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Autore: Elizabeth_Keats    14/05/2009    5 recensioni
"Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato." Breve ff sugli ultimi giorni di Edward da umano, la sua malattia e la vita ritrovata dopo la trasformazione in vampiro grazie a Carlisle. Recensite!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6°

As blood runs


Carlisle

Quelle erano state le ultime parole famose prima della pura e semplice azione. Avevo in testa una tabella di marcia precisa che mi ero imposto di seguire senza dar voce agli altri innumerevoli dubbi che, malgrado fossero ora più deboli e meno numerosi, continuavano a riecheggiare nella mia mente cercando di sviarmi. Ormai avevo preso la mia decisione e non dovevo in nessun modo tentennare se volevo che tutto andasse per il meglio, quindi concentrai l’attenzione sulle mie mani e sulle mie gambe. Con fredda professionalità comunicai al capo reparto il decesso della signora Masen con tanto di orario preciso e causa, mettendo la parola fine sulla sua cartella clinica. E, anche se con un lieve tremito nei pensieri che sperai non si fosse propagato alle mani, aggiunsi sulla lista dei deceduti anche Edward, scrivendo accanto al suo nome l’ora fasulla della morte: esattamente cinque minuti dopo la madre. Agli occhi degli altri i due non sarebbero stati separati che per un’infinitesimale frazione di tempo, ma io sapevo che non era così: ebbi una breve esitazione. Quello che stavo facendo era certamente illegale, ma, mi dissi, dopotutto la legge non prevedeva norme riguardanti i vampiri attuali come quelli futuri, no? Quando tornai dalla morta e dal moribondo, trovai il letto di Elizabeth vuoto: le infermiere erano state più che previdenti nello far sparire dalla vista il cadavere, di cui rimaneva soltanto una lieve impronta sul materasso e sul cuscino. Non avevo nemmeno avuto il tempo di salutarla come si deve… Senza pensare una parola di più, mi affrettai a portare Edward all’obitorio, prima che qualcun altro, facendolo al mio posto, s’accorgesse dell’inganno. Nel tragitto, procedendo spedito per i corridoi, cercai di non incontrare nessuno sguardo, per paura che potesse trapelare qualcosa attraverso esso. L’odore di chiuso misto a disinfettante dell’obitorio mi travolse in pieno insieme alla luce chiara che si rifletteva sui muri intonacati di bianco e la proverbiale atmosfera gelida e distaccata. Bastò quello e il fatto che non ci fosse nessuno nei paraggi a farmi decidere di abbandonare subito quel luogo nefando, preoccupato che potesse succhiare via le ultime tracce di vita di Edward. Lo avvolsi in una coperta e lo presi in braccio e in breve mi ritrovai  per le strade di Chicago. Ringraziai il cielo che fosse abbastanza buio da permettermi di svignarmela attraverso i vicoli, evitando i lampioni senza essere notato. Le poche persone di passaggio erano solo un gruppo di ubriachi e un paio di individui dalla faccia losca che di certo non si sarebbero interessati ai miei traffici poco cristallini.

Quella che chiamavo casa era un piccolo monolocale in un imponente palazzo in mattoni a faccia vista di recente costruzione, situato alla periferia della metropoli. Non mi ero mai preoccupato molto della mia abitazione e in molti si chiedevano come mai un dottore stimato s’accontentasse di vivere in quella specie di casermone, costruito principalmente per ospitare famiglie della classe operaia e in generale individui con basso reddito. Ma per me era un buon posto principalmente per due motivi. Innanzitutto c’era un gran via vai di gente, anche poco raccomandabile, e tra quella comitiva ben assortita in pochi avrebbero potuto notare eventuali stranezze che sarebbero potute sfuggire al mio controllo. Poi, a dir la verità, per me quella “casa” era soltanto una parte della mia facciata di normalità costruita, un pezzo del puzzle della menzogna, visto che, non avendo oltretutto bisogno di dormire, non vi trascorrevo molto tempo. Nei primi tempi, però, tra i condomini circolavano parecchie dicerie sul bel dottore di Londra. C’era chi diceva che non potevo permettermi l’affitto di qualche bell’appartamento del centro, che di certo più si addiceva a un medico, perché avevo perso tutti i miei beni nel gioco o sul fondo di una bottiglia. Alcuni sostenevano che ero venuto in America per far fortuna dopo essere uscito da una violenta faida per faccende di eredità, mentre altri ribattevano che c’era di mezzo qualche donna, magari una bella ballerina di uno dei più celebri locali di Chicago, per la quale avrei venduto l’anima al diavolo. Ma, in fin dei conti, tutti concordavano sul fatto che oltre alla mia faccia cordiale ci fosse molto di più di quanto dessi a vedere… e non a torto. Ma con il tempo l’interesse per la mia figura era andato scemando, favorito anche dalle mie prolungate assenze.

Salii le scale di corsa, sperando di non incontrare nessuno, e quando giunsi al terzo piano mi fiondai oltre la porta del mio appartamento come un ladro in fuga. Una volta dentro lasciai correre lo sguardo sull’unica stanza cercando di calmarmi. L’arredamento era semplice ed essenziale, sebbene estremamente curato ed ordinato; i colori scuri e un po’ smorti s’intonavano con le pareti color mattone e il cielo al di fuori della finestra annerito dai fumi delle industrie. Un grande ed antico crocefisso di legno appeso al muro, unico ornamento in quell’ambiente spartano, mi ricordava la mia vita passata, quando ero umano nella mia Londra seicentesca, e in particolare mio padre. Il rumore del mio respiro accelerato vibrava forte nell’aria, unico rumore oltre il ronzio ovattato del traffico proveniente dalla strada e il pianto di un neonato due piano più giù. Stasi. Senza accorgermene subito e senza staccare lo sguardo dal crocefisso, mi ritrovai a balbettare muovendo convulsamente le labbra qualcosa che sulle prime non riuscii a classificare. Solo quando riconobbi la cadenza latina mi riscoprii, dopo secoli, a pregare. Non sapevo perché, ma era come se riuscissi a scorgere attraverso la croce il pulpito e le navate in penombra della chiesa, nella quale s’innalzavano lamentevoli i canti dei salmi dei fedeli. Probabilmente stavo pregando Dio di darmi la forza di fare quello a cui mi accingevo… o semplicemente per chiedergli di donare la pace a quella sottile anima che reggevo tra le dita come brandelli di un vestito una volta stupendo. Finii di recitare tra i denti un altro paio di formule e mi decisi. Sdraiai Edward su un logoro divano, che un tempo, prima dell’avvento delle trame, doveva rappresentare un appetibile pezzo d’antiquariato, al centro della stanza. Gli sistemai il cuscino sotto la testa e la coperta attorno al corpo smagrito. Profonde occhiaia gli cerchiavano gli occhi, quasi l’avessero pestato brutalmente. Quegli  occhi, pensai, un tempo così brillanti e vivi, verde speranza proprio come quelli di Elizabeth.

«Ma che speranza ti rimane ormai?» sussurrai, ben consapevole che non poteva sentirmi.

Gli passai una mano tra i capelli color bronzo, sulla fronte madida di sudore e sulle guance incavate. Ed eccomi lì ad indugiare un’altra volta! Proprio non ci riuscivo, mi era del tutto inconcepibile sfiorare quel ragazzo se non con una carezza paterna.

«Devo farlo» dissi continuando il mio monologo senza senso. Altrimenti sarei stato costretto a riportarlo all’obitorio per lasciarcelo una volta per tutte; e sapevo che quello sarebbe stato mille volte più difficile. Ma da dove cominciare?

Socchiusi gli occhi e, attraverso la polvere che turbinava nell’aria, rividi per un attimo quel breve passaggio che portava alle fogne della città, poi la quiete apparente fu subito rotta da un tumulto improvviso, con fuoco, falci e forconi mescolati a un inseguimento sfrenato. E poi quel fuoco. Prima oscurità interrotta da grandi fuochi d’artificio e poi il falò che bruciava tranquillo ma costante, che mi mangiava ed abbrustoliva dal basso verso l’alto, dentro e fuori. La voglia di urlare, ma la frustrazione di non poterlo fare, la ricerca disperata di un qualche sollievo nel paese del dolore. E alla fine, quando anche le ultime braci avevano smesso di ardere sotto lo strato di cenere e pelle… il risveglio. E la consapevolezza. E il disgusto. Ma quelli erano venuti dopo; cosa c’era stato prima? La risposta brillava chiara nella mia mente: sangue. Dovevo graffiare e mordere, far colare quella preziosa linfa vermiglia ed inquinarla con il mio veleno. Il tutto gli avrebbe provocato dolore… Ma quanto ne avrebbe provocato a me? Sarebbe stato un po’ come offrire un superalcolico a un alcolizzato incallito riuscito miracolosamente a rimanere sobrio per molti anni. L’avrei ucciso? Mi sarei lasciato prendere dalla frenesia del sangue e l’avrei ucciso? Era un rischio che dovevo correre. Edward corrugò la fronte ed emise un flebile grugnito nel sonno e per un attimo fui sicuro che quel suono indistinto fosse una specie di incoraggiamento a farmi avanti. Mi avvicinai a lui, accostando il mio viso al suo, e sentii lontanissimo il battito del suo cuore accompagnato da ondate di calore, che mi investirono come un’inondazione. Fu lì che lo sentii. Il continuo scorrere nelle vene e nelle arterie col suo ritmo regolare, accompagnato da quel profumo invitante, di certo il più raffinato e ricercato mai esistito, che avevo evitato per troppo tempo. Un brivido di libidine mi percorse la schiena. Accostai le labbra al suo orecchio e mormorai appassionato: «Perdonami».

Di lì il passo al suo collo, all’incavo sulla clavicola dove il sangue pulsava appena sotto pelle, fu breve. Un piccolo squarcio bastò ad appannarmi la vista e far sì che non vedessi altro che il rosso scuro del sangue venoso mischiato a quello più brillante di quello arterioso. Rosso sangue sulla pelle candida di Edward e sulla coperta. Rosso sul mio camice immacolato. Rosso ad ampie chiazze sul divano. Rosso che gocciolava sul pavimento in profonde pozze vermiglie, nelle quali si riflettevano moltiplicati i miei occhi scintillanti e selvaggi. Poi l’urlo acuto e lacerante di Edward, strappato violentemente dal suo stato comatoso, che mi trafisse i timpani e minacciò di mandare in frantumi i vetri delle finestre, mentre cercavo con tutte le mie forze di trattenere i suoi arti che si dimenavano furiosamente. Ma quello non era stato che un breve interludio. Altro sangue rosso schizzò sui muri. Rosso sui mobili. Rosso sul tappeto. Rosso sul tavolino lì vicino. Una goccia rossa perfino sulle braccia del crocefisso. Altro sangue mi colava addosso come una cascata, mentre graffiavo e i miei denti laceravano ogni singolo brano di pelle che mi capitasse a tiro. Quell’aroma invitante ormai mi circondava pienamente, ma il disgusto era troppo perché riuscissi a concedermi anche solo una piccola degustazione. Rosso che tingeva il mio animo e i miei pensieri. Rosso che mi colava negli occhi e sulle labbra.

Rosso che mi imbrattava le mani giunte.

 

Edward

Dicono che quando si muore si rivede tutta la propria vita, o almeno i momenti più significativi, come in un album fotografico o in un film. E lì uno può giudicare se è stato buono o meno, se ha fatto qualcosa di utile e così via. È un po’ come lo scrittore che, una volta terminato il suo lavoro, ne rilegge la bozza.. O quando finisce un amore profondo o un’amicizia importante, quando si fa il resoconto delle esperienze belle e brutte passate insieme. Ma in quel momento scoprii che non ci si deve affidare a ciò che dice la gente. Io più che un’ordinata storyboard l’avrei paragonato alle visioni disordinate dovute ai fumi dell’alcol o all’oppio. Brevi sprazzi senza senso buttati qua e là, uniti magari a qualche scena estrapolata da un contesto del tutto differente se non pescate dal subconscio e dalla fantasia. L’ultima cosa precisa e razionale che ricordavo era l’aggravamento repentino di mia madre, il mio insensato tentativo di soccorso e quelle ultime pagine, quella specie di testamento scritto di getto prima di addormentarmi. Non sono sicuro, però, di essermi solamente addormentato; magari ero anche svenuto o caduto in coma. L’unica cosa certa era che mi sentivo così stanco come non l’ero mai stato in vita mia. E questo era stato un lungo periodo di galleggiamento in qualcosa di insolito, forse nella stessa materia di cui sono fatti i pensieri e i sogni. Navigavo in questo nulla felice e beato perché non sentivo più il dolore, né la preoccupazione, né il tempo che passava. Ero sicuro che avrei potuto rimanere in quello stato per l’eternità e oltre. Ma poi mi ero sentito strattonare, spingere e schiaffeggiare con in sottofondo una voce neutra che chiamava il mio nome attraverso la parete trasparente della bolla in cui mi trovavo. Non avevo avuto nemmeno il tempo di ribattere a quelle sollecitazioni che avevo già incontrato due nuovi amici che mi avrebbero accompagnato per molto tempo. Si chiamavano Dolore e Bruciore e senza alcuna esitazione mi strinsero in un forte abbraccio, accompagnati da una strana sensazione, come di due aghi acuminati che mi perforassero quasi furtivamente la pelle del collo. La quarantena nebulosa si era dissolta in un attimo per lasciar spazio a ferro e fiamme. Era come se mi trovassi nel bel mezzo dell’eruzione di un potente vulcano; vedevo fiamme e resti carbonizzati di cose ormai irriconoscibili ovunque volgessi lo sguardo. Potevo perfino sentire la lava ustionante scorrermi nelle vene, mentre le ossa erano diventate rocce incandescenti che minacciavano di liquefarsi da un momento all’altro. Mi misi ad urlare, ma per quanto ci provassi, per quanto dessi fiato ai miei polmoni in fiamme, non riuscivo ad udire la mia voce, quasi che qualcuno avesse cancellato il suono e non facevo altro che alimentare il fuoco che mi avvolgeva. Non riuscivo più a sentirmi le braccia e le gambe o anche solo il busto con la contraddizione che, però, il male lo avvertivo fin troppo bene. Insieme a quella terribile sensazione di prurito e fastidio dei due uncini perennemente piantati nel collo. Mi contorsi per un’eternità in quella specie di letto infuocato in attesa che le fiamme si smorzassero, visto che non ero abbastanza ottimista da sperare che si estinguessero del tutto. Il passaggio dallo stato di stasi a quello così… vivo, troppo vivo, era stato come sbattere bruscamente il muso contro il muro durante un bel sogno. Ero stato un ingenuo e mi ero illuso che le mie sofferenze fossero finalmente finite, che magari in quel paradiso di nulla avrei perfino rincontrato mia madre. Ed ecco, puff, tutto si dissolveva in un botto per mostrarmi la realtà oltre il sipario. Il tutto senza sapere, poi, se ero morto o ancora vivo. Però, a dir la verità, il sogno e l’equilibrio apparente non mi avevano mai abbandonato, ammesso che potessi definire quella cosa solamente un sogno da tanto che mi era sembrato reale.

Mi trovavo in una radura che non potrei descrivere con altro termine se non bellissima. Il prato era di quel verde tenero dell’erba appena spuntata e assumeva una sfumatura più scura ai margini della radura, là dove s’addensavano le ombre degli alberi fitti. Al centro, invece, dove ero io, batteva il sole così forte da accecarmi. Ero sdraiato a terra e gli steli delle margherite, delle campanule blu e di un’altra infinità di coloratissimi fiori di campo mi ondeggiavano davanti agli occhi sospinti dal vento. L’aria era fresca e pulita e, inspirandola a pieni polmoni, potei quasi dimenticare il bruciore proveniente ora dal petto. Ma, alzando leggermente gli occhi, mi accorsi di non essere solo. Un paio di occhi castani profondi e teneri come quelli di un cerbiatto indifeso mi fissavano attentamente da sopra un dolce sorriso divertito. Notai i lunghi capelli color cioccolato che le accarezzavano la guancia e l’incavo del collo e capii che si trattava di una ragazza. Il problema era che ero più che certo di non averla mai vista né tantomeno immaginata. Però, nonostante tutto, non provai quel senso di diffidenza ed allerta che si ha di solito davanti a uno sconosciuto. Anzi mi sentivo quasi attratto da lei, come se sapessi per certo che di lei potevo fidarmi ciecamente e che, al contrario, conoscesse tutto di me. Senza dubbio era la ragazza più bella che avessi mai visto; avrei perfino osato dire che l’amavo. Dischiusi le labbra per chiederle chi fosse, da dove venisse, quale luogo fosse mai quello e cosa ci facessimo noi, ma fui interrotto da un suon gesto improvviso. Allungò una mano candida e morbida alla sola vista e prese la mia lasciandomi senza fiato, non solo per avermi colto di sorpresa ma anche perché avvertii che in quel semplice gesto c’era qualcosa di insolito. Le sue dita intrecciate erano, in confronto alle mie, tremendamente calde, quasi che un po’ del rogo che ardeva in me fosse fluito in lei. La mia mano, invece, era come un pezzo di ghiaccio, che già iniziava a sciogliersi sotto quella stretta bollente, tanto che per poco non la ritrassi atterrito. Inoltre potei notare anche un’altra stranezza: era come se la mia pelle fosse cosparsa di tanti piccoli diamanti che rilucevano là dove batteva la luce del sole, dividendone il fascio nei colori dell’arcobaleno. Non riuscivo proprio a spiegarmelo… Ma un istante dopo mi accorsi di avere ben altro di cui preoccuparmi che quello strano gioco di luci, che probabilmente aveva ingannato l’occhio. La ragazza sconosciuta si era avvicinata paurosamente a me, tanto che per un attimo temetti che fosse sul punto… sì, di baciarmi. Invece avvicinò le labbra vellutate e rosse come i petali di una rosa al mio orecchio ed iniziò a cantilenare una strana melodia. Come tutto quello che mi circondava neanche quella specie di ninnananna riuscivo a ricollegarla a una qualsiasi cosa avessi mai incontrato nella mia breve vita. Di certo era la primissima volta che la udivo, ma bi bastò sentirla fino alla ripresa seguente per capirne il ritmo e trovarla meravigliosa: il genere di composizione di cui sarei stato più che fiero di attribuirmi la paternità. Era dolce e lenta e in breve mi fece dimenticare tutti i miei affanni, tanto che per un nanosecondo fui certo di trovarmi ancora in quel paradiso fluttuante. E poi la sua voce… oh, era a dir poco divina! Ormai ero in suo pieno potere… Ripeté quell’amabile ninnananna per una seconda volta, per poi alzarsi in piedi con movimenti lenti e misurati e senza lasciare la mia mano. Così facendo mi tirò su e mi ritrovai in piedi davanti a lei, che riprese quella melodia ormai a me nota, ora quasi trattenendo una risata davanti al mio stupore. Poi, però, riuscì a sorprendermi ancora quando, come quando mi aveva preso la mano tra le sue, si voltò di scatto ed iniziò a correre, mentre io rimanevo lì imbambolato e spiazzato a guardarla danzare leggiadra come una fatina sui fiori; sembrava quasi che si librasse sulla docile brezza senza aver bisogno di sfiorare il terreno con al punta dei piedi scalzi. E intanto la sua risata riecheggiava squillante ed argentina, finché si abbassò lentamente di volume, fino a spegnersi del tutto quando si fermò ai margini della radura. Si voltò e mi fissò ancora una volta con quei profondi occhi da cerbiatto di una tenerezza impensabile, facendomi un cenno con la mano di raggiungerla. Io obbedii neanche fossi stato sotto l’influsso di un potente incantesimo, ma non riuscii a percorrere più di qualche metro che le gambe iniziarono a dolermi violentemente, come a ricordarmi del fuoco che avevo dimenticato, fino a che ne persi del tutto la sensibilità e caddi a terra in ginocchio. Lei rise ancora e continuava a chiamarmi, mentre io provavo invano a rialzarmi. Un forte formicolio nacque in un punto impreciso sotto il ginocchio, per risalire tutte le gambe e la schiena e raggiungere le mani. Abbassai lo sguardo e notai che le dita avevano preso a tremarmi convulsamente e il terrore che ne seguì fu cancellato subito da una fitta al petto. Era come se mi avessero trapassato da parte a parte con un pugnale di ghiaccio e rimasi lì immobile quasi contorcendomi, mentre potevo chiaramente percepire il pulsare della pelle contro la lama e perfino il mio cuore agonizzante, centrato in pieno da quell’arma mortifera. Caddi a terra faccia in avanti come un soldato colpito in battaglia e per un attimo sentii tutto girarmi attorno, il cielo sostituirsi alla terra e gli alberi capovolgersi. Ora tutto il fuoco si era concentrato lì dove aveva colpito la spada, pulsando orrendamente come se dovesse esplodere da un momento all’altro. Invece, a dispetto delle mie aspettative, quell’unico focolare iniziò pian piano a ridursi fino a diventare semplicemente una docile fiammella. Ciò mi permise di alzare gli occhi sulla ragazza, che si trovava ancora ai margini della radura, anche se la sua espressione era mutata del tutto: il riso aveva abbandonato il suo volto, ora corrugato e coperto da un velo di sofferenza, che riuscivo a scorgere a stento oltre le mani che le coprivano il viso. Era la personificazione del dolore. Poi, però, guardando meglio, notai che non si trattava più della ragazza di prima; era un po’ come se si fosse appena trasformata in un angelo bellissimo e dolente. Un’aurea di luce bianca l’avvolgeva come una tunica e per un attimo credei quasi di scorgere un paio di ali piumate fissate sulle sue spalle. Aveva ancora le mani premute contro il volto, come se stesse piangendo per me, e dalla sua bocca socchiusa uscivano singhiozzi misti a lamenti. La luce bianca dava, infine, una sfumatura dorata ai suoi capelli biondi. Capelli biondi… Ma la ragazza di prima era bruna e i suoi capelli erano molto più lunghi… Eppure, a differenza di tutto il resto che compariva in quel sogno, avevo già visto quei capelli di quel colore unicamente dorato. E anche quella volta avevo creduto di avere davanti un angelo dall’espressione pietosa e triste. L’ultimo fuocherello rimasto al posto del cuore, ormai unico punto in cui potevo avvertire un dolore atroce, avvampò un’altra volta.

«…et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo».

Ora udii chiaramente la voce dell’angelo e riconobbi tra i suoi balbettii e singhiozzi la famosa preghiera del Padre Nostro: quella creatura divina stava pregando per me. Forse per la mia salvezza… Ma perché piangeva? Gli angeli sono belli e portatori di felicità, non era giusto che anche il mio angelo piangesse… per me. Poi un pensiero mi fece venire le vertigini: conoscevo quella voce…

L’ultimo rogo sopravvissuto ormai non era ridotto che a una semplice fiammella di fiammifero. Udii il mio cuore battere un colpo, sonoro e potente come quello di un tamburo, per poi tacere per sempre e lasciare nel mio petto un vuoto e un silenzio che avrei odiato per l’eternità. Se il mio cuore si era fermato… ero dunque morto?

All’improvviso la radura scomparve nel nulla così come era apparsa e mi ritrovai a precipitare in un abisso più nero della notte e senza fondo. Tuttavia l’angelo rimase, era sempre lì accanto a me, raggomitolato su se stesso e piangente, che continuava a ripetere meccanicamente quella sua preghiera in latino. Caddi. Ci fu un tonfo. La luce del mio idolo illuminò lo spazio circostante, bucando quella tela nera e pian piano mi accorsi che attorno a me c’erano cose e colori, anche se la sfumatura che sembrava prevalere era il rosso. Sbattei le palpebre un paio di volte e mi resi conto di essere sdraiato su qualcosa di morbido, probabilmente un divano, e di essere ricoperto da capo a piedi di una sostanza liquida, collosa e calda che non riconobbi. Mi sentivo tremendamente strano e più tardi scoprii che quella non era soltanto una sensazione. La prima cosa fuori dalla norma che notai era che il mio petto si alzava ed abbassava regolarmente come dovrebbe essere in un qualunque essere che respira (e questa era una buona cosa), ciò nonostante non trovavo il battito rassicurante del mio cuore sul lato sinistro del petto (e questa era una brutta cosa). Quindi ero un essere che respirava ma a cui non batteva il cuore; il dubbio rimaneva: ero vivo o morto? E questa era soltanto una delle prime stranezze che poi avrei avuto occasione di scoprire: al momento la mia attenzione era attratta da qualcos’altro.

Avevo creduto che, insieme alla radura e all’oscurità, sarebbe scomparso anche l’angelo piangente… Mi sbagliavo. Accanto a me seduto sul divano stava lo stesso angelo di prima, di cui riconobbi la singolare capigliatura dorata, anche se la luce bianca e le ali erano sparite. Aveva la stessa espressione di quello del sogno o qualunque cosa fosse, come le mani che gli coprivano il volto e la fronte corrugata. Da lui provenivano gli stessi identici gemiti che avevo udito prima. Tuttavia notai una discordanza: l’angelo del sogno non aveva i vestiti e le mani sporche di sangue… Cercai di alzarmi tirandomi su con un gomito e quel movimento lo avvisò del mio risveglio, facendolo scattare come una molla. Si tolse le mani dal viso e lo riconobbi una volta per tutte. Aveva le labbra sporche dello stesso sangue che aveva sulle mani e un po’ gli colorava anche le guance in strisce tirate bruscamente, che assomigliavano al trucco degli indiani ma che probabilmente si era procurato graffiandosi lui stesso le gote. Aveva la fronte aggrottata, la bocca formava una riga ricurva verso il basso e i lineamenti erano duri come granito: anche lui, pensai, era la personificazione del dolore e del rimorso come l’angelo del sogno. Aveva gli occhi lucidi e fui sicuro che sarebbe scoppiato in lacrime da un momento; ma io ancora non capivo, anche se pian piano iniziò a delinearsi nella mia mente, come un polveroso volume tirato fuori da una soffitta dimenticata, il mostro spietato dell’incubo. Era lo stesso. Stessa persona, stessa situazione molto sanguinosa (finalmente capii cosa fosse il liquido colloso che avevo addosso). La paura nacque spontanea nel mio animo e trattenni a stento un grido. Eppure la sua espressione non era impregnata di odio e voglia di uccidere come nel mio vecchio incubo, bensì sembrava che la compassione che lo caratterizzava fosse fuoriuscita tutta d’un botto, insieme al rimorso per qualcosa che aveva appena fatto, alla pietà, al rammarico e alla sofferenza allo stato puro.

«Carlisle…» mormorai, riconoscendo in quel relitto il mio amico dottore. «Dove sono?».

Lui non rispose, al contrario si morse le dita e socchiuse gli occhi, emettendo una specie di guaito.

«Che mi è successo?».

Quando trovò il coraggio si tornare a guardarmi negli occhi, trovai qualcosa di strano e discordante nelle sue iridi. Non erano più del colore dell’oro liquido come quando mi avevano incantato la prima volta, bensì ora, seppur sottile e quasi invisibile, erano sporche di una sfumatura più scura e rossa. Come…

Sì, proprio come il sangue.

Ta-daaaaaan! Ed ecco a voi finalmente il momento cruciale di tutta questa ff: la trasformazione del nostro caro Edward. Be', spero di averla descritta al meglio, visto che ho deciso di allontanarmi dalla versione della trasformazione di Bella della Meyer e fare qualcosa di più.... originale. Comunque non preoccupatevi, anche se il nostro Eddy è già un vampiro continuerò ancora un po' con le sue avventure.... che andranno abbastanza lontano. Sperando che questo capitolo sia all'altezza degli altri nonchè di vostro gradimento, passo ai ringraziamenti:

GilGalahad: la tua attesa è finita finalmente! grazie mille per i complimenti, anche se credo di non meritarmeli tutti... continua a leggere, mi raccomando!

pinkgirl: anche in questo chap c'è il pov di Carlisle, anche se credo che d'ora in avanti lo userò più raramente, ritornando a fissarmi di più su Edward e sugli altri personaggi che verranno... Per quanto riguarda Daddy Eddy la sto aggiornando alternativamente con questa, ritagliando il poco tempo che ho a disposizione, quindi, avendo due ff per le mani, gli aggiornamenti saranno più sporadici... ma ci saranno eh! XD

Faby hale: Oh, riecco la mia ammiratrice numero uno! I tuoi complimenti sono il mio toccasana, visto anche che ultimamente sono un po' con l'umore sotto i tacchi (il che influisce sull'ispirazione purtroppo). Mi dispiace di averti fatto piangere, anche se in un certo senso è un buon segno per me, perchè vuol dire che riesco ad arrivare al cuore delle persone, che è poi il mio obiettivo. E, no, i personaggi non li ho suggeriti io alla Meyer (sennò le chiederi i diritti), diciamo solo che sono partita da una linea generale presa dal libro per poi svilupparli secondo la mia fantasia, visto che io adoro sezionare i caratteri umani ("Nulla di ciò che è umano mi è estraneo" Terenzio docet XD). Be', per questo capitolo centrale mi aspetto una recensione bomba!!!! A presto e Grazie tante come sempre!!



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