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Autore: Pathetic    05/11/2016    10 recensioni
[Fanfiction Interattiva | New Prophecy | Blood, Tears and Death | Iscrizioni chiuse]
Un mare nero macchia la pelle degli dei.
Alcuni miti sono rimasti sepolti più di altri, racchiusi nell’ombra di una colpa celata agli occhi dei mortali.
Ma tutti i segreti sono destinati a riemergere e ritrarre gli Olimpi per ciò che sono davvero.
Sarà una guerra senza pietà e i mezzosangue dovranno schierarsi su di uno o su di un altro fronte.
Perché la giustizia non esiste.
Non quando è un bambino a cadere nel sangue di una colpa che non gli appartiene.
E nemmeno Apollo seppe deviare la rotta di quella freccia maledetta.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Gli Dèi, Oracolo di Delfi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Graeci et Romani


Tirava un vento secco quel pomeriggio, sentiva l’aria riempirsi di sole e strangolarle la gola con fastidio mentre, seduta sull’erba verde e graffiante del prato, sfiorava con le dita le piccole margherite che si disperdevano sotto i suoi occhi. Era strano, aveva sempre immaginato che l’arrivo di una profezia avrebbe portato con sé un clima rigido e ostile, ben lontano dal calore che ustionava la sua pelle.
Sapeva che qualcosa era cambiato, che fosse la sua percezione di vedere le cose o la consapevolezza che qualcosa di più grande stesse per incombere su di loro, eppure era come se la natura non l’avesse capito, come se vivesse il suo corso con indifferenza, quasi insofferente agli dei e ai loro poteri. O magari se ne era accorta anche lei e voleva fingere di non avere paura, o forse voleva solo illudere gli uomini e far credere loro che fossero al sicuro.
Spostò lo sguardo sul foglio che aveva abbandonato nell’erba, sui colori che macchiavano la carta e le ricordavano le parole che lo Spirito di Delfi aveva espresso. Si era sempre chiesta cosa provasse la gente normale, che sinfonie udisse nei profumi, che emozioni vedesse nei colori, che fragranze percepisse nelle scritte che imbrattavano i muri. Il suo dottore da piccola le aveva detto di essere speciale, che solo a pochi era concesso di percepire la vita in quel modo e che la sinestesia1 era un dono. Crescendo, Bloom non aveva potuto che domandarsi se quel fenomeno sensoriale non fosse in qualche modo collegato allo spirito di Delfi. Forse il suo destino era già stato deciso alla sua nascita.

Prese un lungo respiro e allungò le dita verso il biglietto stropicciato che aveva sotto il naso, lo aveva torturato tra le mani per diversi minuti nell’arco di quella lunga giornata e anche il giorno prima, con gli occhi sfiniti dal sonno e il passo ondeggiante che la guidava verso il letto, non era stata in grado di disfarsene nemmeno per qualche ora e l’aveva appoggiato sul comodino, dimodoché potesse agguantarlo e analizzarlo nuovamente in ogni momento della notte.
Era irritata, sembrava che chiunque si ricordasse la profezia tranne lei. Avrebbe voluto essere utile, doveva essere utile in qualche modo, ma non riusciva a raccattare nemmeno un istante di quel passato così vicino, come se la sua mente avesse avuto un blackout in quei pochi minuti. Sbuffò, quelle lettere intrise di colore le facevano saltare i nervi. Aveva provato a distendersi nell’erba e prendersi una pausa per rilassarsi, ma non aveva funzionato molto bene. Era come ossessionata da quella profezia e più la osservava, più la studiava e più Bloom sentiva di essere vicina alla soluzione … anche se effettivamente non aveva idea nemmeno di cosa fosse la soluzione in questione.
Si passò una mano tra i lisci capelli color zenzero e mentre lo faceva sull’erba comparve un’ombra nera e il sole che le aveva infranto la pelle svanì nel nulla, alle sue spalle. Voltò la testa all’indietro, verso il ragazzo biondo e sorridente che le faceva da scudo dai raggi ultravioletti.
“Ancora qui ad arrovellarti il cervello?” domandò Francis con una quiete a cui l’Oracolo quasi non poteva credere. Si sedette a gambe incrociate sul terreno, di fronte a lei, e continuò a scrutarla con attenzione.
Bloom, da parte sua, si ritrovò a sollevare le spalle. “Non riesco a ricordare nulla.”
Aveva un’espressione così affranta in quel momento che il figlio di Iris parve barcollare un po’, alla fine le prese una mano tra le sue e le regalò uno di quei sorrisi acquosi che si danno ai bambini.
“I ricordi riaffioreranno” esclamò con convinzione “devi solo aspettare.”
“La fai facile tu” borbottò la ragazza “Sei un tipo tranquillo per natura. Ma tutti si aspettano qualcosa da me, okay? E io non ho nulla da dare o dire o fare, o qualsiasi altra cosa dovrebbe fare un Oracolo.”
“Nessuno si aspetta niente da te, non sei mica Wonder Woman!” sghignazzò il biondo, ma capiva perfettamente come si sentisse Bloom. Non voleva che si addossasse un peso così grande, aveva solo sedici anni e tutta la vita da vivere, c’era tempo per crescere e maturare.
Le prese il foglio dalle mani e se lo mise in tasca, tanto non sarebbe risalita a niente in quel modo. Aveva bisogno di distrarsi un po’.
Bloom non fece obbiezione, se da una parte fremeva per comprendere appieno quelle parole, dall’altra era sollevata che Francis le avesse tolto quel fardello da sotto il naso. Si sistemò meglio la canotta bianca che indossava e tornò a fissare le biglie grigie del figlio di Iris. Prima di incontrare lui, Bloom credeva che la progenie dell’arcobaleno avesse occhi vividi e ardenti, di un azzurro splendente o un verde penetrante. Colori accecanti, lucidi, accesi, invece Francis aveva gli occhi del colore della fuliggine, come di un camino spento da tempo.
Fece schioccare la lingua sul palato, prima di parlare“Quindi ci sarà una spedizione”
“Una missione” la corresse il figlio di Iris con benevolenza, nemmeno di fronte a una possibile guerra riusciva a perdere il controllo, sempre così tranquillo.
“E sai già chi partirà?”
Francis scrollò le spalle, vi sarebbe stata un’altra riunione in via della mattinata, ma lì su due piedi non aveva la benché minima idea di chi si sarebbe offerto volontario.
“È da ieri che si mormorano nomi tra le Cabine, ma nulla di ufficiale.”
La ragazza annuì, sovrappensiero. Ci aveva pensato tutta la notte e solo pochi volti si erano delineati nella sua mente. La verità era che la maggior parte dei ragazzi al Campo aveva passato solo una manciata di anni ad allenarsi e quasi nessuno di loro avrebbe affrontato una profezia impervia di sua spontanea volontà. E Bloom non li giudicava per questo, come avrebbe potuto? Lei che a mala pena riusciva a tenere in mano una spada.
“A che pensi?”
Bloom si ridestò al suono di quella voce e tornò a guardare gli occhi grigi e amichevoli di Francis, ancora non del tutto sicura se rivelargli la decisione che aveva preso o meno. Forse sarebbe stato meglio aspettare, era certa che si sarebbe opposto e che avrebbe tentato di dissuaderla.
“Niente di importante” scosse la testa “Senti, perché non ci vediamo dopo, ti va? Passo in infermeria a vedere come sta Chloe e poi …”
“Devo andare alla riunione dopo, ma non credo che durerà molto. Forse riusciamo a passare un’oretta insieme prima di pranzo.” ragionò il biondo, ancora non del tutto convinto.
Bloom si ritrovò a boccheggiare per qualche secondo, ma si riprese subito “Ah sì, certo. Allora … ci vediamo dopo.”
“Ci vediamo dopo.” ripeté il figlio di Iris lentamente lanciandole uno sguardo strano,  mentre la ragazza si rialzava dall'erba e comnciava ad allontanarsi.
Non era sicura di non aver suscitato il minimo sospetto nel biondo, ma contava sul fatto che negli anni si fosse fatto un’idea abbastanza chiara della stranezza che talvolta la prendeva. E puntava su quello.



L’infermeria non era poi così lontana e sapeva per certo che Chloe era là. L’aveva vista piuttosto scossa l’ultima volta e ancora di più dopo la riunione del giorno prima, ma non era riuscita a ritagliarsi un po’ di tempo per passare da lei. Ogni volta che la figlia di Ilizia era turbata, si rinchiudeva in infermeria a dare una mano, era come uno sfogo per lei. Bloom credeva che ognuno di loro avesse il suo modo per combattere le emozioni, ma non poteva non ammettere che quello di Chloe fosse anche quello più utile, e altruista.
Come pensava, appena varcò la soglia una chioma bionda e famigliare attirò i suoi occhi. Chloe stava sistemando le lenzuola di uno dei tanti letti vuoti e non sembrava essersi accorta della sua entrata.
Si avvicinò a lei con passo tranquillo, beandosi dell’odore floreale che permeava l’aria.
“Ehi” esclamò arrivandole alle spalle.
Chloe sobbalzò, presa alla sprovvista, ma sul suo volto si delineò ben presto un sorriso tiepido. Bloom non stentò a credere che fosse reale, la conosceva abbastanza bene da sapere che se non fosse stata realmente felice di vederla, non avrebbe finto di esserlo. Non era una di quelle persone che si mettono maschere solo per compiacere gli altri, lei era sincera.
La osservò attentamente mentre si passava una mano tra le crespe ciocche di capelli che le erano finite sul volto, e si lasciò cadere sul materasso che aveva appena finito di sistemare.
Prima che potesse protestare, Bloom prese un rapido respiro e aprì la bocca “Come stai? Non sembravi stare troppo bene l’ultima volta. Avrei voluto passare prima, ma con tutta la storia della profezia … ero così presa a tentare di capirci qualcosa, che il tempo è passato in secondo piano.”
“Non preoccuparti” la interruppe la ragazza, ignorando le pieghe delle bianche lenzuola e grattandosi il mento con fare innocuo.
Bloom la fissò un istante, finché non capì che non avrebbe continuato. Allora prese il coraggio tra le mani e si sistemò meglio sul materasso.
“Chloe, eri palesemente sconvolta dalla profezia. Siamo amiche, lo sai che con me puoi parlare.”
La figlia di Ilizia non disse niente per quello che parve un minuto lunghissimo, poi scrollò le spalle.
“Quel mito … insomma, non è possibile che abbiano fatto una cosa del genere, vero? L’idea che Apollo … che mio zio abbia dato inizio a un massacro del genere …” le parole scemarono insieme alla sua voce.
No. Dietro ogni famiglia si cela un passato oscuro, ed è chiaro che dietro una famiglia immortale vi siano molte più ombre, ma Chloe non poteva accettare quella verità. Non le sembrava possibile che un dio come Apollo, che il padre dei suoi compagni fosse un assassino. Non era da lui.
D’altronde però, i miti narravano di innumerevoli morti, di innumerevoli tragedie e in ognuno di questi miti era presente un dio. Solo che Chloe non voleva accettarlo, voleva continuare a credere nella bella famiglia dell’Olimpo che talvolta litigava, come qualsiasi altra famiglia.
Solo che la verità era un’altra.
“Se è davvero Ilioneo a volere vendetta, se il nostro nemico è davvero un bambino tanto piccolo … Bloom, nessuno qui avrebbe mai il coraggio di affrontarlo.”
Bloom rimase in silenzio, improvvisamente pietrificata. Chloe aveva ragione; nessuno lì al Campo avrebbe mai trovato la forza di colpire un fanciullo, né tantomeno di risvegliarsi al mattino e continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse.
Però loro dovevano vincere, no? Erano i buoni dopotutto, nei film era sempre così.
Per un solo istante, Bloom si domandò chi fossero i cattivi in quella guerra. Loro avrebbero combattuto per la salvezza dell’Olimpo, dei propri genitori e del Campo Mezzosangue; Ilioneo invece avrebbe combattuto per una famiglia ch’era stata distrutta proprio dall’Olimpo.
Tornò a scrutare il volto della figlia di Ilizia, stavolta non c’era nessun sorriso su quelle morbide labbra.
“Dobbiamo farlo, Chloe. Dobbiamo almeno provarci.”
Non era una situazione facile, se ne rendeva conto, ma non c’era nient’altro che potessero fare.
La bionda non disse nulla e continuò a torturarsi le labbra con i denti, sembrava abbattuta. Erano amiche da molto tempo, praticamente da quando Bloom era stata designata come Oracolo del Campo e ormai si conoscevano come le proprie tasche. Ciò che pensava una, pensava l’altra. Ed è per questo che quando Chloe alzò lo sguardo verso di lei, Bloom seppe con certezza che le aveva appena letto la mente, e le sue parole non la sorpresero.
“Vuoi andare in missione.”
La sua voce era calma, ma il suo sguardo la penetrava quanto una spada d’acciaio. E Bloom non poteva mentirle.
Annuì con la testa “Ci ho pensato su. Non starò qui al Campo con le mani in mano, mentre qualcun altro affronta la profezia che io ho espresso; non riuscirei a perdonarmelo.”
Si aspettava uno sguardo di ammonimento o un tentativo di farla ragionare, di farle cambiare idea, ma Chloe non disse niente. Non fece niente. Si limitò a osservarla con un che di enigmatico e pensieroso, e d’un tratto fu come se gli ingranaggi del suo cervello avessero ripreso a funzionare.
I suoi occhi si illuminarono di quella che –Bloom poteva scommetterci- era la luce di una brillante idea, di un piano perfetto.
Le voltò le spalle e cominciò a camminare fino al lato opposto dell’infermeria, come a volerci pensare su per un’altra manciata di secondi. La rossa attese con impazienza e curiosità.
Quando finalmente si fu decisa, Chloe si voltò verso l’amica, un barlume di convinzione nel volto ambrato “Va bene, ma dovrai portarmi con te.”
“Cosa?”
Quella era l’unica cosa che Bloom non si sarebbe mai aspettata. Aveva sempre pensato a lei come a una ragazza delle retrovie. Non era un guerriero, non sapeva brandire una spada né tantomeno usare un arco, lei stessa si riteneva inutile sul campo di battaglia. Per questa serie di motivi, l’espressione che si disegnò sul volto della ragazza fu sorprendentemente esterrefatta.
“Promettimi che lo farai” la sua voce era come un ordine e Bloom, sebbene ancora restia alla cosa, non poté che acconsentire.
“Ok, ci andremo insieme, solo non capisco perché …?”
“Fidati di me.” Il sorriso che le baluginò sul viso fu incredibilmente piacevole da guardare, soprattutto se confrontato con l’aria lugubre che l’aveva rivestita fino a quel momento. Bloom avrebbe voluto chiederle di più, scoprire perché mai avesse deciso di prender parte a quella missione, però voleva credere in lei. Non avrebbe mai fatto nulla per danneggiare il Campo, lo sapeva bene, e dopo tutte le volte che l’aveva coperta con Chirone glielo doveva. Sì, perché Bloom non aveva preso sul serio la storia dell’Oracolo, soprattutto nei primi mesi al Campo. Aveva continuato a varcare i confini magici per motivi che a qualsiasi semidio sarebbero parsi inusuali: aveva voglia di fare shopping; gli mancava il cibo dei Fast Food; aveva bisogno della connessione ad internet. E Chloe le aveva sempre guardato le spalle. Quindi sì, poteva fidarsi di lei per una volta.



Ci era voluto molto perché l’intera sala da ping pong si riempisse dei portavoce delle varie Cabine e per tutto il tempo, Bloom aveva potuto sentire su di sé lo sguardo criptico di Francis Lawyer. Non avrebbe dovuto trovarsi lì e questo, il figlio di Iris lo sapeva benissimo. Sentiva i suoi occhi scavarle il viso con sospetto, erano amici da così tanto tempo che Franz avrebbe dovuto sapere già in anticipo cosa avrebbe fatto la ragazza. Più tardi avrebbe dovuto sorbirsi le sue prediche, ma fino a quel momento Bloom era intenzionata ad andare fino in fondo.
Quando anche l’ultimo membro del consiglio si fu seduto, Chirone si schiarì la voce e i suoi occhi antichi si posarono sul capo dei ragazzi che aveva cresciuto.
“La profezia è iniziata” proruppe con forza, probabilmente decidendo di non tergiversare e arrivare dritto al dunque.
Dai lati del tavolo si alzarono vari mormorii, che però vennero scacciati dall’impazienza del Centauro “Ho inviato un messaggio al Campo Giove e i loro pretori sono più che disposti a collaborare e inviare un gruppo di semidei in missione. Vi incontrerete in California, alla Baia della Mezza Luna, da lì non dovrete far altro che arrivare a Waikiki e …”
“Raggiungere la Casa di Apollo” concluse Quinn giocherellando coi pulsanti dell’mp3.
“E chi partirà?” domandò con più serietà Austin Thoreman, portavoce della Cabina numero undici.
Per qualche secondo nessuno fiatò, come in attesa di qualche tributo volontario, e Bloom decise di buttarsi.
“Io parteciperò” esclamò con convinzione e si trattenne dal voltarsi verso gli altri alla ricerca di una qualche obbiezione “E Chloe verrà con me.”
La figlia di Ilizia, al suo fianco, annuì con sicurezza. Nessuno là avrebbe mai scommesso un penny su loro due, tuttavia nessuno parve contestare.
Ora sì che Bloom poteva percepire l’occhiata insistente di Francis ed era sicura che se si fosse sporta a guardarlo, avrebbe potuto vedere un’espressione scura sul suo volto.
E infatti non si stupì di udire la sua voce, poco dopo.
“Non potete. Non sapete nemmeno brandire una spada, vi fareste uccidere.”
Aveva ragione, come al solito, ma stavolta Bloom non si sarebbe tirata indietro. Sentiva di dover partecipare, ne doveva fare parte.
“Forse” ammise con razionalità “Ma non starò qui al Campo mentre il nemico si prepara alla guerra. Io sono l’Oracolo.”
“Appunto. Tu enunci le profezie, ma siamo noi semidei a combatterle.” continuò il figlio di Iris, intestardito. Bloom sapeva quanto Francis potesse rivelarsi una testa calda delle volte, ma non aveva voglia di litigare con lui.
“Parteciperò a questa missione, che tu lo voglia o no.”
Franz strinse i denti, i suoi occhi grigi parvero contrarsi in un’imprecazione, ma poi i suoi polmoni si riempirono di un lento respiro e il suo volto rigido parve ammorbidirsi un poco, ma non abbastanza.
“Va bene, allora, ma se credi che ti lascerò andare a morire da sola, ti sbagli di grosso” si voltò verso Chirone tra l’irritato e lo spazientito “Andrò con loro.”
“E io mi unirò a voi” esclamò Clyde all’istante, dopo essere rimasto in disparte ad osservare lo scambio di battute tra il figlio di Iris e l’Oracolo di Delfi. Era un ragazzo alto e atletico, con abbastanza narcisismo e sicurezza da poter brandire una sciabola senza rischiare di darla in un occhio a qualcuno, dunque avrebbe potuto rivelarsi utile. Molto utile.
“E ci seguirà anche Rex” continuò poi con nonchalance, quasi ghignando all’espressione allarmata che si disegnò sul volto del figlio di Asclepio. Era un tipetto tutto solitario e taciturno, talmente anonimo che molti al Campo non si erano ancora fatti un’idea chiara sul suo conto. Non se la cavava male con l’arco, anche se si allenava perlopiù da solo nella foresta e rifuggiva dalle lezioni di gruppo della Cabina di Apollo. Nonostante questo particolare, Bloom rimase alquanto spiazzata dalla scelta del figlio di Melpomene. Stava per ribattere, quando un’improvvisa consapevolezza si fece spazio dentro di sé: se lei e Chloe potevano partecipare all’impresa, perché mai non avrebbe potuto partecipare anche un tipo come Rex?
Fu questo pensiero a frenarle la lingua, mentre Chloe e Francis accoglievano il nuovo arrivato.

Rex, da parte sua, non disse una parola, ma riuscì a lanciare un unico sguardo criptico a Clyde prima di sprofondare nuovamente nella sedia. Si sentiva come strangolato dagli sguardi dei presenti e avrebbe voluto alzarsi in piedi e lasciare quella sala senza voltarsi mai indietro, ma il suo corpo si era fatto rigido come un sasso e le sue gambe rimanevano impiantate al terreno come le radici di un albero. Sentiva i muscoli del viso contratti, soprattutto quelli della mandibola e una sensazione tanto spiacevole quanto famigliare aveva cominciato a diradarsi nel suo petto come una nebbia.
Si sentiva a disagio, aveva le mani sudate e il respiro gli scivolava fuori dal naso lentamente, come se cercasse di non far rumore, di non farsi udire. Aveva la bocca secca, come se la timidezza avesse risucchiato tutta la sua saliva e l’avesse lasciato lì a boccheggiare.
Non amava quella sensazione, quella di essere sotto i riflettori o di trovarsi in una stanza, circondato da persone. Odiava quella sua percezione della realtà, era come trovarsi dietro un vetro trasparente e aldilà di quella superficie, il mondo era pieno di colori, pieno di sorrisi. Ma lui non ne faceva parte, era confinato in quella cella di vetro e non aveva idea di come uscirne. Non c’erano porte, non c’erano finestre, alcune volte quasi non riusciva a sentire le voci degli altri, come attutite da quella superficie. Ecco, quel vetro era la sua pelle, la sua stessa pelle. E c’erano giorni in cui si chiedeva cosa vedessero le persone su quel vetro, se riuscissero a scorgere –dietro gli occhi appannati e il corpo rigido e immobile- le urla che animavano la sua mente e la paura che lo divorava.
E la risposta era no. Non vedevano mai niente.
Non voleva partecipare a quella missione. No, anzi sì. Non lo sapeva, era confuso. Una parte di lui continuava a gridargli che quella sarebbe stata la sua occasione, avrebbe potuto dimostrare agli altri chi era veramente, avrebbe potuto far parte di un gruppo, come aveva sempre sognato. E quando sarebbero tornati di nuovo al Campo, la gente si sarebbe ricordata il suo nome.
Ma se poi qualcosa fosse andato storto? Se avesse combinato un casino? Forse avrebbe dovuto restare al Campo. Sì, sarebbe stato più sicuro. Lui sarebbe stato al sicuro. Non era bravo a stare con gli altri, e comunque se la sarebbero cavati benissimo anche da soli, anche senza di lui, soprattutto senza di lui. Non avevano bisogno di lui, nessuno ne aveva bisogno a dire il vero. E a lui andava bene così; se ne sarebbe stato nella sua Cabina, come al solito. Era così che funzionava, no? Non poteva essere altrimenti.
Quindi sì, ora si sarebbe alzato e avrebbe detto a tutti che non aveva intenzione di prendere parte a quella missione. Sì, ormai era deciso. Non sarebbe partito.
Prese un respiro vuoto e quasi poté percepire le sue stesse costole dolere al pensiero di ciò che stava per fare.
Al tre mi alzo e lo dico. Lo avrebbe fatto. Non ci vuole niente: ti alzi, parli, ti scusi e ti siedi.
Uno. Ma poi perché avrebbe dovuto scusarsi? Non era mica stato lui a offrirsi volontario. Però magari loro si aspettavano delle scuse … sì, insomma magari avrebbe dovuto chiedere scusa.
Due. C’erano tutte quelle persone anche prima? Sentiva la testa intasata di pensieri e il tavolo da ping pong era circondato da mezzosangue intenti a parlottare tra di loro, mentre Chirone ragionava sul da farsi.
Tre. No, troppo presto. Conto di nuovo fino a tre e poi lo faccio.
Era terribilmente caldo in quella stanza, più di quanto si sarebbe aspettato. Si sentiva le guance scottare, sperò di non essere arrossito.
No. Cazzo, no. Ti prego, le guance rosse no. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, che si attorcigliavano tra di loro nel disagio più totale.
E se avesse partecipato alla missione, invece? Forse avrebbe potuto farlo. Insomma, se Clyde l’aveva scelto, un motivo doveva pur esserci. Forse avrebbe potuto far fronte ai propri timori, forse sarebbe andata bene.
Stronzate, questi buoni propositi non vanno mai a finire bene, lo sai, si redarguì col pensiero. A volte pensava di essere pazzo per il modo in cui pareva conversare più con la voce che aveva in testa, che non con il mondo esterno. A volte si chiedeva se gli altri pensassero nello stesso modo, se anche loro avessero una vocina insistente –la coscienza, presumeva- che continuava a bacchettarli.
Certo che ce l’hanno, idiota. Non sei messo così male. Quella voce aveva ragione, erano pensieri stupidi.
Si sentiva lo stomaco in subbuglio, e non si era ancora alzato.
Era passato troppo tempo, ormai era tardi. Sarebbe sembrato scemo ad alzarsi dopo tutti i minuti che erano trascorsi. E se poi avesse balbettato? Se si fosse ingarbugliato nelle frasi, o avesse parlato a voce troppo sommessa?
Aveva fatto bene a rimanere seduto. Tzeh, come se volendo sarebbe mai riuscito ad alzarsi e aprire la bocca. Era un vigliacco, Rex lo sapeva bene.
Ed era proprio per questo che avrebbe partecipato a quella missione. Perché non aveva abbastanza coraggio per dire di no.
Un moto di tristezza gli sciolse le membra, il brusio dei compagni parve attutirsi e anche il suo cuore cominciò a rallentare.
Non era in grado di fare proprio niente, era inutile. E lo sarebbe stato anche in quella missione. Perché non poteva essere come gli altri? Perché cazzo era nato così? Se vi era davvero un posto per tutti nel mondo, qual era il suo? Lui, che a momenti neanche si sentiva umano da tanto era strano e diverso.
Ora basta, che se no poi piangi. Avrebbe anche potuto piangere, le sue lacrime erano come invisibili agli occhi delle persone. A scuola piangeva spesso e non se ne accorgeva nessuno, o magari non importava a nessuno. Aveva sempre preferito credere alla prima opzione.

Dall’altro lato del tavolo, Rex poté notare un’affabile Chloe che tentava di sorridergli, incoraggiante. Allontanò lo sguardo e lo posò sulla superficie verde del tavolo, avrebbe voluto sorriderle di rimando, ma si sentiva in imbarazzo quando qualcuno –chiunque- lo fissava e i suoi tentativi di increspare le labbra in un sorriso erano, come dire, imbarazzanti. Praticamente non era in grado di fare neanche quello. Che incapace.
Cercò di riconcentrarsi sulla conversazione che stava avendo luogo in quel momento. Avevano ricominciato a discutere del viaggio e di come avrebbero riconosciuto la Casa di Apollo.
“Forse dovremmo portarci dietro anche Lavi” si ritrovò a mormorare ad alta voce il figlio di Iris, meditabondo, e l’attenzione di tutti i presenti si spostò verso un ragazzo dai ricci capelli di fuoco che sonnecchiava bellamente nell’angolo. Nessuno si prese la briga di svegliarlo.
“Lo porteremo con noi” annuì con un sorrisetto Clyde, quasi incredulo di fronte alla narcolessia del giovane figlio di Hypnos. Davvero era in grado di dormire in qualsiasi situazione?
Si sistemò meglio il colletto della maglia e tornò a fissare il bel volto di Franz, con ancora quello stesso ghigno stampato in faccia. Il figlio di Iris incrociò i suoi occhi solo per un istante prima di continuare a rivolgere la sua attenzione al giovane Oracolo. Sembravano in attesa di rimanere da soli per dar sfogo a una grossa sfuriata e Clyde avrebbe giurato che quella volta ci sarebbe voluta più di una scrollata di spalle per far pace.
Erano una bella combriccola di sfasati, si ritrovò a pensare nel frattempo. Insomma, lui sapeva combattere, ma i suoi compagni erano abbastanza degli inetti. Chloe e Bloom non avevano mai preso in mano un’arma in vita loro, e Lavi sarebbe stato in grado di addormentarsi nel bel mezzo della battaglia, per quanto ne sapeva. Gli unici su cui poteva contare erano Francis e Rex, ma nessuno dei due era tutto questo portento. Sperò che i loro compagni di squadra romani fossero messi meglio.
 


“Cosa ti è saltato in mente?!” sbraitò il figlio di Iris, una volta uscito dalla Casa Grande.
Bloom tentò di non dargli corda, ma si sentiva ribollire il sangue.
“Vuoi farti uccidere? Non sapresti distinguere un forcone da una forchetta!”
“Non sono fatti tuoi! Non sei la mia balia, non devi seguirmi ovunque vada!” odiava quella parte di lui, quella che si sentiva in dovere di proteggere tutti. Non era una bambina, era in grado di guardarsi le spalle anche da sola.
“Sì, invece. Perché non sei palesemente in grado di fare due passi senza cacciarti in qualche guaio.”
“Ah, è questo quello pensi? Puoi restare benissimo al Campo se ti creo problemi, ho altri compagni al mio fianco.”
Franz sbuffò, come se l’avrebbe mai lasciata partire da sola. Però si sentiva ferito. Si era comportata come nulla fosse quella mattina e poi se ne era venuta fuori con quell’assurda storia nel bel mezzo della riunione, l’aveva colpito alle spalle!
E Bloom ne era cosciente.
“Sapevo ti saresti arrabbiato” esclamò dopo qualche istante di attesa, intercettando i pensieri del ragazzo “Ma, Fra, io devo venire con voi. Me lo sento.”
“Ti farai ammazzare” borbottò il biondo, ma il tono della sua voce stava già scemando e all’ira si stava cominciando a sostituire una sofferta rassegnazione.
“In quel caso ci faremo ammazzare entrambi” gli sorrise l’Oracolo. Sapeva che ne avrebbero riparlato, che quella conversazione non era finita, ma in quel momento aveva bisogno di un amico che la sostenesse, non di un litigio.
“E va bene” si lasciò andare il semidio “Ma dovrai fare quello che dico e se ci troveremo in una situazione critica …”
“Farò tutto quello che vorrai” lo interruppe la rossa con un sorriso birichino e complice allo stesso tempo “Allora, quando si parte?”
Sprizzava entusiasmo da tutti i pori, era elettrizzata da quella missione e il vago senso di preoccupazione sembrava essersi assopito nell’eccitazione.
“Oggi stesso” schioccò il figlio di Iris “Gli altri saranno già andati a preparare lo stretto necessario per il viaggio, sarà meglio sbrigarci. Il punto di ritrovo è davanti all’insegna del Campo Mezzosangue, vedi di non metterci troppo.”
L’ultima parte della frase dovette praticamente urlarla perché la ragazza si era già fiondata verso le sue stanze, giù alla caverna. Mentre la vedeva correr via, non poté che augurarsi che quell’avventura finisse bene, almeno per lei.



Quasi un’ora più tardi, un gruppetto di giovani semidei era pronto per partire. Chloe e Bloom si erano procurate due spade all’ultimo minuto, entrambe molto fine e facili da brandire. Chloe aveva preso lezioni sul finire dell’estate prima, ma non aveva ottenuto grandi risultati e non ricorda più granché delle varie mosse. Bloom invece non aveva proprio mai preso in mano un’arma in vita sua, il che era abbastanza patetico.
Era quasi buffo vederli insieme: Francis svettava per quanto riguarda l’altezza, ma nemmeno Clyde era poi tanto basso. Lavi aveva ancora una faccia frastornata dal sonno e i suoi capelli apparivano spettinati e spelacchiati come quelli di un cucciolo di ghepardo. Rex rimaneva un po’ in disparte, con gli occhi che non sapevano bene dove posarsi e le mani sotterrate nelle tasche dei jeans. Si sentiva un po’ fantasma, a dire il vero.
“Si parte!” gridò Lavi in un folle tentativo di tenere le palpebre aperte e convincersi a rimanere sveglio, per sicurezza cominciò a muovere anche il busto e le articolazioni.
“Non fare l’idiota” borbottò Clyde passandogli accanto e proseguendo verso il bosco, seguito a ruota dagli altri.
“Stavo solo cercando di rendermi utile. Ma se preferisci portarmi in braccio, posso anche smettere di combattere il sonno.” Alzò le mani il figlio di Hypnos, provocante.
Clyde sghignazzò “Non sei il mio tipo”
“Vuoi dire che hai un tipo preciso? Come siamo selettivi, pensavo che al cuor non si comandasse.”
Clyde si voltò a fissarlo e per un attimo le sue labbra si piegarono in una smorfia “Non mi piacciono i ragazzi, te l’ho già detto.”
“Ah-ah, e io ci credo.”
Il resto del bosco Lavi se lo fece di corsa, con Clyde alle calcagna. Se non altro quello era un bel modo per rimanere attivi.
 

*** ***


Tra i due pretori non era mai corso buon sangue, ma in quel momento Alyx aveva davvero superato sé stessa.
“Come hai potuto farlo?! Avremmo dovuto consultarci” la sua voce altisonante rimbombava nella tenda con clamore, incurante di ciò che avrebbero potuto pensare i legionari che passavano da quella parte.
Erano stati due giorni piuttosto rigidi tra la profezia dell’Oracolo e gli auspici del loro augure, e la tensione tra i due pretori era arrivata al culmine. Non erano mai andati realmente d’accordo e Karim sospettava che il loro rapporto sarebbe vacillato in ogni caso. Ma cosa aveva scatenato l’ira della figlia di Mitra, vi starete chiedendo? Ebbene, il giovane Karim Sharif ci aveva pensato su per ore prima di rispondere al messaggio di Chirone e aveva deciso autonomamente di inviare una missiva al Campo Mezzosangue per avvertirli che li avrebbero sostenuti inviando loro dei legionari per l’impresa. E questo ad Alyx non era andato affatto giù.
“Sia maledetto il giorno in cui sei divenuto pretore!” sputò tra i denti l’impavida guerriera, i capelli ramati che ondeggiavano appena e le sfioravano le spalle.
Karim serrò la mandibola, irritato. Poteva comprendere l’ammonimento da parte della compagna, ma quella scenata si stava protraendo anche troppo per i suoi gusti.
“Ho fatto ciò che ritenevo giusto. Chirone ha mandato una missiva ed io …”
“Chirone” sbuffò la ragazza “Lui e quel suo manipolo di scellerati, non hanno un minimo di disciplina.”
“Stai parlando dei nostri alleati, Frightwar” la mise in guardia il pretore e per un attimo i suoi occhi lampeggiarono di pericolo.
Alyx assottigliò le palpebre, le labbra ancora tirate in una smorfia di ribrezzo. Non aveva mai amato i Greci; erano poco compatti, disomogenei e scoordinati, e i più di loro si affidavano principalmente ai propri poteri, che non alle proprie abilità fisiche.
“Non ti permetterò di portare la legione in guerra, non senza il mio permesso.”
“È un’impresa!” scattò Karim “Abbiamo il dovere di aiutarli.”
Non avrebbe voltato le spalle al Campo Mezzosangue, poco importava se questo avesse significato dichiarare guerra alla sua collega. Per Karim la lealtà era tutto.
“Oh, e chi ti porterai dietro? Perché se credi di poter contare sulla Prima Coorte, ti sbagli di grosso. Loro sono sotto il mio comando, e nemmeno la Seconda Coorte sarebbe tanto stupida da seguirti. Non avete basi solide, non conoscete il vostro nemico; è una missione suicida.”
Karim era troppo furibondo per continuare quella conversazione. Non poteva credere che Alyx potesse essere tanto testarda, davvero avrebbe messo il proprio astio per i Greci davanti a una minaccia come quella? Karim non aveva davvero parole per descriverla.
Si trattenne a stento dallo scaraventare a terra l’anfora d’argilla che si trovava sul tavolo, e affrontò la figlia di Mitra con uno sguardo d’acciaio.
“Se non vuoi aiutare il Campo, allora fa pure. So già chi portare con me.”
“Non lo stai facendo per la legione, stai solo …”
“Sì, invece” la interruppe il ragazzo “Solo che tu non riesci a capirlo.”
La tenda si riempì di un silenzio di ghiaccio, mentre i loro occhi si squadravano come bestie feroci e i mantelli di entrambi ondeggiavano a pochi centimetri dal pavimento.
Alyx non gli credeva. Quale stolto l’avrebbe seguito in un’impresa come quella? Ciò che Karim stava facendo non era altro che seguire le fioche orme di un branco di sfasati di Long Island, e lei non avrebbe permesso al Campo Giove di tramontare per colpa della sua cieca alleanza.
“Vai, allora” lo canzonò quasi con derisione “Seguili come un cagnolino, ma ricorda: Roma sottomise la Grecia al suo potere, non divenne la sua ancella. E se mai dovessi avere bisogno di aiuto, non scomodarti a chiamare. Hai voltato le spalle alla legione nel momento stesso in cui mi hai tradito.”
Karim non ascoltò nemmeno quelle ultime parole perché si voltò prima e cominciò a incamminarsi a passo pesante fuori dalla tenda, mentre la voce di Alyx scemava di fronte alla nube dei suoi pensieri.
Avrebbe dovuto aspettarselo, non era mai stata in grado di mettere da parte i propri pregiudizi per il bene del Campo, figuriamoci se l’avrebbe fatto in quel momento.
Graecia capta ferum victorem cepit2. Avrebbe volute dirle, ma non sarebbe servito a niente; era testarda come un mulo!
Sentiva il sangue ribollire dentro le sue vene e l’improvviso bisogno di accanirsi contro qualcuno, magari uno di quei fantocci che i legionari in probatio utilizzavano per allenarsi con la spada. Oh, in quel momento sì che avrebbe sfoderato la sua spatha di oro imperiale e ne avrebbe fatto a pezzi uno, ma anche due. Sentiva la testa quasi scoppiare dall’ira e un’emozione scomoda aveva cominciato a diradarsi nel suo petto. Alyx era una scema, non amava utilizzare simili epiteti nei confronti di una ragazza, ma lei aveva davvero superato il limite. I due Campi erano alleati da ben trent’anni, da quando i famosi sette avevano scongiurato una guerra che avrebbe portato alla rovina degli dei e dell’Olimpo e che avrebbe risvegliato le antiche forze nemiche. Le gesta e le imprese dei semidei che furono erano narrate dai legionari più anziani alle giovani reclute perché ricordassero sempre il passato e non rischiassero di ricadere negli stessi errori, eppure era come se Alyx –ma non solo lei al Campo Giove- non avesse capito niente e continuasse sulla sua strada, imperterrita. E Karim non poteva sopportarlo.

Era così immerso in questi pensieri, che quasi non si rese conto d’essere arrivato. La fucina si ergeva in tutta la sua fatiscenza a pochi passi da dove si trovava il pretore, i capelli quasi sospinti dal vapore che fuoriusciva dall’apertura nel muro. Chiunque avesse costruito quella struttura, aveva deciso di non mettere alcuna porta d’entrata o uscita, dunque non vi erano né cardini né maniglie o assi di legno da sospingere per entrare. Sentiva il ferro dei figli di Vulcano battere sul metallo acceso, ma non ci fece poi così tanto caso. Sapeva bene dove avrebbe trovato la giovane figlia di Tacita. Valérie passava molti pomeriggi in quell’area del Campo, lontano dagli allenamenti che avrebbe dovuto seguire e al riparo dal blaterare dei ragazzi della Prima Coorte, che tra tutti erano di certo quelli più pettegoli.
Fece un largo giro della fucina fino ad arrivare sul retro, dove i suoi occhi si ancorarono alla figura smilza e sottile di una quindicenne imbrattata di resina e pigmenti. Valérie Petit non parve nemmeno notarlo e continuò a muovere le dita sottili sul muro di marmo della struttura. Aveva sempre amato dipingere e farlo nel calore dei fuochi che crepitavano dentro la fucina era ancora più rilassante. Dal camino sul tetto il vapore artigliava l’aria e l’ossigeno e risaliva nel cielo, lontano dai colori che ora svettavano sulla parete che la figlia di Tacita aveva davanti. Avrebbe tanto voluto dipingere i paesaggi di Monet o i fiori di Van Gogh, con quei colori incendiati dal sole e quel turbinio di pennelli che tempestavano la tela, ma non era mai riuscita ad emularli. Spesso si ritrovava a ricavare i propri pigmenti naturali dalle bacche o le erbe che crescevano in giro, ed era quasi estasiata dalle ombre vivaci che creava con le sue sole mani. Aveva tentato più volte di rappresentare gli dei, di ritrarre la Legione o semplicemente di abbellire un muro altrimenti spento, e innumerevoli volte si era ritrovata un manipolo di semidei che si dividevano tra chi la incolpava di deturpare le strutture del Campo e chi invece elogiava i suoi tentativi di rendere onore a Giove, mostrando la sua gloria e la sua forza. Ed era per questo che nei soli quattro mesi che aveva passato al Campo, Valérie si era spesso trovava a perdersi nei colori di una parete o di un pavimento. Una volta aveva persino passato il pomeriggio a ridipingere i sassi di una parte del selciato e accostarli in modo tale che formassero il volto di Augusto, ci era voluto parecchio tempo per farlo e quell’opera aveva folgorato persino i legionari della Prima Coorte, che non avevano osato obbiettare davanti alla bellezza di quell’arte. Nessuno si era permesso di criticare un omaggio al nipote di Cesare, nonché sommo imperatore di Roma. Ovviamente la pioggia aveva dapprima sfocato e poi lavato via i pigmenti dalle pietre, ma per qualche giorno chiunque era passato di lì aveva potuto osservare con meraviglia quell’operato, e per Valérie questo era l’importante.
Il più delle volte però i dipinti di Val non esprimevano niente, o meglio, erano talmente strambi e gravidi di luce che nessuno riusciva a decifrare il messaggio che si celava dietro i pigmenti. Karim si era sempre rifiutato di credere che la ragazza desse vita a forme senza significato, ma nemmeno quel giorno riuscì a capire cos’avesse disegnato. Quella che pareva una mano di donna stringeva due dischi celesti che rilucevano di una sfumatura d’oro e intorno alla mano si aprivano tre petali color amarena, rivestiti di strani simboli che non aveva mai visto. Due singole linee gialle viaggiavano perpendicolari ad artigliarsi al fiore, come due steli immobili.
Karim non era mai stato bravo ad analizzare i quadri, ma quelli di Valérie erano –secondo il suo punto di vista- i più contorti e sensazionali che avesse mai visto.
“Vedo che non sei agli allenamenti” proruppe all’improvviso e forse l’ira che ancora provava nei confronti di Alyx fuoriuscì dalla sua voce, perché d’un tratto la giovane figlia di Tacita balzò sull’attenti, presa alla sprovvista. Karim tentò di increspare le labbra in un sorriso tirato, ma non era sicuro di esserci riuscito appieno.
Prima che potesse anche solo iniziare a muovere le braccia nel tentativo di addurre una scusa per la sua negligenza, il pretore sollevò una mano, fermandola.
“Avrai di certo sentito parlare della nuova profezia” esclamò, cercando di intercettare ogni espressione del suo viso “Ebbene, il Campo Mezzosangue ha indetto un’impresa e ho dato loro la mia parola che Nuova Roma non si sarebbe tirata indietro.”
Aspettò qualche istante prima di continuare, Val era brava ad ascoltare e Karim aveva sempre pensato che nascondesse più talenti di quanto non desse a vedere. Ne era sicuro perché se così non fosse stato, non sarebbe mai riuscita a superare le prove di Lupa.
“Ho agito in completa autonomia e Alyx si è ritenuta offesa da questo mio comportamento, dunque guiderò la spedizione io stesso e ho deciso di portare con me due legionari che ritengo possano rivelarsi utili. Uno di loro sei tu. Prima di tutto, sappi che non ti obbligherò a seguirmi; la decisione spetta a te. Se hai sentito parlare degli auspici del nostro augure, saprai certamente che la missione a cui ti sto chiedendo di partecipare sarà impervia e non sgombra di pericoli, tuttavia ti spingo a non retrocedere e dimostrarmi la lealtà che hai giurato alla Legione. Non voglio mentirti assicurandoti che la tua vita sarà al sicuro una volta varcati i confini del Campo, ma ti giuro che finché sarai al mio fianco, il mio scudo sarà il tuo scudo. Valérie Petit, recluta della Quinta Coorte, ti chiedo ora e mai più: seguirai il tuo pretore in quest’impresa?”
Karim era sempre così: formale, austero, spesso rigido. Forse era proprio per questo che molti lo identificavano come una guida. Ispirava fiducia, era solenne anche solo nel modo di camminare o di portare il mantello, ed era spesso preso d’esempio dalle reclute più giovani.
Lui e Val non avevano un rapporto stretto, ma la ragazza si era sempre sentita accettata da quel pretore e in sua presenza, nessun aveva mai osato proferire una parola contro di lei. A modo suo, gli era riconoscente e quella avrebbe potuto essere la sua occasione per tornare nel mondo reale. Non poteva farsela sfuggire.
Senza alcun indugio, Val raddrizzò la schiena. In qualsiasi altra situazione, per parlare avrebbe usufruito del taccuino che portava nella tasca della borsa a tracolla che le ricadeva sulla tunica bianca e sporca di pigmento e resina, ma con Karim Sharif i gesti valevano più di qualsiasi scritta a pennarello.
Prese un respiro profondo e alzò il braccio sinistro in avanti, la mano destra stretta a pugno sul cuore e nella bocca un Ave! che il suo pretore non avrebbe mai udito. Lo sguardo dritto e fiero, fedele come pochi e un che di orgoglioso che si affacciava ai suoi occhi, di un blu profondo e imperscrutabile. In quel momento, Valérie Petit si sentì un vero legionario, sebbene fosse sprovvista di elmo, armatura e addirittura di un’arma. E Karim seppe d’aver trovato qualcuno pronto a seguirlo.
“Bene” esclamò nel suo solito tono serio e sbrigativo, anche se la sua voce tradiva una nota di sollievo “Prepara le tue cose, all’entrata del tunnel tra non più di mezz’ora.”
La recluta annuì con entusiasmo e partì alla volta della sua baracca, mentre Karim rilassava le spalle e si voltava verso il Colosseo, dove era certo che avrebbe trovato il semidio che stava cercando. Ma nel suo caso, l’egiziano era sicuro che Jackson Langodon non si sarebbe tirato indietro.
 
 


1Sinestesia: fenomeno sensoriale che si ha quando una persona, posta di fronte a uno stimolo appartenente ad un determinato percorso sensoriale, presenta un’esperienza percettiva ricollegabile a due vie sensoriali distinte e conviventi: quella normalmente indotta dallo stimolo preso in esame e un’altra.
Esempi:
vedere il colore rosso e udire un suono flautato
leggere una lettera dell’alfabeto e ricollegarla ad un determinato colore/suono/odore
mangiare una fragola e definirla troppo triangolare (e quindi ricollegare il gusto a una forma geometrica)
ecc.
Dato che Bloom è l’Oracolo, ho supposto che i poteri profetici abbiano alterato questo suo fenomeno sensoriale, generalizzandolo. Nella realtà, gli individui che presentano sinestesia sono riconducibili a una sola delle sue forme (c’è chi collega lettera/colore, chi suono/odore e avanti così)

2Graecia capta ferum victorem cepit: letteralmente “La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore” in cui selvaggio vincitore è riferito a Roma. La frase si rifà al fatto che quando i Romani conquistarono l’Antica Grecia, rimasero così affascinati dalla loro cultura, che vollero adottarla per il proprio Impero.

 

*** ***


Vive la France! Che cosa c’entra? Niente, ma guardando i colori del titolo del capitolo mi è venuto spontaneo ù.ù

Sono tornata!
E credo che questo sia (finora) il capitolo più lungo che abbia scritto :3
Lo so, vi avevo detto che sarebbe iniziata l’avventura, ma poi le mie dita hanno cominciato a battere sulla tastiera e … e l’impresa vera e propria partirà dalla prossima volta, sorry.

Ve l’ho mai detto che da piccola avevo un’idolatria per Cesare e in generale per tutto ciò che era Roma? Già. Volevo costruire una macchina del tempo per tornare indietro e combattere i Galli al fianco dei legionari dell’Impero *^* … insomma, i Romani spaccano!
Ma non perdiamoci in chiacchiere inutili!
Negli ultimi due capitoli avevo avvertito che qualche personaggio starebbe stato fatto fuori, ma poi ho pensato: perché ucciderli tutti? Quale peggiore supplizio se non quello di essere messi da parte ù.ù?
E ora sapete perché solo alcuni parteciperanno all’impresa, in modo più specifico:
Bloom, Chloe, Francis, Clyde, Rex e Lavi per i Greci.
Karim, Valérie e Jackson per i Romani.
Chiederei scusa, ma non sono una persona che si sente facilmente in colpa .-.

Stavolta i cattivi non ci sono, ma saranno presenti nel prossimo capitolo ;) quindi non preoccupatevi, avrete di nuovo la vostra dose di cattiveria c:

Beh, io ora come ora non ho più molto altro da aggiungere, quindi vi lascio. Spero di aggiornare il prima possibile e di non farvi aspettare troppo a lungo.
Per qualsiasi domanda, basta che andate sul mio profilo e cliccate sul piccolo mondo blu, che vi porterà direttamente sul mio account di ask.

Auf Wiedersehen ù.ù
​Pathetic
   
 
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