attorno a lui. Lituania gettò lo sguardo al pavimento, sciolse la stretta delle dita premendogliele sulla spalla, spingendosi lontano. “Mi perdoni, non avrei dovuto chiederglielo.” Girò il viso tracciando in aria una scia di lacrime trasparenti.

Sgusciò via. Russia gli tenne il braccio stretto, lo attirò di nuovo a sé, la presa fasciata attorno al suo fianco e la mano libera corse lungo la guancia, gli tenne sollevato il mento. Gli sguardi si incrociarono. Gli occhi annacquati e rossi di Lituania contro quelli fermi e scuri di Russia, l’aura grigia ad aleggiare attorno al suo viso sfumato di tristezza. Essere toccati dalla mano di Russia era come spingere la guancia contro una lastra di ghiaccio, ma Lituania percepì un profondo senso di tepore attraversargli il viso ed espandersi nel petto.   

“Polonia è morto, Lituania. Non si sveglierà mai più.” Russia fece correre la nocca dell’indice sul suo zigomo arrossato e gli raccolse una lacrima. “E tu devi accettarlo.”

Lituania trattenne il fiato, il suo sguardo s’impietrì, gli occhi guardarono nel vuoto. Una scossa di realizzazione gli trafisse la testa. Svegliarsi?

Russia lo abbracciò piegando le spalle in avanti, gli strappò un gemito di sorpresa, e incrociò le braccia dietro la sua schiena. Lituania dovette tirarsi sulle punte dei piedi. “Lo abbiamo lasciato sepolto sotto le sue stesse ceneri e presto scomparirà, come se non fosse mai esistito,” gli mormorò accanto all’orecchio.

Lituania ebbe l’impulso di stringergli anche lui le mani al petto. Ma allora... Il cuore accelerò il battito. Un miscuglio di entusiasmo, confusione e paura lo aggredì vorticando attorno alla testa premuta sulla spalla di Russia. Lituania sgranò le palpebre. Allora lui è ancora...

“Se ne andrà per sempre,” gli disse Russia, “senza lasciare alcuna traccia.” Gli fece correre le dita fra i capelli, il tocco ghiacciato espanse l’aura grigia che gli premeva addosso quel senso di timore e oppressione. “E dovrà andarsene anche da dentro di te.” Russia abbassò la voce, il sibilo sulla guancia di Lituania gli fece vibrare l’orecchio, gli accapponò la pelle torcendogli lo stomaco in un nodo di paura. “Non ti permetterò di andare a Varsavia in cerca di un fantasma, Lituania.”

L’abbraccio si strinse, un gesto brusco che fece raggelare Lituania. I suoi piedi innalzati sulle punte si incrociarono a quelli di Russia, i battiti del cuore scandivano lenti il respiro profondo che gli solleticava l’orecchio e la guancia. “Dovrai imparare a dimenticarti di lui e capire che il tuo posto è qui con me.” Russia voltò lo sguardo, Lituania riuscì a percepire l’increspatura delle sue labbra a sfioro della guancia. Nella sua voce si insinuò un vibrante tono di minaccia che gli ghiacciò il sangue. “Non ti permetterò mai di abbandonarmi per qualcuno che non esiste più.”

Lituania già non lo ascoltava più. Gli occhi smarriti nel vuoto, le labbra ancora socchiuse, il respiro che non usciva dal petto, la testa che sentiva solo quello che il cuore gli stava gridando.

Non è scomparso, non è scomparso, non è scomparso.

Solo quando Russia chiuse l’abbraccio si ricordò di essere ancora stretto a lui.

Le braccia forti fasciate attorno alle spalle di Lituania trasmisero un senso di timore, irrigidirono per la paura di vederlo di nuovo sgusciare via dalla presa e scappare da lui. Era un abbraccio freddo, come essere avvolti da un vortice di neve e vento, i piedi nel ghiaccio e il corpo tremante gettato in mezzo a una tempesta, ma Lituania percepì di nuovo quella sensazione di calore e protezione che gli fece rilassare i muscoli e il respiro. I battiti del cuore gli colmarono il petto di un piacevole senso di sicurezza. Lo confusero.

Lituania sciolse la stretta delle mani aggrappate al petto di Russia. Fece anche lui scivolare le braccia attraverso i suoi fianchi e gli si aggrappò alla schiena, teso sulle punte dei piedi, più vicino. Tornò la voglia di piangere. Chiuse gli occhi, premette la fronte sulla sua spalla, tenendosi piccolo e protetto in quell’abbraccio, e il pianto sgorgò intenso e silenzioso. Gli svuotò l’anima di un sentimento che non seppe riconoscere nemmeno lui.

 

♦♦♦

 

Riaprì gli occhi, la sfumatura blu del cielo gli toccò la vista, il chiarore delle stelle stava sbavando, facendosi più lontano e pallido, la linea indaco all’orizzonte sempre più spessa e luminosa.

Lituania fece scivolare la guancia sull’avambraccio intrecciato, premette il mento nell’incavo dei gomiti, e guardò lontano. Sbatté le ciglia, si abituò al sottilissimo chiarore della linea di cielo che strisciava sull’orizzonte innevato, e soffiò una nuvoletta di vapore. La mano che impugnava la piuma si strinse leggermente, le dita toccarono la consistenza morbida della fibra lanosa, l’estremità appuntita premette contro il palmo. Lituania accostò il pugno alle labbra, si sfiorò le nocche.

Polonia è davvero vivo, allora.

Le parole di Russia echeggiarono nella sua mente. La sensazione forte e fredda del suo abbraccio gli tornò a pulsare sulla pelle come un’impronta di ghiaccio, la sua voce gli soffiò di nuovo accanto all’orecchio, il tocco delle sue dita gli scivolò fra i capelli, disegnò una traccia di brividi lungo il profilo della nuca.

“Lo abbiamo lasciato sepolto sotto le sue stesse ceneri e presto scomparirà, come se non fosse mai esistito.”

Lituania restrinse le sopracciglia, le labbra accostate alle nocche si incresparono, le dita si mossero tastando la sensazione viva e reale di quella piuma che aveva raccolto in mezzo alla cenere insanguinata.

Se il suo corpo non è già scomparso, allora c’è ancora una possibilità che lui si svegli.

Sollevò il mento dalle braccia, schiuse la mano tenendo le dita leggermente piegate come riparo dalla brezza, ma la piuma vibrò comunque. Lituania chiuse gli occhi, ricordò l’intenso e pungente odore del fumo, il silenzio della landa di cenere che gli fischiava nelle orecchie, il corpo martoriato di Polonia che non provava dolore, le ferite aperte che spandevano colate di sangue, i suoi occhi vuoti, lo sguardo smorto, le guance grigie.

Forse, è proprio perché il territorio è spartito fra due nazioni, fra Russia e Germania, e che quindi non è sotto il totale controllo di una di loro, che Polonia si trova ancora in quel limbo, in bilico fra la sua identità e quella degli altri.

Lituania inspirò a fondo l’aria della notte. Un’aria fredda e limpida che gli appesantì il petto, colpì la gola come un pugno. Sapeva di neve e di bosco, non di cenere, non di sangue.

Il suo cuore batté un palpito caldo e gonfio, Lituania lo sentì pulsare lungo tutto il corpo, fino allo stomaco. La bocca si riempì di un sapore dolce, il sapore della speranza.

Ma la guerra non durerà per sempre. Riaprì gli occhi, la cupa luce della notte scintillò nei suoi occhi scuri e profondi. I capelli scivolarono davanti allo sguardo. E Russia detesta le cose fatte a metà.

Un primo raggio color indaco si stese lungo il suolo innevato, spennellò una scia cristallina che si rimpiccioliva oltre l’orizzonte, dove il cielo si faceva più chiaro e il profilo del bosco più sottile e lontano. Lo sguardo di Lituania si ingrigì, la stretta al cuore tornò fredda, la mano si chiuse attorno alla piuma, a proteggerla.

Però, se Russia dovesse un giorno prendere il possesso completo del territorio, allora Polonia potrebbe sul serio scomparire. Si morse il labbro, le dita irrigidite e brucianti di freddo si mossero sgranchendo le falangi. Oppure no.

Tornò la voglia di chiudere gli occhi, di poggiare la tempia sulle braccia incrociate, di cadere addormentato, il respiro lento e regolare, le membra rilassate, i muscoli sciolti e un piacevole tepore ad avvolgerlo, per raggiungere di nuovo Polonia e stendersi nella cenere assieme a lui. Le mani intrecciate, il viso di Polonia sulla sua spalla, le caviglie incrociate alle sue, il corpo sporco di sangue accostato al suo petto.

Se io fossi là, meditò Lituania, se io fossi là con lui quando la guerra finirà, se mi permettesse di vedere il suo corpo estratto dalle ceneri, allora forse potrei essere in grado di svegliarlo.

Prese un respiro. Poggiò la fronte sulla mano chiusa, sollevò il gomito premendolo sul cornicione, guardò oltre il terrazzo da dietro il profilo del braccio. Una scintilla di determinazione gli brillò negli occhi, percorse il profilo delle iridi morendo nel profondo della pupilla.

Ho una possibilità.

Spinse anche l’altro gomito sulla cornice del terrazzo, sollevò le spalle e restò poggiato sulle braccia piegate. Il vento dell’alba innevata gli spinse i capelli sulle guance, le punte delle ciocche toccarono le labbra, sfiorarono gli occhi bui ma vivi, profondi come un oceano.

E anche se questa possibilità significa passare il resto dei miei giorni affianco a Russia solo per aspettare quell’occasione, sono disposto ad accettarla.

Strinse i pugni, grattò le nocche sulla pietra incrostata di ghiaccio.

Non permetterò alla guerra di devastarmi. Trattenne il fiato, ascoltò il forte battito del suo cuore che pompava il sangue attraverso il suo corpo caldo e vivo. Non finirò anche io per addormentarmi passivamente sotto un mucchio di cenere.

Scrollò il capo togliendosi i capelli dal viso. Sciolse la sensazione morbida ma ovattante dello strato di cenere addosso al suo corpo, cacciò via la stanchezza che gli appannava la vista, che gli gonfiava la testa facendogliela sentire sempre più pesante.

Se nessuno vorrà farlo...

Lituania sollevò la mano che teneva racchiusa la piuma e la posò sul cuore. Strinse i denti, ingoiò il dolore, il petto gli fece male.

Allora sarò io a riportare in vita Polonia.

Vide se stesso affondare le braccia nello strato di cenere, le mani stringersi al suo corpo, estrapolarlo dalla sua tomba grigia e morta, e riportarlo alla luce, stretto a sé, a sentire il pulsare del suo cuore che ricominciava a battere, la sua pelle che tornava calda, il respiro che gli gonfiava nuovamente il petto, facendolo vibrare contro il suo.

Lacrime pungenti riempirono gli occhi di Lituania.

È la mia unica speranza.

Lituania si strofinò il braccio contro le palpebre, emise un singhiozzo soffuso, la voce nella sua testa si fece più forte e decisa.

E la mia unica speranza per non mollare è continuare a combattere di fianco a Russia.

“Lituania?”

Lituania si girò di scatto, la voce improvvisa lo fece sobbalzare, il cuore salì in gola e mozzò il fiato.

Estonia aveva una mano aggrappata alla porta vetrata che dava sul terrazzo, l’altra stretta al lembo della giacca che si era solo buttato sulle spalle, senza abbottonarsela, e i piedi senza calzini infilati nelle scarpe che non aveva allacciato. Il sottile velo di condensa attorno al suo volto accaldato dal sonno si dissolse, rivelò uno sguardo preoccupato, stanco e appannato di chi è appena scivolato via dalle coperte. I capelli spettinati sparsi sulla fronte e una stanghetta degli occhiali storta.

Lituania tirò su le spalle, fece scivolare via i gomiti dal cornicione. “Oh, sei...” Un improvviso brivido di freddo lo fece tremare. Lituania si strofinò braccia e spalle. “Sei sveglio?”

Estonia si infilò una nocca sotto una lente e si stropicciò l’occhio annebbiato di sonno. Sbatacchiò le palpebre lucide, le tenne socchiuse, ancora appesantite. “Ti ho sentito mentre ti alzavi.” Si infilò la prima manica della giacca. “Pensavo stessi male e ti ho seguito.”

“Ah, no, non ti preoccupare.” Lituania si tenne stretto nelle spalle, le mani sugli avambracci. Guardò in basso, anche lui aveva gli occhi stanchi e anneriti, e piegò un soffice sorriso. “Sto bene,” lo rassicurò. “Non riuscivo a dormire e volevo solo prendere un po’ d’aria.” Tornò a voltarsi, si riappoggiò con i gomiti sul balcone, puntò lo sguardo verso la linea indaco che brillava all’orizzonte. “Scusa se ti ho svegliato.”

Estonia scosse il capo, si infilò anche l’altra manica. “Fa niente.” Strinse la giacca senza abbottonarsi, si sistemò gli occhiali, scostò i capelli dalla fronte, e si avvicinò a Lituania. I passi lenti scricchiolarono sul pavimento di pietra e ghiaccio.

Andò mettersi di fianco a Lituania, incrociò anche lui le braccia sul cornicione del terrazzo e abbassò le spalle. Tuffò il viso gonfio di sonno nell’incavo dove gli avambracci si intrecciavano, spremette la guancia di lato e sbatté piano le palpebre. La vista bagnata dal luccichio blu che si rifletteva sulla neve andava a specchiarsi sulle lenti, gli tingeva la pelle dei colori della notte.

Respiravano entrambi in silenzio. Il lieve soffio della brezza si intrecciava ai loro capelli, il vento emise un basso ululato in lontananza, lo scricchiolio del ghiaccio crepitò lungo la pietra, e le chiome degli abeti in giardino frusciarono scuotendosi e spargendo la neve raccolta fra i rami.

Estonia ruotò lo sguardo verso Lituania. Si tenne a capo basso, spalle chine, e bocca immersa fra le braccia incrociate. Il viso di Lituania era buio, voltato di profilo. I capelli cadenti sulle guance e gli occhi rivolti all’orizzonte, lucidi e scuri come il ghiaccio sotto i loro piedi.

Fece tamburellare le dita sul ghiaccio solidificato sulla pietra, guardò in basso, in mezzo al boschetto innevato che racchiudeva ancora le parole scambiate fra lui e Finlandia il pomeriggio prima. La presenza di Lituania lì accanto a lui premeva come un carico di sassi sulla schiena.

“Ehm,” Estonia restrinse le dita, prese un respiro di coraggio, “io...”

Lituania voltò lo sguardo, sollevò un sopracciglio, l’espressione buia e rigida si incrinò in una crepa di confusione.

Estonia abbassò la fronte, si strofinò la nuca, parlò contro il braccio piegato sul cornicione. “Quella,” scostò lo sguardo, “quella volta, quando ti ho detto quelle cose...” Emise un lungo sospiro, gli parlò con voce sincera, più distesa. “Mi dispiace, davvero, non volevo ferirti in quel modo.”

Anche il viso di Lituania si ammorbidì. Lituania raddrizzò le spalle, un tocco di luce più chiara si posò sulla sua guancia, evidenziò il tenero sorriso di sorpresa che gli aveva incurvato le labbra. “Ci stai ancora pensando?” ridacchiò, il petto più leggero.

Estonia si strinse nelle spalle, la mano diede un’altra grattata alla nuca. “Non ci eravamo mai scusati veramente, e...” Guardò oltre il cornicione, verso l’orizzonte, e i colori dell’alba si riflessero sulle lenti. Scintillarono nei suoi occhi senza paura. “E non voglio che ci siano più questi litigi fra di noi.”

Lituania scosse la testa. “Non ce ne saranno.” Fece scivolare la mano in tasca, schiuse le dita depositando la piuma sul fondo, e si passò le dita fra i capelli che gli erano caduti sul viso. La brezza fece dondolare le ciocche contro la sua mano. “È stata colpa mia quella volta.” Il dolore della litigata emerse e graffiò come una cicatrice. Lituania lo ignorò, si concentrò solo sul calore che gli aveva riempito il petto. “Mi dispiace di...” Sfilò la mano dai capelli e si guardò il palmo. Il freddo lo aveva arrossato. “Di non farvi sentire abbastanza protetti.”

“N-no, hai ragione.” Estonia si riappoggiò con il mento in mezzo ai gomiti. Sospirò, il suo sguardo tornò triste, tinto dell’indaco che brillava dietro il profilo della foresta. Gli diede un’aria malinconica, la sottile condensa aleggiante attorno al suo capo e che si spandeva sulle braccia gli annebbiò la voce e il volto. “Hai ragione a combattere per te stesso e non per noi.” Socchiuse gli occhi, strinse le dita sulla pietra. Le labbra versarono parole basse e dure contro le braccia incrociate. “Una nazione dovrebbe combattere solo per se stessa.”

Una scintilla di confusione e sorpresa brillò nello sguardo di Lituania, gli fece sollevare le sopracciglia e irrigidire le palpebre.

Estonia girò la guancia, tenendola premuta sul braccio, e gli rivolse un pallido sorriso rassicurante. “Si capisce,” gli disse. “I tuoi occhi sono diversi dai nostri, quando lotti o quando stai di fianco a Russia.” Spostò gli occhi per nascondere la minuscola briciola di invidia che gli punse lo sguardo. “Si vede che lo fai perché lo vuoi e non perché sei obbligato.”

Lituania capì, la sua piega di confusione si sciolse, ma lui dovette di nuovo scuotere il capo. Lo toccò un sorriso amaro. “Io non combatto per me stesso.” Si strinse la spalla, girò lo sguardo mostrando il profilo, il vento gli fece oscillare i capelli sulle spalle e sulle guance, scoprì gli occhi che brillavano come il primo raggio del mattino. “Io lo faccio per Polonia.” La piuma custodita nella tasca della giacca irradiò un’energia calda che si espanse sul suo fianco in un piacevole formicolio. “Perché so che solo Russia un giorno riuscirà a riportarmi da lui.” Ascoltò il palpito del suo cuore che batteva anche per qualcos’altro. Inspirò l’aria d’inverno. “Ma anche...” Aspettò che Estonia si girasse a guardarlo, e gli rivolse lo sguardo. “Anche se è per lui che combatto, non significa che vi lascerò soli e che non sarò pronto a lottare anche per voi.” Lituania si posò una mano sul petto, l’espressione addolorata. “Nemmeno io voglio che ci siano più litigi fra di noi.” Strinse il pugno sul busto e serrò anche quello che premeva sul fianco. “E combatterò con tutte le mie forze per dimostrare che anche noi potremo andarcene da qui.” Il vento soffiò un’altra volta attraverso di lui, come sollevato dalle sue parole.

Estonia sentì il cuore stretto da un laccio di senso di colpa, il sapore amaro salì a riempirgli la bocca, gli fece abbassare il capo per la vergogna. “Sai, mi...” Si strofinò dietro l’orecchio con gesti nervosi. “Mi dispiace se ogni tanto ti do l’impressione di volere che tu stia male.” Dietro il respiro condensato, le guance si imporporarono di imbarazzo, gli angoli delle labbra si incresparono verso il basso. “La verità è che forse sono un po’ invidioso della tua situazione,” confessò.  

Lituania gli scoccò un’occhiata interrogativa. Rimase in silenzio.

Estonia tirò su le spalle ma rimase appoggiato sui gomiti. Lo sguardo teso in lontananza come in cerca di qualcosa. “Tu hai Polonia,” si spiegò, “hai una speranza di trovare qualcuno ad aspettarti quando uscirai da qui.” Scrollò le spalle. “Noi abbiamo solo Russia, e dopo così tanto tempo passato a vivere con lui, mi chiedo se saremo mai in grado di tornare a vivere da soli, a essere nazioni normali.” Premette la guancia dentro un palmo, reclinò il capo reggendosi solo su un braccio. “Con che coraggio possiamo tornare a essere nazioni indipendenti, presentandoci come quelli che non hanno avuto la forza di combattere la prigionia e riottenere l’indipendenza che i nostri popoli meritano?”

Una traccia di oscurità bagnò lo sguardo di Lituania. Lui tornò a voltarsi di profilo, a fronteggiare l’alba, entrambi i pugni stretti sui fianchi. “Io non sono diverso da voi,” mormorò. “Perché forse,” socchiuse le palpebre, “anche io mi sto nascondendo dietro Russia.”

Estonia sbatacchiò le palpebre. Lo sguardo ancora macchiato dall’ombra del sonno si accese di curiosità.

Lituania chinò il capo. Un pugno si sciolse, le dita sfiorarono il sottile rigonfiamento della tasca del cappotto, il calore della piuma gli rallentò il battito, distese i nervi, lo tranquillizzò. Lituania sorrise. “Io ho semplicemente incontrato qualcuno per cui valga la pena di combattere e sopravvivere.” Sollevò la mano, la posò sul petto e la strinse, raccolse tutta l’energia che gli batteva dentro. “Anche io ho una vita amara da inghiottire, solo che ho trovato qualcuno in grado di addolcirla. Ed è solo questo che manca a te e a Lettonia, non la forza.” Rivolse lo sguardo a Estonia, gli mostrò un sorriso sincero e spronante. “Siete forti tanto quanto me, te lo garantisco.”

Estonia sentì le guance avvampare, la condensa attorno a lui farsi più densa, il cuore battere più rapido e gonfio. “Uh.” Si strofinò una mano fra i capelli, nascose l’imbarazzo dietro il braccio. “Grazie,” farfugliò a fior di labbra.

Passetti trotterellanti schioccarono attraverso il corridoio, il loro eco risuonò fino al balcone, si unì l’affanno di una vocina affaticata che fece voltare sia Estonia che Lituania.

Lettonia frenò la corsa facendo singhiozzare il pavimento, si aggrappò all’anta di vetro rimasta socchiusa, riguadagnò avide boccate di fiato reggendosi la pancia con un braccio. “Ah, ec – anf – covi!” Le nuvolette di condensa soffiavano fuori dalle sue labbra a ritmo del petto fremente, tutto il corpo tremava sotto l’involucro della coperta gettata attorno alle spalle. I capelli scompigliati gli cadevano sulla fronte e sulle guance rosse per la corsa, celavano gli occhi spalancati e lucidi di spavento. La coperta scivolò scoprendogli la spalla, il lembo cadde attorno alla caviglia. Lettonia si era infilato le scarpe nel piede sbagliato. Sollevò la fronte e gli occhioni gonfi di paura luccicarono sotto il riverbero blu del cielo. “Mi avete lasciato da solo,” piagnucolò.

Estonia e Lituania si scambiarono un’occhiata imbarazzata e anche un po’ divertita. Lituania si strofinò dietro la nuca e piegò il capo in avanti, svelò un sorriso di scuse.

“Scusa, non volevamo spaventarti.”

Lettonia tirò su col naso, stropicciò gli occhi lucidi di sonno, sbatacchiò una palpebra alla volta. Mugugnò le parole ancora impastate di stanchezza. “Mi sono svegliato e voi due non c’eravate più, e non sapevo dove venirvi a cercare.” Sollevò la coperta che gli era caduta dalla spalla, se la rimboccò come un mantello, tremando, e spinse il peso da un piedino all’altro, per scaldarsi. “Perché mi avete lasciato da solo?” pigolò. “Ho paura a restare da solo!”

Estonia si strinse nelle spalle e mimò la stessa espressione imbarazzata di Lituania. “Scusaci, hai ragione.” Si scambiò un’occhiata di complicità con Lituania, disse una frase che non seppe nemmeno lui a chi fosse rivolta. “Non lo faremo più.”

Lituania ricambiò l’occhiata. Un profondo e sincero sentimento di affetto gli scaldò le guance, tenne sollevati gli angoli delle labbra e gli fece risplendere gli occhi socchiusi.

Lettonia zampettò sulle punte dei piedi, trascinando le scarpe invertite che non si era allacciato, e sbadigliò con una mano davanti alla bocca. “Ma che fate fuori al freddo?” Strofinò di nuovo il pugnetto su entrambi gli occhi.

Estonia guardò dietro di sé, stropicciò le dita intrecciate in grembo. “Uhm,” balbettò. Cavoli, forse è meglio non dirgli tutto, già lo abbiamo fatto assistere alla scenata dell’altra volta, poi lui è talmente sensibile che... “Ecco, noi...”

“L’alba.” Lituania stese l’indice all’orizzonte, il suo profilo contornato di blu, la soffice condensa a inumidirgli le guance e le labbra. “Siamo usciti a vedere l’alba. Fra un po’ il sole sorgerà, e con tutta la neve dev’essere straordinario da ammirare.”

Lettonia sbatté le palpebre, gli occhi si illuminarono. “Uh, davvero?”

Lituania si spostò per fare spazio fra lui ed Estonia, batté la mano sul cornicione del terrazzo. “Vieni.”

Lettonia annuì e saltellò in mezzo a loro due, stretto nell’abbraccio della coperta che gli dondolava attorno alle caviglie. Si appoggiarono tutti e tre, le spalle vicine, i gomiti che si toccavano, e gli sguardi tesi all’orizzonte.

Un primo spicchio di sole sbucò da dietro il profilo nero e piatto della piccola foresta. Pallidi raggi azzurri spennellarono l’aria, si infilarono in mezzo ai rami degli abeti innevati, fecero brillare il bosco come una composizione di cristallo, e stesero un intenso color verde e cobalto attraverso il tappeto di candida neve luccicante. Il cielo sulla linea di orizzonte sbiadì in un azzurro terso, una corona rosa confetto bordava lo spicchio di sole appena sorto.

Lettonia emise un sospiro di meraviglia che gli fece diventare tutte le guance rosse. “Uau!” Soffiò una grossa nube di condensa. Tese una mano aperta sopra la fronte, per ripararsi dai raggi negli occhi, e sorrise. “Chissà se c’è un’alba così bella anche nei nostri paesi?”

Lituania strinse la giacca attorno al collo, guardò in alto, nella porzione di cielo ancora scura e puntellata di stelle d’argento. Inspirò gonfiandosi il petto. Lo sguardo acceso e determinato. “Lo scopriremo.”

Sia Estonia che Lettonia si girarono a guardarlo, gli sguardi colmi di aspettativa.

“Lo scopriremo presto, ve lo prometto,” ripeté Lituania. Strinse un pugno sul cornicione, aggrottò le sopracciglia. “Se dovessimo di nuovo trovarci in guerra, a dover combattere su un campo di battaglia,” si posò una mano sul cuore, rivolse lo sguardo coraggioso a entrambi, “vi prometto che vi proteggerò con tutte le mie forze e che anteporrò sempre le vostre vite alla mia.”

Estonia irrigidì come un soldatino, le braccia lungo i fianchi. “A-anche noi,” esclamò, facendo voltare Lettonia. Si posò la mano sul petto, abbassò lo sguardo. “Non devi essere solo tu a sacrificarti, ma anche noi.” Il flusso del sangue bruciò nonostante l’aria ghiacciata e il vento che gli soffiava fra i capelli, pizzicando le guance e le labbra. “Combatteremo insieme.” Sollevò gli occhi che ardevano di determinazione come quelli di Lituania. “E un giorno torneremo a casa insieme.”

Lettonia strinse i pugnetti davanti al petto, lasciando la coperta, e annuì. “Sì, insieme!”

Lituania sentì il dolce e tiepido sapore di quella parola – insieme – alleviare tutto il peso che gravava sul suo cuore. Il sorriso nacque spontaneo. Non si era mai sentito così legato a loro come in quel momento.

Alle loro spalle, il sole sorse alto su una nuova giornata.

 

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Diari di Lituania

 

Polonia era vivo. Ne ebbi la conferma forse nel peggiore dei modi, ma bastò per ravvivare la fiammella di speranza che ormai da troppo tempo avevo lasciato traballare nel buio, fioca e pallida, rischiando di dimenticarmi il perché l’avevo lasciata accesa.

La speranza ora si era concretizzata, ma rischiò di aprire ulteriori ferite nel mio animo già lacerato.

Fino a quel momento, tutti mi avevano fatto credere che Polonia fosse morto, o che non sarebbe mai più tornato in vita. Non avevo visto il suo corpo, e anche per questo mi convinsi che fosse scomparso, o che stesse svanendo lentamente, man mano che la guerra andava avanti. Non averlo visto con i miei occhi forse era ancora più tremendo da sopportare, perché non avevo mai avuto la piena conferma di quello che gli era accaduto, quindi il dubbio rimaneva, continuava a torturarmi, e non riuscivo a cancellare l’idea che ci fosse ancora speranza per lui quando tutti mi dicevano il contrario.

Poi però bastò quella singola frase da parte di Russia, quel: “Polonia non si risveglierà mai più” per farmi capire che tutti quanti si sbagliavano. Il suo corpo era intatto. Polonia non era morto, stava solo aspettando di rinascere.

La gioia di quella scoperta, purtroppo, non durò molto.

Tornarono i soliti dilemmi che ormai mi attanagliavano da anni: che comunque non avrei mai potuto far nulla per cambiare le cose, che io da solo ero solo una pedina, e che quindi non avevo nessun potere fra le mani per aiutare Polonia a uscire dal suo letargo. Non potevo nemmeno avvicinarmi a Varsavia. Russia non l’avrebbe mai permesso perché aveva già capito le mie intenzioni. Da un certo punto di vista, ripensandoci oggi, gliene sono in qualche maniera grato. Aveva ragione a non farmi andare a Varsavia, perché avrei rischiato di rimanere lì fossilizzato per sempre, con la speranza di vedere Polonia resuscitare da un giorno all’altro, e così mi sarei perso in questa sorta di eterno limbo, sepolto anche io nelle ceneri insieme a lui. Io ero il primo a non volere che succedesse questo, perché ora la mia voglia di lottare era più forte che mai e non doveva spegnersi. Dovevo semplicemente andare avanti e tenerla accesa.

Poi, quando anni dopo a Varsavia ci siamo arrivati per davvero, durante la nostra avanzata verso Berlino, ed è successo... quello che è successo, ho avuto modo di rivalutare molte cose su me stesso, su Russia e anche sui miei compagni.

Preferisco non ricordare ancora quei giorni. Li sento ancora troppo vivi, le ferite fanno ancora male.

Comunque, prima pensavo che non ci fosse nulla da fare, che nessuno avrebbe mai potuto fare qualcosa per aiutare Polonia, per riportarlo in vita, e in qualche modo mi ero messo l’anima in pace. Non del tutto, ma almeno un po’ sì. Poi mi resi conto che riportarlo alla vita era possibile, ma che soltanto io provavo il desiderio di riaverlo fra noi, di rivedere il suo sorriso e di stringerlo fra le mie braccia, e questo fece ancora più male. Lui era stato il primo territorio devastato dalla guerra che si era ritrovato in bilico fra i due schieramenti durante tutto il conflitto, ed era chiaro che tutti si preoccupassero di lui solo come lenzuolo di terra e non come individuo. Non avrebbero mosso un dito per lui, se non per una pura questione espansionistica e territoriale.

Mi sentii tremendamente debole, impotente e solo nella mia lotta.

Cominciarono gli incubi. Non capii mai quanto di vero ci fosse in quello che vedevo, quanto reale fosse il Polonia con cui mi ritrovavo a parlare, quanto vere fossero quelle ferite che gli scavano la carne, quel sangue che gocciolava sul tappeto di cenere, quella pelle bianca e fredda che provavo inutilmente di scaldare. Ma tutto faceva male come fosse reale. Mi svegliavo in preda ai sudori, con il cuore in gola e con ancora il suo grido d’aiuto che mi vibrava nelle orecchie, e non sapevo cosa fare per poterlo aiutare, mentre lui aveva bisogno di me.

Non mento se dico che quelli sono stati probabilmente gli anni più dolorosi della mia vita.

Poi realizzai qualcos’altro, e al dolore che provavo nei confronti di Polonia si aggiunse anche quello nei confronti di Russia. 

Il giorno in cui Russia mi scoprì a piangere e in cui mi rivelò la vera sorte che era toccata a Polonia, in cui mi abbracciò asciugandomi le lacrime dalle guance, fu per me uno dei momenti in cui più mi trovai in contrasto con i sentimenti che serbavo nei suoi riguardi. Non seppi più a cosa credere: se alle sue botte o alle sue carezze.

Non era la prima volta in cui mi scoprivo in qualche modo sicuro e protetto fra le sue braccia, e non era la prima volta in cui mi trovavo a pensare che in realtà vivere con lui non era quell’incubo di cui ci lamentavamo tanto, anche perché i sentimenti di protezione che lui provava per noi erano veri. Mi sembra di averlo già detto da qualche parte, ma rimango tutt’oggi convinto che quello fosse il suo modo di volerci bene. Tuttavia, quel giorno fu in qualche modo diverso. Mi sentii legato a Russia in maniera più profonda. Mi sentii capito, ed ebbi la sensazione che lui avesse davvero compreso il mio dolore. Per la prima volta, mi convinsi davvero di continuare a rimanere al suo fianco non per obbligo, non per una qualche sicurezza, non per farmi proteggere, ma perché lo volevo io. Una volta dissi che mi faceva pena. E forse alla pietà si unirono i sensi di colpa per aver pensato così tanto di scappare, e così mi ritrovai in qualche modo a cedere.

Mi sentii crudele, perché compresi che i sentimenti che lui provava nei miei confronti, nei confronti di noi Baltici, erano forti proprio come quelli che io provavo per Polonia. Lui e Germania mi avevano portato via Polonia, e io avevo sofferto. Se io avessi portato via me stesso insieme a Estonia e Lettonia dalla stretta di Russia, lui avrebbe sofferto nella mia stessa maniera. 

Il mio cuore si ritrovò diviso fra Polonia e Russia, e io non seppi più a quale delle due parti dare più retta.

   
 
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