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Autore: Gru    15/10/2016    2 recensioni
Boston, dicembre 1773 - settembre 1774
Versione rivisitata dei moti rivoluzionari delle tredici colonie precedenti alla guerra di indipendenza americana. Ovvero, Baker St.!American Revolution.
Non so cosa accidenti avessi in testa.
Sherlock!UK, John!Colonies.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note: Attribuire a questa storia il genere "Storico" è decisamente un azzardo: ne ho inserite davvero poche, ma in caso di informazioni storiche errate siete liberi di segnalarle alle autorità competenti. E a me, ovvio.
Sono stata ispirata da un'altra delle meravigliose tumblrate che girano su Internet, che vi allego qua: https://it.pinterest.com/pin/401946335475189944/   Forse così sarà un po' più chiaro il macello che ho scritto. 
E niente, questa è la storia dell'ultima goccia che fece traboccare la tazza di tea (che infatti fu subito sostituita con un bicchiere di plastica di caffè. Questa è la mia teoria sul perchè il caffè americano somiglia più al tea che al caffè espresso. Che tristezza...), l'incipit della guerra che viene tradizionalmente riconosciuto nel Boston Tea Party (  https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party   ), ma traslata tra le pareti di un certo appartamento...



(…)  che è diritto dei sudditi avanzare petizioni al re, e che tutti gli arresti o le procedure d’accusa per tali petizioni sono illegali; (…)
 Bill of Rights, 1689                    
               Ad ogni stadio di questi soprusi, noi abbiamo inviato petizioni, redatte nei termini più umili, chiedendo la riparazione dei torti subiti; le nostre ripetute petizioni non hanno ricevuto altra risposta che ripetute offese. Un Sovrano, il cui carattere è contraddistinto da tutto ciò che può definire un Tiranno, non ha diritto a governare un popolo libero.
Dichiarazione unanime dei tredici Stati Uniti d’America, 1776
 
 
Ha dato un pugno al muro. Tipico. Sempre la solita testardaggine cieca, incapace di accogliere il concetto di causa persa. Una causa si perde solo con la rovina definitiva, non è vero? Finché è battaglia, si combatte. È una cosa che lo porta al limite della sopportazione, principalmente, ammette di tanto in tanto e solo tra sé e sé, perché non riesce a capire. E non ha mai tollerato né il non capire, né l’illogicità delle cose, e quell’uomo non fa altro che sbattergli in faccia entrambe le cose. Quell’uomo che ora ha tirato l’ennesimo pugno al muro, l’ennesima battaglia vana, e lo guarda con quegli occhi che detesta e che gli fanno capire – nonostante non voglia, non voglia, non voglia capire questo, non lo accetterà mai – che lo sta perdendo ogni giorno di più.

“Sei tu che mi porti al limite, Sherlock.”

Fuori dal salotto del 221b, c’è un popolo che lo minaccia di una guerra.

Un popolo?, si chiede, irato. Quello non è un popolo. Quelli sono i suoi sudditi, i suoi. E quella, quella sarebbe una guerra civile, ecco cosa. Sarebbe, perché non accadrà nulla del genere, non lo farebbero mai. Non può fargli questo.

“Lo sai benissimo che posso. Lo sai che io potrei farlo.”

Sorride con il sorriso del Capitano, non con quello di John. Ci sono momenti in cui Sherlock ha dei dubbi, dei dubbi pericolosi per uno come lui, e spaventosi, a volte, e non ha abbastanza cerotti alla nicotina per questo. A volte pensa di aver fatto l’errore più grande della sua vita, pensando che avrebbe potuto tenere John Watson con sé per sempre. Credeva davvero che bastasse impressionarlo con qualche deduzione ben piazzata e la promessa di un flusso costante di adrenalina? A volte Sherlock Holmes vede la grandezza, la bellezza, ma poi viene distratto dalla perpetua adorazione per la sua stessa mente. È disgustato da se stesso, in quei momenti, più che in quelli peggiori del passato. Ti prego, pensa in quei momenti.

Non sembra più molto impressionato, infatti, il popolo – sudditi – oltreoceano. Sherlock si dice che sono degli ingrati. È merito suo se sono lì, è merito suo se hanno tutto. Commerciano con le migliori navi d’Europa grazie a decenni di lavoro, il suo. Forse è per questo, forse è perché ha dato loro proprio tutto, che pensano di non avere più bisogno di nulla, di lui. Ma si sbagliano, pensa rabbiosamente, anche se quello che vedrà John sarà un altro atteggiamento infantile, lo sbattere i piedi per terra di un ragazzino capriccioso. John non capisce, probabilmente perché spesso neanche Sherlock ci riesce.

John, John, John.

“Sei un maledetto  egoista, lo sai?”

Lo ignora sempre, in questi casi. O meglio, non gli risponde, evita di incrociare il suo sguardo frustrato da animale in gabbia. Pare, infatti, che il 221b ora sia questo. Una gabbia.

Ma non serve, perché non fa altro che aggiungere carne al fuoco negli occhi di John, alla rabbia, alla fierezza, a quel desiderio romantico e spietato che si cela dietro all’idea bambina della guerra e dell’amore. Dietro alla rivoluzione.

“Ti basterebbe così poco, Sherlock, per- a me basterebbe così poco.”

Questa è forse la parte più insopportabile, quella che Sherlock preferirebbe saltare senza dover assistere allo spreco di una sola sillaba, a costo di avvicinare prima del previsto il momento della fine, ma John è davvero diligente quando a Sherlock non serve, quindi non salta neanche una fase. La negoziazione è l’ennesima violenza che quest’uomo fa a se stesso, e che dunque si riflette sulla madre patria, perché sì, con gli anni ha dovuto ammetterlo, e per ora rimane l’unico svantaggio che ancora riesce a confermare del possedere una colonia.

Oh, sì, John è un romantico. Lo ha sempre pensato. Nel suo mondo fantastico vive solo ciò di cui è disposto ad ammettere l’esistenza, nessun sociopatico incapace di affezione, nessun temperamento incurabile, persino la morte può essere vinta da un ultimo miracolo. Forse lo ha abituato troppo bene.

Eppure hai fatto la guerra, John. E in quel mondo è tutto vero.

“D’accordo... D’accordo.”

Sherlock ricorda in modo contrastante il passato.

C’è stato un tempo in cui doveva rispondere solo di se stesso, e questa volta non pecca di superbia pensando di esserne sempre stato capace. È un dato di fatto: il minimo indispensabile dall’esterno per le precauzioni, alleanze fredde ed intelligenti a rimuovere gli ostacoli più ostici, e poi solo strategia ed indifferenza davanti al lusso. Mera sopravvivenza.

Non sa cosa l’abbia spinto a rischiare ed uscire dai suoi confini. Un investimento sicuro, si ripete a volte. Ma in fondo sa che non è il termine adatto, sempre che esista.

John Watson è una minaccia, una falla nel piano, un difetto chimico che non riesce a capire e che comunque lo affascina, lo condiziona e lo distrugge. John lo ha distrutto senza che gli fosse opposta resistenza, e ciò che è emerso dalle macerie ha colto Sherlock di sorpresa. E lo ha reso, ironicamente o forse non così tanto, dipendente.

Errore umano.

“Sai una cosa, Sherlock? Magari prima o poi lo capirai.”

Questo non ha senso. Si odia per la sua debolezza nel giorno in cui ha ceduto, ma non ne rimpiange le conseguenze, non un solo attimo. Odia John per quello che gli ha fatto, per lo stato in cui l’ha ridotto, ma non è mai stato più vivo come quando ha perso il controllo della linea piatta che osava chiamare vita e ha visto l’ombra di se stesso cederlo all’uomo che… all’uomo che…

“Ma avrei potuto esserci.”

Non posso, John.

 “Avrei voluto esserci.”

Mi dispiace.
 
 
Sotto le finestre di un appartamento qualunque a Londra, un taxi si ferma e raccoglie brandelli di libertà e l’ombra pallida e curva di un guerriero. Riparte, e le note di violino si sentono appena, soffocate dal rombo del motore e dall’orgoglio che ammorba l’aria. In lontananza, il primo sparo di un fucile sprigiona le grida della battaglia.
 
 
 
 
 
   
 
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