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Autore: Adeia Di Elferas    31/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Da quando Marco Antonio Giuntino era arrivato nelle campagne di Mordano con il suo banchetto per gli arruolamenti e si era sparsa la voce che ogni soldato avrebbe ricevuto otto lire per la sottoscrizione, i contadini avevano cominciato a rivalutare l'importanza della vendemmia.

Tuttavia, quando il Governatore Generale a Mordano, Tossignano e Bubano aveva ribadito l'ordine della Contessa di ritirarsi in luoghi sicuri alla prima avvisaglia di scontri, in molti avevano avuto da ridire e i cavalcanti si trovavano ogni giorno a che fare con riottosi agricoltori che non davano segno di voler piegare la testa al volere della loro signora.

Ottaviano era rimasto a Imola tutto il tempo, accompagnando il marito di sua nonna Lucrezia in giro per la rocca e incontrando di sfuggita il Governatore Tommaso Feo.

Gli imolesi, tuttavia, parevano aver apprezzato la sua presenza in città, per quanto fuggevole.

Quando giunse a Imola la notizia che Caterina Sforza aveva congedato in via definitiva gli ambasciatori francesi dal suo Stato e che aveva chiesto una visita ufficiale da parte del Duca di Calabria per discutere alcune cose, Giacomo e Ottaviano fecero i bagagli e tornarono a Forlì.

Riuscirono a evitarsi per tutto il loro soggiorno a Imola, ma durante la strada del ritorno era stato inevitabile avere a che fare l'uno con l'altro.

“Il vostro caro Sfrondati ha le ore contate, come ambasciatore a Forlì.” aveva detto Giacomo, in risposta a un'occhiataccia di Ottaviano.

Il quindicenne si era mosso sulla sella del suo cavallo, agitato: “Che state dicendo?”

Giacomo aveva alzato le spalle: “Milano sarà presto un nostro nemico e quindi anche Sfrondati verrà cacciato dalla nostra corte. Dovreste stare attento a chi avete come amico.”

Ottaviano aveva deglutito un paio di volte, ma si era imposto di mantenere la calma. Sua madre gli aveva detto chiaramente che non voleva da lui un'ennesima delusione. Sapeva che lo stalliere lo stava provocando solo per farlo adirare e per metterlo in torto.

Così il Conte aveva risposto, piccato: “E voi dovreste stare attento a chi avete come nemico.” e dando di speroni al cavallo aveva raggiunto la testa del corteo.

 

Isabella d'Aragona era senza parole, ma non aveva avuto la forza di opporsi nemmeno lei a quell'invettiva di Ludovico Sforza.

Benché fosse a distanza ad Asti, i Beccaria erano riusciti a raggiungerlo subito tramite lettera e il Moro si era immediatamente mosso per riparare a quello che era stato, a suo dire, un imperdonabile e inutile segno di sprezzo da parte di Gian Galeazzo verso un giovane uomo che aveva deciso di fare il coppiere con umiltà alla sua corte.

Franceschetto Beccaria, dunque, era stato pienamente reintegrato, il 19 settembre e aveva ripreso servizio al castello di Pavia. Si era presentato addirittura scortato da alcuni soldati inviati espressamente da Ludovico il Moro come sue guardie del corpo.

'Giacché – aveva scritto nella lettera d'accompagnamento – abbiamo avuto modo di appurare che la Duchessa Isabella nutre forti e immotivati risentimenti per ogni bel giovane che si avvicina troppo al suo nobile marito, il Duca Gian Galeazzo.'

Quell'affronto aveva fatto ribollire Isabella, ma aveva lasciato del tutto apatico il Duca, che non poteva fare a meno di ripensare allo scandalo di Rozone e a come le accuse mosse alla moglie non fossero mai state davvero smentite da nessuno. Anche se conosceva la sua consorte, la sua mente era sufficientemente confusa da non riuscire a capire fino a che punto il dito puntato di suo zio Ludovico fosse in torto.

L'unica cosa che Isabella era riuscita a fare, era stato impedirgli di servire personalmente il vino a Gian Galeazzo anche se, la donna era tormentata da quella consapevolezza, non poteva fare nulla per tenerlo lontano dalle cucine.

 

Quel 21 settembre l'aria di Firenze era incandescente. Una grande folla si era accalcata nel Duomo e quelli che non erano riusciti a entrare avevano preso d'assalto le porte e la ressa ingombrava le strade per molti metri, tanto da paralizzare il cuore della città.

Pico Della Mirandola, con tutta la baldanza dei suoi trent'un anni e la sicurezza datagli dal prestigio di cui godeva, era riuscito a sgomitare e spintonare i fiorentini accorsi alla predica fino a giungere a pochi passi dal pulpito.

Firenze era dilaniata, in quelle ore, in quei giorni, anzi, lo era da settimane e mesi. Carlo di Francia stava ormai calpestando il suolo italiano e i fiorentini non capivano come mai Piero Medici, signore de facto della città, avesse deciso di voltare le spalle a quello che era sempre stato un alleato naturale di Firenze per allearsi con Napoli.

Pico stesso, che dopo la scomunica era stato in Francia, avrebbe gradito di più che il Fatuo si alleasse col re d'oltralpe piuttosto che con gli Aragona. Però non aveva avuto il coraggio di far valere la sua voce, dato che, se poteva ancora godere di un certo benessere e di una buona fama, era soprattutto per via della famiglia dei Medici e quindi non voleva dar loro contro per nessun motivo.

Savonarola aveva atteso che il suo pubblico fosse tutt'orecchi e poi, con fare da teatrante, era salito sul pulpito, la lunga tunica scura sbrindellata che toccava terra, le mani giunte al petto e il grande naso aquilino che vibrava per la tensione.

Cominciò la sua dissertazione come faceva spesso, citando passi dei Vangeli e ammonendo apertamente Piero Medici, figlio del tanto vituperato Lorenzo, che gli stolti avevano definito 'Magnifico'.

Dopodiché il tono delle sue parole cambiò. Pico fu tra i primi a capire che il Diluvio Universale di cui stava parlando il Domenicano era solo un'allegoria, che quella pioggia scrociante e infinita altro non era che la guerra che Carlo avrebbe portato a Firenze.

“Ecco!” tuonò Savonarola, a voce tanto alta da far letteralmente venir la pelle d'oca a Pico, che, dalla sua postazione privilegiata, poteva vedere i vasi del collo del religioso gonfiarsi e pulsare all'inverosimile: “Io rovescerò le acque del diluvio sopra la Terra!”

A quella citazione, i fedeli parvero impazzire. Chi cominciò a piangere, chi a gridare, chi a invocare il perdono. Alcuni autoflagellanti si gettarono in ginocchio e cominciarono a colpirsi, schizzando sangue ovunque. Delle pie donne vestite di nero intonarono una preghiera in latino e ne fecero subito eco altre, di varia natura e tonalità.

Pico si fece il segno della croce più volte, cominciando a raggiungere il fondo della chiesa, per scampare a quella follia.

Tutti quanti vedevano in Savonarola un salvatore, un profeta, ma quello che stava dicendo era solo un'abile propaganda politica. Carlo VIII visto come il Diluvio Universale, atto a purificare il mondo, a riportare la vera fede, spazzando via i peccatori e i miscredenti. In breve, nell'ottica di Savonarola, spazzando via i Medici.

Pico attraversò la città in fretta, cercando riparo dalla confusione che le parole del Domenicano, passando di bocca in bocca, avevano creato. Mentre si addentrava nei quartieri meno raccomandabili di Firenze, nell'anonimato più totale, un lembo del mantello davanti alla bocca e al naso per non farsi riconoscere, sentì un vuoto nello stomaco pensando che Savonarola, se non avesse avuto il suo appoggio aperto, prima o poi avrebbe distrutto anche lui. Aveva già fatto velate allusioni a quello che c'era tra lui e Girolamo Benivieni e se li avesse accusati apertamente...

Pico non voleva pensarci. Cercò il crocifisso che aveva messo al collo per presenziare alla predica e lo strinse tra le dita. All'inizio era stato affascinato dalle teorie di Savonarola, lo aveva appoggiato, ne aveva divulgato le idee.

Dopo un po', però, aveva subodorato il marcio che sottostava a quelle prediche e la sete di potere, mascherata con la fede e la cieca fiducia nel Verbo.

Però, per quanto la sua coscienza rimordesse, non poteva e non voleva che succedesse qualcosa a Girolamo Benivieni per colpa sua. Non l'avrebbe potuto sopportare. Se doveva sacrificare le proprie idee per un bene più grande, se doveva voltare le spalle a una famiglia che lo aveva salvato da una fine miserrima, ebbene alla fine l'avrebbe fatto.

 

Ferrandino d'Aragona attendeva la Contessa in una delle ampie sale del palazzo dei Riario. Era rimasto deluso nel sapere che la donna non lo avrebbe accolto alla rocca di Ravaldino, ma se n'era fatto una ragione.

Indossava la sua armatura più bella, quella che a volte sfoggiava anche alle feste, ed era grato al proprio mantello imbottito, che gli stava impedendo di congelare.

La nebbia aveva preso a morsa la città e nel palazzo dei Conti non c'era nemmeno un caminetto acceso. Ogni respiro si condensava all'istante e le mani si intorpidivano in continuazione, benché Ferrandino cercasse di tenerle in movimento.

Finalmente, dopo un'attesa che normalmente il Duca di Calabria avrebbe ritenuto offensiva, sulla porta del salone di profilò la Contessa Riario.

Indossava abiti dai colori spenti e sembrava più una delle domestiche, piuttosto che la signora di quelle terre. Il suo viso era tirato e Ferrandino si trovò a chiedersi come avesse fatto, nel poco tempo trascorso dalla sua ultima visita, a essersi fatta tanto mesta e in affanno.

“Come mai mi avete chiamato alla vostra corte?” domandò l'uomo, senza darle nemmeno il tempo di entrare.

Caterina congedò la serva che l'aveva accompagnata fino a lì e puntò gli occhi verdi sul Duca di Calabria: “Voglio sapere le disposizione precise da mettere in atto quando verremo attaccati dai francesi.”

Ferrandino si accigliò, poggiò una mano sul fianco a inclinò la testa di lato: “Che intendete?”

“Nel patto che abbiamo sottoscritto – spiegò la donna, facendosi più vicina – voi vi impegnate a difenderci in caso di attacco.”

“Di attacco dichiarato dell'esercito francese, sì.” intercalò Ferrandino, ripassando mentalmente quel punto del documento.

“Ebbene, se dovessimo venire attaccati nella zona più settentrionale del nostro Stato, dato che voi siete accampati a Cesena, come desiderate essere informati per poter accorrere più rapidamente?” chiese Caterina, con lo stesso cipiglio che avrebbe avuto una massaia che interroga un venditore di pollami per indagare se la carne sia davvero fresca.

Ferrandino capì che cosa intendeva dire la Contessa. A quella domanda ne sottostavano tante altre, inespresse. Prima fra tutte: verrete davvero in nostro soccorso o accamperete la scusa della distanza dicendo che non avete fatto in tempo a recarvi sul luogo dello scontro?

“Una staffetta veloce andrà più che bene.” rispose Ferrandino, senza scomporsi.

Caterina stava per attaccarlo ancora, con altre parole studiate ad arte, quando uno dei suoi soldati più fedeli arrivò nel salone per dirle che il Conte e il Governatore Generale erano appena tornati da Imola.

Prima ancora che la donna potesse rielaborare quella notizie, un accaldato Giacomo fece capolino dietro al soldato. Ancora in abiti da viaggio, le guance appena arrossate e i capelli umidi di pioggia, l'uomo andò verso di lei, trattenendosi visibilmente dal dedicarle un saluto affettuoso che sarebbe stato del tutto fuori luogo.

“Ho fatto più in fretta che ho potuto, appena ho saputo.” disse veloce Giacomo, cercando lo sguardo della moglie, che invece puntava gli occhi altrove proprio per evitarlo.

“Non c'era alcun bisogno.” fece notare secca Caterina.

Sapeva che se Giacomo era accorso a quell'incontro, lo aveva fatto solo perché ancora non si fidava, come se pensasse davvero che la sua lontananza sarebbe bastata per far gettare Caterina nelle braccia di un altro.

“Il Duca se ne stava giusto andando.” riprese la Contessa, decisa a chiudere in fretta quello spiacevole incontro.

Giacomo aprì la bocca per ribattere in qualche modo, ma la moglie lo zittì con un'occhiataccia. Il Duca li stava guardando visibilmente divertito e per un attimo sembrò addirittura in procinto di scoppiare a ridere.

Caterina, con qualche frase a mezza bocca, riuscì a convincere Giacomo a tornare alla rocca e a sistemare i suoi bagagli, mentre lei congedava il napoletano.

Il Governatore accettò solo perché vide che effettivamente Ferrandino si stava appropinquando alla porta e sembrava in procinto di tornarsene là da dove era venuto.

“Una maschera, ecco quello che avete mostrato sempre al mondo.” sussurrò malevolo Ferrandino, non appena Giacomo fu abbastanza lontano: “Sono qui davanti a voi eppure non vedo nulla della donna di cui avevo tanto sentito parlare... Siete davvero voi quella che ha preso da sola Castel Sant'Angelo? Voi, quella che aveva recuperato la vostra preziosa rocca da un castellano ribelle? Voi, quella che ha rovesciato il governo degli Orsi?”

Gli occhi accesi di Ferrandino la passavano come il riso, alla ricerca di qualcosa. Caterina si sentiva nuda davanti a quello sguardo e così si strinse un po' nelle spalle e restò in silenzio.

“A vedervi così – fece il Duca di Calabria quasi con rammarico – direi di no. Credo che il vostro mito, se così lo volete chiamare, sia stato alimentato anche troppo dalla fantasia del popolino. In fondo, a chi non piace l'idea di una donna giovane, bella, intelligente, con due occhi freddi come il ghiaccio, capace di ammaliare gli uomini e poi farsi beffa di loro, tanto crudele da sembrare una creatura mitologica?”

“Voi non mi conoscete.” rispose Caterina, la voce un po' roca.

Era bastata quella breve incursione di Giacomo per vanificare ogni effetto intimidatorio che avrebbe potuto avere sul Duca di Calabria.

Ferrandino continuava a guardarla, un sopracciglio appena alzato. Iniziò a camminare e Caterina lo assecondò, sperando di allontanarlo in breve tempo dal suo palazzo.

“Non siete ancora senza speranza.” concluse Ferrandino, una volta che furono all'ingresso principale: “Gli Sforza e i Visconti prima di loro hanno avuto sempre e hanno tutt'ora una nomina ben precisa, quando si parla di passionalità.”

La Contessa non voleva ascoltarlo, e vide con sollievo che lo scudiero del figlio di Alfonso d'Aragona era appena fuori dal palazzo, pronto a porgere le redini del cavallo al suo padrone.

“Non credo che voi facciate eccezione – proseguì Ferrandino, andando con passo sicuro verso il suo destriero – siete una donna, però, a differenza di vostro zio e vostro fratello, dunque posso capire che abbiate cercato un solo amante e che gli vogliate essere fedele per non alimentare troppo i pettegolezzi. Scommetto, però, che se accadesse qualcosa a quel vostro grazioso amico, il vostro letto non resterebbe vuoto nemmeno un giorno.”

Caterina smise all'istante di camminare. Ferrandino se ne rese conto solo dopo un paio di metri. Al che si voltò a guardarla e quando ne intravide il volto deformato dalla collera, non trattenne più una breve risata e, afferrate le redini del suo cavallo, montò in sella e la salutò con un civettuolo gesto con la mano.

 

“Vicesignore delle terre di Sua Signoria!” sbottò Gian Antonio Ghetti, facendo tremolare la pelle un po' flaccida del mento.

Andrea Bernardi, che quella mattina aveva salutato in gran fretta la Contessa che era partita in carrozza – appena tornati in Forlì il Governatore Feo e il Conte Ottaviano – con la sua sola dama di compagnia e il cocchiere, alla volta di Imola, era ancora incredulo come tutti per quella notizia.

“Io lo so – continuò Ghetti, agitandosi tanto da impedire al Novacula di fare il suo lavoro – quello l'ha messa alle strette. Le ha detto o mi fai Vicesignore o t'ammazzo. Giuro che deve essere andata così.”

Bernardi non credeva possibile che la versione di Ghetti fosse corretta, ma la decisione repentina della Contessa di far avanzare ulteriormente di rango Giacomo Feo era stato un fulmine a ciel sereno.

“Io, m'intendete – riprese Ghetti, a voce più bassa, con tono da cospiratore – ho notizie buone che arrivano dal Conte stesso, per tramite di Domenico e di alcuni altri nobili amici di Sua Signoria...”

Il Novacula si chinò appena su di lui per ascoltare meglio. Erano soli, perché quel giorno, come da qualche tempo a quella parte, la bottega era deserta per la maggior parte del tempo, essendo quasi tutti gli uomini occupati o con le armi o con gli affari.

“Ebbene, il Conte stesso sostiene che la Contessa cominci ad avere a noia il Governatore. Anzi, mondo boia, il Vicesignore. Dice anche che lei ne ha paura.” sottolineò Ghetti, guardando negli occhi il barbiere: “E io ho visto con questi – e si indicò le pupille – che una volta mentre parlavano lui le ha toccato il viso e lei s'è ritratta e dico io se quello non è segno che aveva paura di vedersi arrivare uno schiaffo.”

Bernardi si accigliò. Aveva in mente mille altri motivi per cui la sua signora poteva aver agito a quel modo. Primo fra tutti la sua ostinata messinscena che voleva nascondere a tutti la realtà ormai evidente del suo legame con il Feo.

“Anche stavolta, non avete visto?” fece Ghetti, come a dare l'ultima prova portante della sua tesi: “Prima manda lui due volte di fila a Imola senza di lei e adesso se n'è andata a Imola lei con la sua serva. Solo un anno fa non si sarebbe mai spostata così senza il suo mantenuto al seguito. Per me ha gran significato: cioè che ne ha paura e cerca di stargli lontano.”

“In fondo – riprese Ghetti, mentre l'animosità gli si spegneva – quello ha già menato un Conte senza andare incontro a nessun problema, chi si sorprenderebbe a vederlo prendere a schiaffi pure una Contessa?”

Il Novacula fece un profondo sospiro, contrariato da quelle parole, ma si impose di restare neutrale, senza espressione. Già c'era Cobelli, a quanto aveva sentito, che stava gettando legna nel fuoco, alimentando quel genere di idee, quindi almeno lui doveva restare il più possibile estraneo a quelle chiacchiere.

Prese il rasoio tra le dita e, pregando con fare professionale il suo cliente di stare fermo, riprese a raderlo come nulla fosse.

 

 
   
 
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