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Autore: HometownGlory    01/11/2016    2 recensioni
Raccolta di storie dai rating diversi e dalle trame più varie, alcune ambientate nel passato, altre nel futuro, alcune canon e altre meno, ma tutte hanno in comune una cosa: Daryl e Carol. Storia partecipante alla challenge “Le situazioni di lui e lei” indetta da Starhunter.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carol Peletier, Daryl Dixon
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Storia partecipante alla challenge “Le situazioni di lui e lei” indetta da starhunter
Situazione/Prompt
: Se fossero in un film – “Titanic”
Rating: Giallo
Note: AU
Special Guest: Sophia Peletier

A Life So Changed

Cinque giorni all’affondamento

Ed Peletier era morto da più di un anno e nonostante tutti i suoi difetti, l’essere un violento alcolizzato in primis, mancava sia sua moglie che a sua figlia. O meglio, mancava il suo stipendio mensile. Relegata da sempre al ruolo di moglie casalinga, Carol non aveva mai lavorato in vita sua anche se più di una volta aveva chiesto al marito di poter lavorare come infermiera oppure come manodopera in una delle nuove fabbriche di Londra, ma l’uomo era sempre stato chiaro: sua moglie non avrebbe mai lavorato, invece doveva rimanersene a casa con i bambini, preparare la cena, rammendare i pochi abiti che avevano e fare tutte quelle cose inutili che solo le donne potevano fare. Carol, ovviamente, aveva obbedito ed era rimasta a casa a farsi in quattro per la famiglia.

Diversamente dalle famiglie dell’epoca, i Peletier non erano numerosi, tutt’altro. La famiglia, infatti, era composta dai genitori e da un’unica figlia, Sophia. Una volta, ma solamente per poche settimane, i Peletier furono composta da cinque persone, ma gli ultimi arrivati, i gemelli Henry e Thomas, erano morti di dissenteria quando ancora erano in fasce e nessuno, ma in particolare Ed, superò le due perdite. L’uomo incolpava la moglie e la figlia, la moglie incolpava il marito, mentre la piccola Sophia, troppo piccola per prendere una posizione e considerata dal padre «il sesso debole«, cercava di rimanersene in disparte, non volendo accendere l’ira di Ed che sembrava essere sempre sul piede di guerra.

Nonostante Ed Peletier non fosse il padre migliore del mondo e spendesse la maggior parte del proprio irrisorio stipendio al Dove, vecchio pub frequentato perlopiù da altri ubriaconi come lui e prostitute, cercava comunque di portare a casa qualche soldo e mantenere quella famiglia che disgraziatamente aveva creato. Carol non si era mai lamentata a voce alta dei problemi del marito e della mancanza dei soldi, non finché Ed era in vita, almeno. Quando l’uomo morì a causa di un infarto (forse durante un incontro a questo punto non tanto più segreto con una prostituta, o forse durante una scazzottata con qualche ubriaco), Carol parlò con la sorella, e talvolta anche con la figlia, di come Ed non le avesse lasciato alcun soldo per poter provvedere alla piccola Sophia e fu così che decise di trovarsi un piccolo lavoro in un calzaturificio. Non fu un impiego a lungo termine e Carol ne era ben conscia. Non voleva rimanersene a Londra per il resto della sua vita, non quando aveva sentito storie di persone che avevano ricominciato la propria vita da zero nel Nuovo Mondo.

L’America. 

«Va bene, salite.»
La voce seria e dura dell’ufficiale della White Star Line interruppe i pensieri di Carol, che teneva la figlia per mano mentre con l’altra teneva stretti i due biglietti che le permettevano di ricominciare a vivere. L’uomo fece cenno alle due di salire a bordo della mastodontica nave quasi con fare scocciato ed immediatamente le due fecero quei venti passi che le separavano dalla nave dei sogni.
I grandi occhi nocciola della bambina si guardarono immediatamente attorno. Era stordita dalla quantità di gente che popolava la terza classe di quella nave e si chiedeva quanta ve ne fosse nella seconda, ma soprattutto nella prima. Oh, la prima classe. Aveva visto in lontananza alcune automobili che solo i ricchi potevano permettersi e anche alcuni di questi ricchi e ne era rimasta affascinata. Certo, era capitato di vederli a Londra ma non era un fatto comune, specialmente dato che i Peletier non vivevano esattamente a Westminster o comunque in vicinanza di quelle grandi case e villette a schiera di stampo Vittoriano. Con i loro graziosi abiti lunghi e i loro grandi cappelli che sembravano ospitare più di un pennuto sulla loro cima, le donne benestanti di Londra sembravano un sogno per Sophia e capitava spesso che si addormentasse sognando di essere una di loro, pur sapendo che non sarebbe mai successo. O forse sì? La mamma aveva detto che stavano partendo per un lungo viaggio, un viaggio che avrebbe cambiato le loro vite in meglio. Avrebbero avuto una casa, non un vecchio appartamento; avrebbero avuto dei vestiti nuovi, non quegli stracci che si portavano appresso già da troppo tempo; avrebbero anche imparato a leggere, non come adesso che riuscivano a riconoscere solamente alcune parole.

«A cosa pensi?», chiese Carol quando si accorse che la figlia era fin troppo pensierosa.
«A niente.», rispose la bambina, quasi vergognandosi dei propri pensieri. «Cioè, sto pensando al nostro viaggio. Sono contenta, mamma.»
A Carol scappò un dolce sorriso che rivolse esclusivamente alla bambina bionda, era felice di sentirle dire una cosa del genere. Dopo tutto quello che avevano passato avevano davvero bisogno di essere felici. La donna stava allungando le braccia per abbracciare la figlia quando qualcuno le urtò, facendo perdere l’equilibrio a Sophia che, afferrando la camicia della madre, fortunatamente non cadde.
«Cazzo.», borbottò l’uomo che si scontrò con le due. «State intralciando il corridoio, spostatevi.«
Gli occhi di Sophia si fecero grandi di nuovo, ma questa volta non era per colpa delle belle signore ricche, bensì per colpa dell’uomo che l’aveva spaventata.
«E tu dovresti imparare a camminare. Ci sei venuto addosso e hai quasi fatto cadere mia figlia!», esclamò Carol paonazza. Non era abituata a rispondere a tono ad un uomo, specialmente se quest’ultimo sembrava pesare il doppio di lei e avrebbe potuto facilmente sopraffarla, sia a parole che fisicamente.
L’uomo rivolse uno sguardo veloce alla bambina che ora teneva un braccio attorno alla vita della madre e sospirò.
«Scusa.»

Quattro giorni all’affondamento

«Mamma, posso andare?»
Carol piegò leggermente la testa, osservando la figlia che sembrava non stare più nella pelle, e la sua nuova amica. Qual era il suo nome? Helen? No, quella era la madre. Doveva essere Ruth, allora. La donna annuì e sorrise.
«Va bene, ma ti rivoglio qui tra non più di due ore, d’accordo? Vedi di non cacciarti in qualche pasticcio.»
Sophia rivolse alla madre un grande sorriso, prima di correre fuori dalla sala della terza classe, non riuscendo a sentire le ultime parole che la madre le rivolse.
«Stai lontana dal ponte della prima classe!», le parole di Carol uscirono dalla sua bocca un po’ a vuoto, ma invece di prendersela, la donna sorrise leggermente.
Le piaceva che la figlia avesse trovato un’amica, seppur anche solo per il loro lungo viaggio. Proprio mentre stava togliendo lo sguardo dalla porta che in quel momento faceva entrare un’intera famiglia di Irlandesi, Carol notò l’uomo che le aveva urtate il giorno prima seduto in un angolo a fumare. Niente di nuovo, pensò lei. A giudicare dalla voce profonda e roca, infatti, l’uomo doveva essere un fumatore assiduo, così come la gran parte degli uomini dell’epoca. Ma era il fatto di vederlo fumare nella zona non adibita ai fumatori che la irritò leggermente, e senza nemmeno pensarci si alzò e si diresse verso di lui.
«La sala fumatori e lì in fondo, non qui.», gli disse con una tranquillità che mascherava alla perfezione il nervosismo che invece si celava dietro le sue parole.
Lui alzò lo sguardo e non si scompose. Anzi, continuò a fumare mantenendo il contatto con la donna.
«E quindi? Se volevi che tutti seguissero le regole di questa stupida nave, dovevi comprarti un biglietto di prima classe, bellezza.»
Carol avvampò, un po’ a causa della risposta totalmente insolente e da quel bellezza non richiesto. Si schiarì la gola e rispose: «Chiaramente non l’ho fatto, altrimenti non sarei qui.», gli fece notare prima di sedersi accanto a lui. Di tutta risposta, l’uomo si mise un po’ più dritto sulla panchina, quasi irritato o forse sorpreso dal suo gesto.
«Ieri, dopo averci spinte te ne sei corso via.«, gli ricordò, «Volevo comunque ringraziarti per aver chiesto scusa a Sophia.»
Carol era sincera, non molte persone avevano mai chiesto scusa a Sophia per come si erano comportate, sicuramente non suo padre. Spesso doveva fare lei le veci del marito e chiedere scusa, dando colpa allo stress del lavoro.
L’uomo fissò gli occhi della donna e per un attimo gli parve di perdersi dentro quell’azzurro. Cavolo, erano più azzurri dell’oceano. E lui aveva già visto tutto l’Oceano Atlantico!
«Come ti pare.», le rispose riprendendo a fumare e distogliendo lo sguardo da quegli occhi azzurri come il mare.
«Sono Carol, comunque.»
Lui alzò nuovamente lo sguardo e annuì appena prima di rispondere: «Daryl.»

Tre giorni all’affondamento

La cena era finita da relativamente poco tempo, eppure Daryl era già sul ponte a fumarsi l’ennesima sigaretta della giornata. Odiava viaggiare. Lo costringeva a starsene in un luogo per troppo tempo con niente da fare e sicuramente non aveva intenzione di farsi degli amici a bordo. Già Occhi di Ghiaccio, o meglio, Carol, come si era presentata, l’aveva importunato abbastanza. Non aveva bisogno di altri problemi o di gente che lo irritava. Anche se, nel caso particolare di Carol, le cose erano diverse. Non gli dispiaceva che lei passasse il tempo con lui nonostante lui se ne stesse perlopiù in silenzio a fumare, annuendo appena alle parole della donna e rispondendo a monosillabi alle sue domande. Forse erano gli occhi azzurri a non farlo incazzare come una belva e dirle che doveva farsi gli affari suoi e non rompergli le scatole. Forse erano perché gli ricordavano Merle.
Inspirò a fondo la sigaretta e chiuse gli occhi mentre il fumo gli raggiunse i polmoni.

Merle.

Non ci pensava più molto. Da quando era morto quattro anni prima, Daryl aveva fatto il possibile per superare la morte del fratello ma non c’era riuscito del tutto a quanto pareva, non se gli occhi di una donna qualunque potevano ricordargli quelli del fratello. Ma a cosa cazzo pensava? Cristo, menomale che Merle non era più vivo, altrimenti altro che cazzotto in pieno viso si sarebbe preso Daryl. Sorrise appena al ricordo dell’ultima scazzottata con suo fratello, ma il ricordo della sua morte tolse anche l’ultimo barlume di sorriso, lasciando al suo posto profonda amarezza e rabbia.

Aveva bisogno di una birra.

Lasciò cadere la sigaretta nell’Oceano e lanciò un ultimo sguardo alla cielo stellato prima di ritornare dentro la sala comune della terza classe. Ordinò un boccale grande di birra e si appoggiò al bancone, osservando la gente che popolava quella stanza – vi erano di tutti i tipi: famiglie, anziani, giovani, bambini, adulti, alcuni ballavano, altri suonavano e cantavano, altri giocavano a carte, mentre vi erano alcuni che cercavano di parlare. Senza nemmeno rendersene conto il suo sguardo cercò Carol, certo che lei fosse lì in quanto mentre entrava aveva visto Sophia insieme ad altri bambini mentre giocavano in un lato della sala.

La riconobbe immediatamente con i suoi capelli corti, la gonna nera e la camicia marroncina. Bevve un lungo sorso di birra e tenne gli occhi sulla donna. Stava parlando con un uomo. Era quello che lei faceva. L’aveva osservata nei due giorni precedenti e ogni volta che la vedeva, lei stava parlando con qualcuno di nuovo. A quanto pare era fatta così: parlava e dava confidenza a chiunque. Daryl si leccò le labbra e piegò leggermente la testa sul lato quando vide l’uomo afferrarle il braccio di malo modo. Aggrottò la fronte e rimase a guardare per un momento prima di accorgersi che le intenzioni dell’uomo erano tutto fuorché nobili.
Senza nemmeno rendersene conto, Daryl lasciò il boccale sul bancone e scattò come una molla, correndo verso i due e quando li raggiunse, senza alcun tipo di preavviso verbale, si scaraventò sull’uomo che cadde in parte addosso a Carol che inciampò e cadde addosso ad una donna. Daryl afferrò l’uomo per il colletto e lo prese a pugni, ignorando che la musica avesse smesso di suonare, che la maggior parte delle persone stavano osservando la scena e soprattutto ignorando totalmente le urla di Carol.
«Daryl! Daryl, lascialo andare!», esclamò, tirando l’uomo per la manica della giacca e cercando di farlo smettere.
Quando finalmente Daryl smise e si accorse di come l’uomo stesse sanguinando, lui alzò lo sguardo ed incrociò quello di Carol. «Vieni, dai.», gli disse tirandosi su e spingendolo fuori dalla sala.

La musica ricominciò a suonare prima ancora che raggiungessero il ponte e a metà strada incontrarono Sophia che chiese, spaventata, cosa fosse successo.
«Nulla, tesoro. Torna a giocare, torno fra poco. Se hai bisogno, sono qua fuori.», le diede un bacio in fronte e seguì Daryl fuori dalla sala.
«Si può sapere cosa ti è successo?»
La domanda di Carol lo spiazzò. Non sapeva cosa rispondere perché non ne aveva davvero idea. Si morse il labbro e andò a sedersi su una panchina poco distante, sperando che la donna lo lasciasse in pace, cosa che ovviamente non fece. Con le mani insanguinate tirò fuori una sigaretta e cominciò a fumarla, scuotendo appena la testa quando Carol riprese a parlare.
«Grazie.», mormorò, tenendo lo sguardo basso. Se non fosse venuto lui in tempo, Dio solo sapeva cosa sarebbe successo, quindi le era grata. Davvero.
Notando come le mani di Daryl fossero sporche di sangue, gliele prese tra le sue e dopo aver tirato fuori un fazzoletto di stoffa un po’ malconcio, cominciò a pulirgliele. Era una cosa a cui era abituata con Ed, anche se con lui lo faceva solamente quando si era addormentato, altrimenti c’erano sberle o pugni anche per lei.
Daryl aggrottò la fronte al gesto della donna ed immediatamente ritrasse le mani, quasi impaurito. La donna, tuttavia, non fece cenno di arrendersi e continuò col suo lavoro. Aveva le mani delicate, si domandava se per caso fosse un’infermiera. Non ne sarebbe rimasto sorpreso, tutt’altro. Lei sembrava avere proprio quello di cui le infermiere avevano bisogno: gentilezza e umiltà.
«Grazie.», disse questa volta Daryl quando Carol finì di pulirlo.
La donna sorrise e ripose il fazzoletto ormai sudicio nella tasca, «Nessuno aveva mai fatto a pugni per me.», ammise quasi tentando di sdrammatizzare.
Ecco che ora pensava che lui l’avesse fatto in segno d’amore o qualche stronzata a cui credevano le donne.
«Non mi piacciono gli uomini come lui che ne approfittano, tutto qua.»
«Capisco. Io ne ero un po’ abituata. Se mio marito voleva qualcosa, doveva averla, anche se era talmente ubriaco da non reggersi nemmeno in piedi e se poi non la otteneva… Beh, diciamo che non diventava molto gentile.», ammise stringendosi appena nelle spalle. Probabilmente pensava che lei era una disgraziata per parlare così del proprio defunto marito.
Daryl la osservò guardare il cielo notturno e incrociare le braccia al petto. La verità è che non sapeva molto di lei, eppure era addirittura disposto a fare a botte con un uomo pur di proteggerla.
«Mi dispiace.», si limitò a dire alzando lo sguardo anche lui.

Era una meravigliosa notte di aprile e per la prima volta l’essere su una nave non gli pesava affatto.

Due giorni all’affondamento

«Cosa farai quando arrivi a New York?»
La domanda di Carol, così come ogni singola cosa che lei diceva, lo colse di sorpresa e lo mise alquanto a disagio. Possibile che lei sapesse fare solo quello?
Erano seduti sulla stessa panchina della serata prima, con l’eccezione che questa volta non c’era stata alcuna rissa e Sophia era già nella sua branda da più o meno mezz’ora.
Daryl si strinse nelle spalle ed osservò un paio di cani correre sul ponte, poi rispose: «Immagino che me ne andrò a casa.»
«E dov’è casa?»
«Cazzo, ma non sai fare domande normali da persone normali? Si vede che sei inglese.», commentò lui roteando gli occhi.
Carol rise appena e si strinse le braccia al petto, iniziava a sentire freddo. Il silenzio cadde tra i due ma venne interrotto dalla voce di Daryl.
«Al sud.», rispose alla domanda della donna, tenendo gli occhi ben fissi sul cielo. «Ma non penso sia più casa mia, però. Mio padre è morto, mio fratello anche… Magari rimango a New York. Oppure me ne vado ad ovest.»
Carol lo osservò parlare e notò come l’uomo si irrigidì a parlare dei famigliari, così disse: «Mi dispiace. Sai, per la morte dei tuoi. Non dev’essere facile.»
«No, ma la vita fa schifo comunque, per cui…»
*
Daryl accompagnò Carol fino alla sua cabina. Non voleva fare il galantuomo, non sapeva nemmeno come si facesse, ma dopo i fatti della sera prima, sentiva di non potersi fidare a lasciarla in giro da sola. Non con quell’uomo ancora sulla nave. Fu quando la donna schioccò un bacio sulla sua guancia coperta da una leggera barba irsuta che Daryl sentì il cuore battergli forte nel petto e per un attimo fu terrorizzato all’idea che lei potesse sentirlo. Se fosse stato un altro uomo, l’avrebbe descritta come dolce, ma “dolce” non era una parola che lui usava facilmente. Quel bacio, però, gli fece venire in mente l’ultima cosa che ricordava di sua madre, prima che una brutta influenza gliela portasse portasse via.
«Buonanotte.», disse Carol prima di sparire dietro la porta di legno bianca.
Lui rimase in piedi davanti alla porta per qualche secondo prima di andarsene nella sua di cabina, mentre Carol, appena entrata venne chiamata dalla voce calma e appena sussurrata di sua figlia.
«Non dormi?»
«Ti aspettavo, mamma.», Sophia si strofinò gli occhi assonnati e fece spazio alla madre che, dopo essersi spogliata e aver indossato l’unica camicia da notte che possedeva, si sdraiò accanto a lei.
«Eri con Daryl?»
Carol prese ad accarezzare i capelli lisci di sua figlia e chiuse gli occhi, sorridendo leggermente.
«Sì, ti dispiace?»
«No. Mi piace Daryl. E’ gentile. »
Sophia si strinse alla madre e chiuse gli occhi, lasciando una Carol piacevolmente sorpresa.
«Buonanotte, mamma. »
«Buonanotte, fiorellino. »

Un giorno all’affondamento

«Le piaci.»
«Mh?»
Daryl mugugnò e con la fronte aggrottata alzò lo sguardo su di Carol che era intenta a rammendare una gonna troppo piccola per lei e che quindi era probabilmente di Sophia.
«Sophia mi ha detto che le piaci.», ripeté la donna, non staccando gli occhi dal lavoro che stava facendo. «Immagino sia anche per la bambola che le hai regalato.»
Daryl aveva trovato la bambola di pezza dietro alcune scatole mentre si stava aggirando per i corridoi della terza classe e dopo essersi accertato che non fosse di nessuno, e per fare ciò si era semplicemente guardato attorno, la prese per regalarla a Sophia che sembrava non avesse mai ricevuto un regalo in vita sua, cosa che colpì particolarmente l’uomo.
«E’ una tipa apposto anche lei.», si limitò a dire Daryl e per Carol, questo fu abbastanza.
Daryl stava fumando ininterrottamente già da venti minuti e Carol non riusciva a capire se lo facesse perché era nervoso oppure perché era semplicemente un’abitudine. Probabilmente la seconda.
«Stavo pensando…», iniziò la donna, dando un punto alla gonna della figlia. «Quando saremo a New York, perché non stai un po’ con noi?»
Alla proposta, Daryl ebbe paura di soffocarsi da solo con il fumo della sua stessa sigaretta. Aveva capito bene?
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che tu stesso mi hai detto che casa non esiste più e lo stesso vale per noi.», lasciò la gonna, l’ago e il filo in grembo e finalmente incrociò lo sguardo di Daryl, che a tratti sembrava confuso e a tratti impaurito. «In più tu sei americano, conosci il tuo Paese. Ci saresti di aiuto.»
La donna fece un respiro profondo e ridacchiò.
«Non sei costretto, ovviamente. La mia è solo una proposta. Se tu hai altri impegni, qualcuno da vedere o incontrare o semplicemente non vuoi, non c’è problema. Io e Sophia ce la caveremo come sempre.«, lo rassicurò tutto d’un fiato.
Daryl la fissò per un attimo e poi scosse la testa.
«Nessun impegno. Vengo con voi.»
*
La passeggiata era ormai diventata una sorta di rito per Daryl e Carol, e se solitamente la passeggiata avveniva di sera, quando Sophia era già a letto, quel giorno decisero di farla di pomeriggio. La bambina era rimasta con gli Andersson, una famiglia svedese che sperava di trovare fortuna in Canada, per giocare con i loro bambini e insegnar loro qualche parola in inglese, così i due adulti, o meglio Carol, decise di approfittarne. Spesso se ne stavano in silenzio, a volte si sedevano su una panchina vuota, a volte parlavano del passato e qualche volta anche del futuro, e questa volta non era diverso.
«Sai, non siamo obbligati a rimanere a New York.»
«E dove potremmo andare, Daryl? New York mi sembra un bel luogo. Una grande città, tanta gente…»
Daryl annuì, parzialmente d’accordo con la donna, e fece spallucce.
«Ogni luogo è migliore di New York. Andiamocene al caldo, in California. Sono stufo del freddo e della pioggia, ne ho visto fin troppa a Londra.»
Carol fece spallucce a sua volta, «Immagino possiamo andare ovunque vogliamo. Vuoi andare in California? Benissimo, andiamoci. Non penso che a Sophia dispiacerebbe – se ci sei tu, a lei va bene qualunque cosa.»
Daryl arrossì appena e per nascondere le sue guance rosee, girò la testa, passandosi una mano tra i capelli lunghi.
«California sia, allora.»

Zero giorni all’affondamento

Quella mattina Daryl incontrò Carol e Sophia nella sala da pranzo, mentre facevano un’abbondante colazione composta da porridge, latte, pane, burro e marmellata. Lui, invece, causa una terribile sbronza della nottata precedente, preferì bersi una buona tazza di caffè liscio.
«Tutto bene?», chiese Carol che per tutta risposta ottenne un semplice mugugno dall’uomo. Sorrise appena e continuò a mangiare fino a quando non si alzò, affermando di aver dimenticato lo scialle in cabina.
«Resto con Daryl, non vado da nessuna parte.», promise Sophia, lasciando un po’ di sasso l’uomo che tutto si aspettava, fuorché questo.
Entrambi seguirono Carol con gli occhi mentre usciva dalla sala e non appena la donna non fu più nelle vicinanze, la bambina alzò lo sguardo.
«Ti piace la mamma?»
Il caffè bollente andò di traverso a Daryl che cominciò a tossire, cercando di non morire a bordo di una nave. Ma come le saltava in mente?
«Come, scusa?»
«La mamma. Ti piace?», ripeté, «Secondo me a lei piaci. Sorride sempre quando è con te o quando torna in cabina dopo essere stata con te… E lei non sorride mai.», aggiunse con un velo di tristezza.
Era vero, l’aveva vista sorridere poche volte in vita sua e mai in presenza di suo padre. Anzi, solitamente quello che vedeva erano lacrime e sangue, quindi a Sophia questo cambiamento piaceva. Fin troppo, forse.
«E’ una tipa apposto.», rispose Daryl, dando pressoché la stessa risposta che aveva dato a Carol riguardo Sophia proprio il giorno precedente.
Sophia annuì pur non capendo il comportamento degli adulti.
*
«Sophia mi ha fatto una domanda.»
Esordì Daryl non appena rimase da solo con Carol, che sospirò alle sue parole.
«Oh, sant’Iddio. Che cosa ti ha chiesto?»
«Io ti piaccio?»
Carol sbiancò a sentire quelle parole.

Piacere.

Che parola strana. Le piacevano un sacco di cose: la marmellata, il pane appena sfornato, le mani delicate di sua figlia, l’odore dell’erba e la sensazione del sole sulla pelle. Ma le piaceva Daryl? Sicuramente le piaceva di più di Ed. Aveva speso anni proteggendolo, scusandolo per ogni sua mancanza o sberla immeritata e ora che era passato più di un anno dalla sua morte, si rendeva conto di quanto fosse stata stupida.
Ma di Daryl, le piaceva forse qualcosa? Sicuramente le piaceva come l’aveva protetta dal primo giorno, come si fosse fatto curare le mani senza dare di matto, come avesse fatto un regalo a Sophia (Ed non l’aveva mai fatto), come socchiudesse gli occhi ad ogni tiro di sigaretta, come lui piacesse a Sophia, come avesse accettato di stare con loro per un po’ di tempo una volta arrivati in America e sicuramente le piacevano i suoi occhi e le sue braccia che a riusciva a distinguere dalla sua giacca corrosa dal tempo e dalla vita.
Le piaceva.

«Io… Immagino di sì. Sì, mi piaci», sussurrò, guardandosi le mani per un attimo prima di alzare lo sguardo. Era imbarazzata, cosa che non le capitava almeno da quindici anni. «Cioè, a chi non piaci? Escludendo il tipo a cui hai dato tutti quei pugni l’altro giorno, ovviamente.», aggiunse cercando di fare una battuta che, a giudicare dallo sguardo di Daryl, non faceva molto ridere.
Lui, d’altro canto, la guardava in silenzio, osservando i minimi dettagli del suo viso che però aveva già memorizzato la seconda volta che si erano visti.
Si vedeva che era stata ferita, non solo nell’anima, ma anche nel corpo e non poteva sopportarlo. Lei gli aveva raccontato qualche particolare riguardo la sua vita con Ed e mai si era sentito più arrabbiato ed impotente.
«Che c’è? La mia era la risposta sbagliata? Se così fosse, scusami…»
Lo sguardo di Daryl era talmente penetrante che Carol ebbe davvero timore di aver sbagliato risposta. Forse doveva dirgli che non le piaceva? Che era un “tipo apposto”? Non appena Daryl fece un passo verso di lei, istintivamente lei ne fece uno indietro, troppo abituata agli scatti d’ira del marito per accorgersi che l’uomo davanti a lei non voleva farle del male, anzi, non desiderava altro che proteggerla anche se però forse nemmeno lui se ne rendeva conto.
Lui le si avvicinò fin troppo per l’usanza dell’epoca e per il luogo pubblico in cui si trovavano e Carol aprì appena la bocca per parlare nuovamente, ma quando si accorse che la leggera brezza calda che percepiva sul viso non era altro che il respiro di Daryl, decise di stare zitta. Lui la guardò e spostò le mani sui suoi fianchi, sentendo come lei stesse quasi tremando e sperò non fosse per paura. Fu quando anche lui si accorse di come i loro respiri si stessero fondendo assieme che decise di chiudere gli occhi e sporsi appena quel poco che bastava per far incontrare le loro labbra ed improvvisamente, entrambi si sentirono vivi.

Ma ciò che li fece sentire davvero vivi fu fare l’amore di nascosto, come due ragazzini, per più di una volta. Ciò costò a Daryl due dei suoi preziosi pacchetti di sigarette dato che con loro pagò i suoi compagni di cabina per avere la stanza tutta per sé per un’ora soltanto, ma mentre stringeva tra le braccia la donna e ne sentiva addosso ancora il calore e l’odore, si rese conto di quanto ne fosse valsa la pena.
«Promettimi che lo faremo ogni giorno.»
Carol rise a quelle parole e annuì. Per la prima volta fare l’amore con un uomo non sarebbe stata una sorta di tortura, bensì vero e puro piacere.
Si scambiarono un ultimo bacio prima di rivestirci e salire per la cena, dove passarono tutto il tempo a scambiarsi sorrisi appena accennati ma che anche la piccola Sophia notò.
*
«Mamma? Cos’è stato?»
Un’impaurita Sophia si svegliò a causa quella che sembrava una scossa di terremoto. Carol aprì gli occhi e se li strofinò.
«Non lo so. Probabilmente non è nulla.», rispose, decidendo ugualmente di alzarsi e andare a controllare cosa fosse stato.
Si infilò lo stesso cappotto che utilizzava per uscire ed aprì la porta, ma inizialmente non vide nulla. Tutto sembrava tranquillo.
«Torna a letto, non preoccuparti.»
Carol lasciò un bacio sulla fronte della figlia e sospirò appena, c’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Lo percepiva nel profondo delle sue viscere. Rimase seduta sul letto per un po’ fino a quando non sentì qualcuno bussare alla porta.
«Carol? Carol, apri questa cazzo di porta!»
La voce di Daryl sembrò rimbombare nella piccola cabina e Sophia si sedette, stringendo la sua bambola al petto. Carol, invece, si alzò ed aprì la porta, confusa.
«Cosa c’è? Hai sentito quel rumore? Sai...»
«Vestitevi. Veloce.», ordinò l’uomo prendendo alcuni abiti delle due e quasi lanciandoglieli.
«Cos’è successo? Daryl, per Dio, diccelo!»
«Un iceberg. La nave ha colpito un iceberg.»
Carol fissò gli occhi vitrei di Daryl, mentre il suo cuore smise di battere. Anche poche ore prima aveva smesso di battere, e sempre per colpa di quell’uomo, solo che questa volta le sembrava di vivere in un incubo. Non riusciva a muoversi e la voce di Sophia raggiungeva indistinta il suo orecchio.
«Cos’è un iceberg?», chiese innocentemente la bambina, osservando Daryl scuotere la madre.
«Carol, cazzo! Vestiti e andiamocene.»
*
Tutti e tre indossavano gli abiti più pesanti che possedevano e comunque non era molto considerato il freddo di quella notte di aprile. Non era passato molto da quanto Daryl era giunto nella loro cabina con la terribile notizia, eppure ogni minuto che passava era sempre peggio e chiunque lo percepiva, topi compresi che scappavano tutti in una direzione e che venivano seguiti da ignari passeggeri.
Appena raggiunsero il primo cancello delle scale, furono bloccati da alcuni steward che si rifiutavano si aprirlo per far passare le persone.
«Cazzo!»
«Fateci passare!»
«Ci sono donne e bambine quaggiù, per Dio!»
«Aiutateci!»
Le persone urlavano, sperando di convincere gli spaventati steward a farli passare, ma inutilmente.
Sophia tremava come una foglia tra le braccia di Carol e Daryl, cercando di far vedere che nessuno di loro stava cercando, afferrò per il colletto uno degli steward fino a che l’altro non tirò fuori una piccola rivoltella.
«Lascialo o ti pianto un proiettile in fronte!»
Prima di salire sul Titanic, Daryl non avrebbe avuto problemi a picchiare entrambi i due uomini che sembravano ragazzini, ma ora era diverso. Non era più da solo. Doveva pensare anche a Carol e Sophia.
«Fanculo!», esclamò prima di dirigersi verso le due Peletier. «Andiamo dall’altra parte.»
Carol seguì l’uomo e strinse forse la mano di Sophia. I tre corsero per il corridoio, tentando di non scontrarsi con gli altri passeggeri che erano disperati tanto quanto loro.
Dio, perché ci fai questo?, si chiese Carol mentre correva. Sia lei che Sophia avevano già sofferto abbastanza e proprio ora che potevano rifarsi una vita, era successa questa tragedia. Ma forse la piccola si sarebbe salvata. Doveva salvarsi.
Raggiunsero un altro cancello, ma sembrò un terribile deja-vu in quanto capitò la stessa cosa di pochi minuti prima, con l’eccezione che ora il pavimento non era più coperto da moquette color vinaccia, bensì da alcuni strati di acqua ghiacciata.

Il Titanic stava affondando.

Carol osservò Daryl e altri uomini cercare di spaccare il cancello senza alcun risultato. Sophia stava piangendo tra le braccia della madre che la stringeva e cercava di non piangere a sua volta, ma non riusciva a trattenere le lacrime.
«Deve salvarsi, Daryl. Almeno Sophia. Almeno lei…»
Le parole pronunciate a bassa voce da Carol colpirono Daryl dritto al cuore. Sapeva che aveva ragione. Se esisteva la possibilità di salvarsi, quella ce l’aveva Sophia e nessun’altro. Non loro – loro avevano già vissuto, e anche se si erano incontrati troppo tardi, avevano comunque vissuto il loro breve amore. Sophia, invece, era piccola, aveva tutta la vita davanti.
«Andiamo. Ci deve essere un modo per salire al ponte superiore.»
Ma più passava il tempo, più difficile diventava correre e spostarsi tra i corridoi. La nave si inclinava sempre di più e l’acqua saliva e saliva e ora raggiungeva già le ginocchia di Daryl e Carol e il bacino di Sophia. Notando la fatica che la ragazzina faceva nel correre, Daryl la prese in braccio mettendo da parte la propria di stanchezza. Dovevano salvare Sophia.

Ogni volta che si ritrovavano davanti ad un cancello Daryl e Carol pensavano entrambi a come non sarebbero riusciti ad uscire da lì, ma entrambi avevano troppo paura di ammetterlo ad alta voce, quasi come se l’ammetterlo, avrebbe firmato la loro condanna a morte.
Daryl pensato spesso alla sua morte, ma non pensava sarebbe successo così. Non sulla nave che veniva definita “inaffondabile” e la stessa cosa valeva per ogni passeggero. Le persone correvano da una parte all’altra del corridoio, cercando disperatamente un modo per sopravvivere, ma c’era chi aveva già deciso il loro destino.
«Non c’è scampo. Non ci lasciano salire!»
Quando Helen Jackson, la madre della nuova amica di Sophia, parlò, Carol si sentì svenire. Come poteva salvare sua figlia se gli stessi membri della nave non li lasciavano perlomeno tentare di sopravvivere e invece li condannavano a morte certa e orribile?
«Ci deve essere un modo.»
Fu Daryl a parlare, ma il marito della donna scosse la testa.
«Niente. Ci vogliono morti. Abbiamo pagato fior di quattrini per essere su questa nave e guardateli, preferiscono farci morire che farci stare sullo stesso ponte insieme alla prima classe. Maledetti figli di puttana!»

Daryl fece salire Sophia su una panchina e fece un respiro profondo. Era furioso e lo sguardo che avevano entrambe quelle che, a questo punto, lui considerava le sue donne, lo fecero sentire ancora peggio. Gli sembrò quasi che una lama sottilissima gli stesse lentamente trapassando il cuore con il solo scopo di farlo soffrire. Si poteva leggere la stanchezza nei visi di Carol e Sophia, così come nei visi di ogni passeggero di terza classe, ma furono quei due a colpirlo. Erano stanche e stufe.
«Non ce la faremo.»
Il sussurro, seppur lieve, raggiunse le orecchie di Daryl chiaro come se nessuno stesse urlando, come se quel corridoio fosse totalmente deserto e fossero da soli.
«Sì! Sì, ce la faremo. Sophia ce la farà. Vero, biondina?»
La bambina sorrise appena e strinse ancora più forte la sua bambola, ma Carol non sembrava convinta.
«Come pensi che ce la faremo? Non possiamo nemmeno pagare quei steward! Non abbiamo un soldo, non abbiamo niente! Ci lasceranno morire…»
Gli occhi le si riempirono di lacrime e in meno di un secondo si ritrovò a singhiozzare, tremando di freddo e di paura.
Aveva ragione e Daryl lo sapeva, ma non poteva sopportarlo. Scosse la testa e prese il viso della donna tra le mani, cercando, per quanto poteva, di asciugarle le lacrime che sembravano scorrere a fiotti.
«Hai me.», disse, guardando dritto nei suoi occhi per poi guardare la bambina. «Avete me.»
Carol annuì in un modo che quasi spaventò Daryl, sembrava quasi stesse avendo uno spasmo. Le baciò delicatamente le labbra e poi baciò leggermente anche le mani di Sophia che stringevano ancora quella bambola di pezza che, a guardarla bene, era anche piuttosto brutta, soprattutto adesso che era bagnata.
*
Provarono a cercare una via d’uscita fino a quando non furono sfiniti. Avevano sentito dire da qualche passeggero che alcuni erano riusciti a salvarsi – o meglio, erano riusciti a salire sul ponte e probabilmente anche su qualche scialuppa, ma non si poteva essere certi che fossero davvero salvi.
«Non ce la faccio più.»
Sophia diede voce ai pensieri di tutti e tre. Erano stremati e fradici, e non ce la facevano davvero più. La bambina si guardò in giro e vide famiglie intere accasciate a terra che pregavano, altre che si abbracciavano aspettando il momento più brutto della loro vita, altri non si davano per vinti e continuavano a cercare una via d’uscita.
Daryl rivolse il suo sguardo a Carol e le prese una mano.
«Dimmi cosa vuoi fare e io ti seguirò.»
La donna fece un profondo respiro e si guardò attorno.
«Non voglio che accada qui. Non voglio che veda tutta questa gente morire.»
Daryl capì immediatamente cosa intendesse Carol e annuì, guardandosi attorno un momento per capire dov’erano. Le loro cabine erano dalla parte opposta e non avrebbero fatto in tempo a raggiungerle, decisero così di entrare in una stanza abbandonata. Si chiusero dentro e i due adulti spinsero un mobiletto contro la porta.
Nessuno parlava. Nessuno osava dire nulla.

«Mamma? Mi racconti la storia di Biancaneve?»
Le parole di Sophia era di un’innocenza tale da lasciare persino Carol basita. La madre annuì e si sdraiò su quel letto su cui solo poche ore prima dormiva una famiglia. Daryl si sedette accanto a loro, ma immediatamente Carol gli fece cenno di sdraiarsi accanto a loro.
Sophia continuò a stringere a sé la bambola e chiuse gli occhi, cullata dalle parole e dalle braccia della madre mentre le raccontava la fiaba.
Carol piegò appena la testa di lato e Daryl vi appoggiò sopra la sua dopo aver messo il proprio braccio attorno alle spalle della donna.
Odiava che sia Carol che Sophia stessero per morire, ma era felice di avere loro due con sé. Se anche avevano trascorso pochi giorni e poche ore assieme, Daryl non riusciva ad immaginarsi un modo migliore di andarsene. E nemmeno Carol.
Il rumore dell’acqua che colpiva la porta sempre più forte terrorizzava tutti e tre. Era come se la morte stesse bussando a quella maledetta porta con la sua falce argentata.
«Siete la cosa migliore che mi sia mai capitata.»
Daryl parlò e abbassò lo sguardo per incrociare quello di Carol. Vederla così era straziante. Gli occhi le brillarono appena, ma non erano le lacrime, era qualcos’altro. Era amore, ma lui non lo avrebbe mai saputo.

La morte fece la sua entrata prima che la donna riuscisse a dire il suo primo vero e sentito Ti amo.

***
Ciao a tutti/e! E' la prima volta che mi cimento seriamente in una fanfiction su The Walking Dead (dopo che ne ho fatte fallire altre due qualche anno fa) e spero sia di vostro gradimento. Come ho già detto nell'indice e nell'introduzione, questa sarà una raccolta di più storie, con i più svariati plot, il cui cardine principale saranno appunto Daryl e Carol. 

Per questo prompt in particolare ho optato per Titanic perché amo il film alla follia, nonché la storia stessa della nave e non potevo non far viaggere Daryl e Carol sulla nave dei sogni.

Commenti, recensioni e critiche costruttive sono ovviamente ben accette!

  
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