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Autore: Eonel_Sherwood    28/09/2016    0 recensioni
E se ciò a cui guardiamo con tanta sicurezza nascondesse la ragione per la quale da sempre ci facciamo quelle stesse domande, alle quali non sembra esistere alcuna risposta? Se stessimo ignorando volutamente la Verità, perché "qualcosa" ha deciso di tenerci all'oscuro di tutto? Se fossimo Noi stessi a tenerci alla larga dalle risposte, perché il nostro inconscio ne conosce già gli effetti? Se tutte le immagini e i pensieri anche impossibili partoriti dalla nostra mente, nascondessero qualcosa? E se leggessi che queste domande hanno una risposta positiva? Se la storia che sto per raccontare cambiasse per sempre il tuo modo di leggere il "Mondo"? Se qualcuno ti dicesse che in un libro sono racchiuse tutte le risposte, avresti il coraggio di andare avanti a leggerlo?
Genere: Dark, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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20.L’aquila e il cacciatore (Eagle)

 

 

Il cavallo nitrì imbizzarrito e scattò in avanti, fulmineo. Non era passato che un attimo, ma le grida degli stallieri sembravano già molto lontane. Gridando e scalpitando incitai l’animale ad andare ancora più veloce. La sua lunga coda spettinata e i miei capelli corvini sferzavano l’aria quasi in sincronia, un’unica frusta elettrizzata dall’aria rarefatta del deserto. In una giornata di marcia ero riuscita a varcare il confine della Terra dell’Aquila, e ora mi stavo avvicinando ai territori di fuoco. Un nitrito soddisfatto da parte del cavallo. Gli concessi un paio di pacche sulle possenti spalle brune, il manto liscio e corto graffiava la superficie del mio guanto quando lo percorreva contropelo. Dopo una nottata non proprio delle più tranquille e un giorno di cammino mi sono concessa il lusso di una cavalcata. Naturalmente non avendo un cavallo mi sono ritrovata costretta a doverne prendere uno in “prestito” da dei simpatici stallieri di confine. Ho salvato la vita a questo povero animale: spiando per un po’ i loro movimenti li ho visti picchiare le bestie senza una valida ragione, per troppe volte. Questo cavallo è stato l’unico che ha avuto il coraggio di reagire, guadagnandosi così un biglietto di sola andata verso la libertà. Gliel’ho soffiato da sotto il naso, a quegli idioti. Si sono accorti di me quando avevo già scavalcato la recinzione, troppo bassa anche solo per tener lontano i bambini. Nessuna pattuglia di guardia all’orizzonte. Con una guerra imminente i sovrani avevano deciso di richiamare a palazzo i loro uomini, a vantaggio di noi poveri disertori, ladri e assassini innocenti. Una folata di vento caldo e polvere purpurea mi colpì in pieno viso. Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni, cercando di trattenere le lacrime e i colpi di tosse. Proprio come facevo da bambina. Il cavallo cominciò a dare segni di impazienza e nervosismo.

-Buono, sta buono, non accadrà nulla di male.- ci stavamo avvicinando alla foresta di cenere. Le aquile, regine perenni di queste terre di confine, non osavano neanche avvicinarsi all’ombra malsana di questo luogo di sventura. Il cielo al di sopra della foresta era di un costante grigio sbiadito. Una cappa di fumo e polveri scure aleggia vasu di essa, rendendo tutto molto più lugubre.

-Elettrizzante- mi lasciai scappare un sorrisino perverso a mezza bocca, e lanciai il cavallo ad un galoppo sempre più sfrenato. Lo sentivo palpitare, la paura iniziava a montare e a stancarlo. Non avrebbe retto a lungo questo ritmo. D’altronde iniziavo ad avere i brividi persino io. Erano anni, decenni, che non tornavo a passare lo sguardo su questi paesaggi, a respirare quest’aria che aveva saziato i miei polmoni la prima volta che si erano attivati. Delle lievi scosse di nostalgia mi attraversavano la pelle. Cercai di scacciarle con una scrollata di spalle e le ignorai. Ingoiai il nodo che ingombrava la mia gola e lasciai uscire un verso di stizza. Non mi sarei fatta prendere dai sentimentalismi. Ora, in lontananza, si scorgeva persino il cartello di legno marcio che indicava l’entrata al mio villaggio, l’ultimo della Terra dell’Aquila. Sentii un gorgoglio dentro il mio stomaco e qualcosa cominciò a graffiarmi l’addome. Posai il palmo desto sulla pancia e respirai lentamente.

Mi dovevo calmare, e subito. Il mio villaggio era ormai disabitato da moltissimo tempo, non è rimasto nulla se non alcuni pezzi di legno andato a male.  

E la foresta di cenere. 

Arida, secca, deprimente. Uno sfondo mortifero alle spalle di un paese fantasma. Smontai da cavallo e lo legai alla vecchia palizzata. Non sarebbe venuto nessuno interessato a portarsi via un cavallo già rubato. 

Non da queste parti. 

Mi inoltrai a passi decisi all’interno del villaggio, l’aria sempre più secca e polverosa, il terreno screpolato sotto i miei stivali. Accarezzavo l’aria con le mani mentre procedevo, creando orbite inesistenti con le dita, accompagnando i lievi aliti di vento con il silenzio dentro la mia testa. Chiusi gli occhi, lasciavo che la mappa della memoria mi portasse proprio là dove desideravo andare. Ricordavo tutto, ogni aspetto di quella vita che era stata, di quel mondo che mi aveva visto nascere e decadere. Le gioie non superavano i tormenti, nemmeno allora quegli dèi capricciosi che tutti stimavano così tanto mi preservarono dalle grinfie delle sventure. Ero una bambina, che ci potevo fare. 

L’odore del marcio e della muffa mi afferrò la gola. 

C’era ancora una cosa che dovevo fare prima di rompere i legami con quel passato crudele che mi portavo dietro. Non che il presente fosse migliore, ma ormai me n’ero fatta una ragione. Si sa, l’abitudine a certi eventi rende normali persino le cose che, oggettivamente, non lo sono affatto. Sentii delle lievissime punture sul dorso delle mani. Non mi servì guardarle per capire che aveva iniziato a piovere quel fango scuro che ormai cadeva sin dai tempi meno sospetti. Poco a poco i finissimi fili densi divennero più fitti e più consistenti. Accelerai il passo, continuando a tenere gli occhi chiusi, la gola sempre oppressa dallo stesso odore aspro. Il terreno si fece più spesso e irregolare; schiacciai qualcosa di grosso e consistente con i tacchi, e allora mi bloccai. Era alla mia destra, lo sapevo. Sollevai le palpebre, sorrisi amaramente. Eccola là, la porta di legno aperta e scardinata, il tetto di paglia ormai quasi inesistente, le mura di massi irregolari. Era una catapecchia forse ancora più desolata delle sue sorelle là nei dintorni, sembrava quasi che la pioggia di fango cadesse più forte su di lei, quasi per  infierire ancor di più. Un inutile tentativo di accelerare quel processo di decadenza  inarrestabile e infinito, quasi fosse la sua punizione per ciò di cui le sue pareti erano state testimoni. Nonostante tutto questo, era ancora casa mia. 

Spostai l’uscio lamentoso, usando un tocco leggero per minimizzare i rumori. Mi addentrai negli ambienti bui di quel posto che odorava di ricordi. Ovunque posassi lo sguardo, a dispetto della semioscurità, rivedevo stralci del mio passato, la mente scalpitante che si straziava di dolorosa gioia, mi costringeva a ripercorrere gli eventi che mi avevano portata fin lì, in quel momento. Quelli che mi avevano resa quella che sono. Mi spostavo da una parete all’altra, lentamente, in religiosi movimenti, poi sempre più veloce e frenetica. La camminata divenne una corsa, i passi erano diventati balzi da un angolo all’altro, da un anno all’altro della mia infanzia. La pioggia continuava a scrosciare all’esterno, l’uscio si spalancò del tutto all’improvviso, dirottato da una folata di vento più forte delle altre. Il fango cominciò ad entrare a secchiate insieme alla luce impastata dell’esterno. L’umidità era ovunque, dalle mie ossa sino all’aria tutt’intorno. Il tempo stringeva, sentivo il cavallo nitrire e scalpitare sotto le calunnie della tempesta. Mi gettai in una delle camere dell’area interna della casa, a colpo sicuro, senza più indugiare. Svuotai un cassetto di un mobile basso attaccato alla parete e iniziai a frugare fra i foderi di pelle consumata e mangiata dai tarli. Mi scheggiai i palmi delle mani da cui avevo sfilato i guanti, a contatto con il legno marcio del pavimento, le ginocchia schiacciate sulle tavole grezze, i miei capelli sparsi tutt’intorno, in una nube nera scossa dal vento e dalla pioggia di fango che continuava ad entrare e a spiare i miei movimenti. Frustrata e scocciata, alla fine riuscii a trovarla: era rimasta chiusa e nascosta dentro una custodia di velluto rosso porpora, quasi del tutto consunta. Un comunissimo fodero. Ma ciò che conteneva era tutt’altro: l’ottone si era conservato meglio di quanto mi aspettassi, l’aquila che dava la forma all’elsa non era cambiata molto dall’ultima volta che l’avevo impugnata. Le ali dell’animale che si spalancavano sulla guardia apparivano ancora tenaci e inarrestabili. Era tutto come lo ricordavo e come speravo di ricordare. Il becco dell’uccello era vuoto: il codolo non c’era, e anche tutto il resto della vecchia lama. Strinsi il manico e me lo misi di fronte, quasi a sfiorare il naso. Era una spada ad una mano, il corpo sinuoso dell’animale era fatto apposta in modo che si adattasse perfettamente alla mano di mio padre, e di mio nonno prima di lui. Ironia della sorte, a dieci anni scoprimmo che anche la mia mano, una volta raggiunto il pieno sviluppo, sarebbe stata perfetta per impugnarla. Papà diceva sempre che il Cielo gli aveva donato un maschio in un corpo da donna, così che potesse dimostrare con più fatica la sua superiorità sugli altri, in tutti i campi. 

Eppure, qualcos’altro dovrebbe essere qui intorno.....

Un luccichio catturò la coda dell’occhio, mi voltai in quella direzione, pensando si trattasse della pioggia o di qualche scheggia di vetro. E invece, la riconobbi subito. Un largo sorriso si allargò sul mio viso, gattonai sul pavimento sino a raggiungere il telaio di quello che un tempo era il letto di mio padre. Mi appiattii a terra e mi infilai sotto di esso. La parte debole della lama era proprio là, infilata sotto le travi che sostenevano il vecchio materasso. La sfilai e la osservai meglio alla luce della finestra della stanza: era smussata, contorta, spezzettata, graffiata, opaca e debole. Ma il suo colore rosso che sfumava diventando sempre più intenso man mano che raggiungeva la punta era ancora là. Percorsi il filo orribilmente maltrattato della lama e lasciai che mi graffiasse la pelle, fino a farle produrre il rumore metallico che tanto mi ammaliava da piccola. Osservai il taglio: irregolare, naturalmente, e con i lati bruciacchiati. Mi sfuggì una risata isterica: la lama bruciava ancora, proprio come quando fu forgiata nella terra del Fuoco centinaia d’anni fa. Infilai la cara reliquia ritrovata nel fodero porpora insieme all’elsa, strinsi un nodo alla bella meglio  nascondendo il tutto in una tasca sul fianco sinistro del mio completo e scattai verso l’uscita. Uno stiletto luminescente attraversò all’improvviso il mio campo visivo quando ero ormai già sulla porta. Mi abbassai appena in tempo per evitarlo, e quando sollevai il capo pronta a vedere cosa fosse successo, con i sensi di nuovo all’erta, era già troppo tardi.

Era là, fermo, immobile, proprio di fronte a me, come succedeva ormai da quel maledetto giorno in cui smisi di essere me stessa. 

-Ma come, Eagle, dopo tutto questo tempo, ti fai fregare da sotto il naso? Nemmeno fossi ancora una qualsiasi novellina. 

-Che ci vuoi fare, con gli anni ci si abitua al passo degli amici fino a smettere quasi di sentirlo. Dovresti saperlo, Oc.

-Dei infami, avresti dovuto avvertirmi che avevi iniziato a studiare poesia, mi sarei portato più stoffe per asciugare le lacrime, e dell'alcol da ingurgitare per mescere il tutto, cara. 

-Meno male che ho conservato i nastri per intrecciarti la barba, allora.- allungai un lato della bocca in un sorriso provocatorio mentre Oc sghignazzava a bocca chiusa, le braccia incrociate sul petto. I suoi occhi erano lividi e infossati, incavati da strati di rughe e cicatrici di vario genere, percorse da vene gonfie sino alle tempie.  La bocca larga, i tratti spigolosi, il naso adunco. Un piacere alla vista, insomma. 

-Perché vuoi essere un mostro, Eagle? Non sono mai riuscito a spiegarmelo. Davvero. 

-Forse perché finché sei tu la bestia della situazione, nessuno avrà il coraggio di attaccarti per primo.

-Non essere ridicola. Lo sappiamo entrambi che sapresti cavartela benissimo anche senza la maledizione.

-La mia non è una maledizione, è un dono.

-Sì.. Lo vedo- Oc si leccò le labbra, le orbite vitree sempre puntate su di me- una benedizione tanto grande da tenerti prigioniera nel tuo stesso corpo. 

-Non parlarmi come se mi conoscessi davvero. Non sopporto gli uomini che credono di sapere tutto su come si senta una donna.

-Ma è proprio questo il problema- Oc si spostò le sue trecce cruente dietro le spalle- tu non sei una donna, Eagle. Non sei una persona. Non sei nulla insieme a quella cosa che ti porti appresso- per istinto mi toccai l’occhio sinistro coperto dai capelli, mentre distendevo il braccio destro lateralmente tenendo in mano il pugnale estratto pochi momenti prima, la punta rivolta all’indietro. Un rantolio disumano; estrassi la lama.  Un tonfo a terra: fuori uno. 

Avevo notato la calma dissimulata di Oc. Non si era nemmeno prodigato di avvicinare la mano alle armi, in segno di allerta. Riporre troppa fiducia nel nemico non era da lui. Il fatto che fosse entrato in casa senza richiudersi la porta alle spalle mi aveva insospettito. E i miei sensi sovrannaturali ancora una volta avevano confermato i dubbi. Fuori continuava ad imperversare uno scrosciante torrente lurido dal cielo. Fango che cadeva su altro fango. 

Anche Oc estrasse la sua lama, una pugnale tridentino tanto abituato ad affondare nelle membra quanto i denti di chi lo impugnava nella carne cruda:- Non ti sfugge nulla. Capisco perché tu sia tanto legata a quel maledetto occhio, per gli dei. É così prezioso che è davvero un peccato dovermene separare dopo la cattura- C’erano tre mercenari cadavere dietro di me, pronti ad assalirmi. Nello stesso momento ebbi su di me anche l’ombra del Cacciatore di occhi. Il fetore generale sarebbe risultato insopportabile a qualsiasi olfatto, ragion per cui riuscivo a stento a trattenere conati di disgusto. Incrociai il mio pugnale con quello di Oc: breve rumore metallico nella casa. Calciai all’indietro con il tacco dello stivale uno dei due mercenari che stava tentando di azzannarmi alla gola. Il ritmo dello scontro diventò frenetico nel giro di un battito di ciglia. Diedi una gomitata al petto di Oc, conscia di non provocargli altro se non fastidio che lo rallentasse il tempo necessario per voltarmi e pugnalare alle costole  l’altro cadavere di fronte a me. Il mostro si piegò leggermente in due sul punto colpito, poi si risollevò e lo ebbi addosso. Oc mi riservò un colpo di ginocchio sul  fondo schiena, così da costringermi a piegarmi in avanti verso il suo alleato. Il secondo mercenario mi immobilizzò le braccia e mi strattonò i capelli con una sola serie di gesti veloci. Avevo la giugulare scoperta, un cadavere vivo che mi mordeva l’orecchio destro lacerando pelle e ossa e un uomo di quasi due metri che avvicinava il suo volto al mio. Con il pugnale nella destra avevo già iniziato a ferire più che potevo l’essere che mi immobilizzava le spalle. Morsi con violenza la faccia dell’altro che nel frattempo si era mosso troppo in avanti, arrivandomi all’altezza del mento. Sentii sibili di sofferenza provenire da dietro. La presa sui miei capelli si allentò, mi leccai le labbra e sputai verso il naso di Oc, che continuava a guardarmi dall’alto, i resti di tessuti morti e ossa strappati via con i denti. Il Cacciatore si coprì la parte offesa con le mani per un secondo, il tempo necessario per svincolarmi dagli avversari e procedere con una controffensiva. Decisi di optare per una mossa azzardata. Mi avventai su uno dei due cadaveri ambulanti e lo buttai a terra in una confusione di colpi, graffi e strepiti sconnessi. Gli impiantai il pugnale nel petto e gli sbattei il cranio violentemente a terra, cercando di fargli perdere conoscenza. Alla fine il corpo rimase disteso, apparentemente immobile. Lasciai l’arma infilzata per precauzione. Con sguardo torvo e deciso e mossa sicura sfilai dal mio fianco sinistro l’antica lama smussata ancora scissa dall'elsa. Bruciava terribilmente nel palmo. C'era puzza di bruciato mista a fetore di carne putrida ovunque. Per mia fortuna ero tanto concentrata da dimenticarmi persino di respirare. Con un grido trapassai da parte a parte la gola del secondo essere immondo, che divenne  quasi immediatamente cenere al vento. La lama vermiglia si illuminò nel mio palmo: mi accorsi di averla stretta troppo. Stavo quasi rischiando di tranciarmi nettamente il palmo destro. Mi sfuggì il verso di una risata angosciata. Oc era senza parole di fronte a me, le orbite mostruose spalancate più del dovuto, la bocca semi aperta, la saliva che aumentava, voglioso. 

-Tu, maledetta. Maledetta sino al midollo, è sempre stata qui e sei venuta a recuperarla solo ora. Il tuo odore di bestia ha tenuto lontani per anni predoni e criminali di ogni sorta da questo posto maledetto dimenticato dai demoni. Tu lo sapevi e non hai mai fatto capire niente. Maledetta. Che tu sia maledetta per sempre senza possibilità di scampo. E maledetto sia io insieme a te se non riuscirò in tutta la mia vita a strapparti di dosso quella maledizione che ti porti appresso, soltanto per vederti soccombere davanti ai miei occhi di una maledizione ancor più feroce. Maledetta, tu. 

Il tempo di una preghiera, e la mia mano sinistra era ustionata e già ricoperta di piaghe. Mi aspettavo che prendesse fuoco da un momento all’altro. Gridai, sputai, lacrimai, saltai. Oc si coprì d’istinto la faccia con il braccio sinistro, e con il destro mi colpì vigorosamente la guancia con la fine dell’impugnatura della sua arma. Finii a terra, sbattuta quasi all’angolo dal contraccolpo. La schiena e il fianco graffiati. Mi sollevai con l’ennesimo ruggito a quattro zampe sul pavimento. Lo volevo. Volevo assaggiare il suo sangue malato così irrimediabilmente simile al mio. I lunghi capelli neri erano una massa scomposta sulla mia visuale. Abbassai il capo e lo risollevai di scatto in aria per liberarmene. L’occhio sinistro rimase in vista. Sorrisi al sorriso di Oc. Ci vedemmo. Ci guardammo. Io accovacciata, un animale affamato; lui in piedi, un mostro divertito. Alla fine, fra i due, forse non ero io quella più disumana. La terra aveva riempito con la sua consistenza ogni cosa dentro la casa. Ormai, dentro o fuori l’abitazione, non faceva più alcuna differenza. Tutto era scivoloso, melmoso. Tutto era di un unico color marrone penetrante, tutto tranne la lama rossa smussata su cui avevo lasciato la presa durante la caduta a terra. Buttata da una parte, vigile. Sporcata solo dal luridume dei cadaveri che avevo messo fuori combattimento.

Noi lo vogliamo.

Si.

E allora vai.

La stanza si fece oscura: le pareti di legno marcio, così come il pavimento, il soffitto decadente. Tutto era scomparso. Abbassai la palpebra sull’occhio destro, senza fretta. Per attimi di secoli, tutto era fermo e buio. Oc immobilizzato nella sua risata, io nella mi consapevolezza. Risollevai la palpebra dall’occhio sinistro. 

Lo vedi?

Lo vidi. Un contorno ambiguo, confuso. Molto molto flebile. Del colore del nulla. Impercettibile nulla. 

Valiamo davvero così poco?

Ricordati del suo occhio destro: gli salverà la vita. Non puoi averlo tutto per te. Non possiamo, non ancora. Stordiscilo, addormentalo, assaggialo, strazialo, fanne ciò che vuoi, è tuo, per adesso. Poi nascondilo in un posto lontano da qui. Lontano da noi. Corri. 

Perché non possiamo averlo ora? 

Perché sono debole, e anche tu. Paradossalmente dopo una trasformazione completa ci serve più tempo per rinvigorirci. Posso concederti solo questo per il momento.

Da quando sei tu che ti concedi a me? 

Da sempre, solo che fai finta di non saperlo. 

Adesso vattene. 

E così fu. 

 

   
 
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