Capitolo
6°
As
blood runs
Carlisle
Quelle
erano state le ultime parole famose prima della pura e semplice azione.
Avevo
in testa una tabella di marcia precisa che mi ero imposto di seguire
senza dar
voce agli altri innumerevoli dubbi che, malgrado fossero ora
più deboli e meno
numerosi, continuavano a riecheggiare nella mia mente cercando di
sviarmi.
Ormai avevo preso la mia decisione e non dovevo in nessun modo
tentennare se
volevo che tutto andasse per il meglio, quindi concentrai
l’attenzione sulle
mie mani e sulle mie gambe. Con fredda professionalità
comunicai al capo
reparto il decesso della signora Masen con tanto di orario preciso e
causa,
mettendo la parola fine sulla sua cartella clinica. E, anche se con un
lieve
tremito nei pensieri che sperai non si fosse propagato alle mani,
aggiunsi
sulla lista dei deceduti anche Edward, scrivendo accanto al suo nome
l’ora
fasulla della morte: esattamente cinque minuti dopo la madre. Agli
occhi degli
altri i due non sarebbero stati separati che per
un’infinitesimale frazione di
tempo, ma io sapevo che non era così: ebbi una breve
esitazione. Quello che
stavo facendo era certamente illegale, ma, mi dissi, dopotutto la legge
non
prevedeva norme riguardanti i vampiri attuali come quelli futuri, no?
Quando
tornai dalla morta e dal moribondo, trovai il letto di Elizabeth vuoto:
le
infermiere erano state più che previdenti nello far sparire
dalla vista il
cadavere, di cui rimaneva soltanto una lieve impronta sul materasso e
sul
cuscino. Non avevo nemmeno avuto il tempo di salutarla come si
deve… Senza
pensare una parola di più, mi affrettai a portare Edward
all’obitorio, prima
che qualcun altro, facendolo al mio posto, s’accorgesse
dell’inganno. Nel
tragitto, procedendo spedito per i corridoi, cercai di non incontrare
nessuno
sguardo, per paura che potesse trapelare qualcosa attraverso esso.
L’odore di
chiuso misto a disinfettante dell’obitorio mi travolse in
pieno insieme alla
luce chiara che si rifletteva sui muri intonacati di bianco e la
proverbiale
atmosfera gelida e distaccata. Bastò quello e il fatto che
non ci fosse nessuno
nei paraggi a farmi decidere di abbandonare subito quel luogo nefando,
preoccupato che potesse succhiare via le ultime tracce di vita di
Edward. Lo
avvolsi in una coperta e lo presi in braccio e in breve mi ritrovai per le strade di Chicago.
Ringraziai il cielo
che fosse abbastanza buio da permettermi di svignarmela attraverso i
vicoli,
evitando i lampioni senza essere notato. Le poche persone di passaggio
erano
solo un gruppo di ubriachi e un paio di individui dalla faccia losca
che di
certo non si sarebbero interessati ai miei traffici poco cristallini.
Quella
che chiamavo casa era un piccolo monolocale in un imponente palazzo in
mattoni
a faccia vista di recente costruzione, situato alla periferia della
metropoli.
Non mi ero mai preoccupato molto della mia abitazione e in molti si
chiedevano
come mai un dottore stimato s’accontentasse di vivere in
quella specie di
casermone, costruito principalmente per ospitare famiglie della classe
operaia
e in generale individui con basso reddito. Ma per me era un buon posto
principalmente per due motivi. Innanzitutto c’era un gran via
vai di gente,
anche poco raccomandabile, e tra quella comitiva ben assortita in pochi
avrebbero potuto notare eventuali stranezze che sarebbero potute
sfuggire al
mio controllo. Poi, a dir la verità, per me quella
“casa” era soltanto una
parte della mia facciata di normalità costruita, un pezzo
del puzzle della
menzogna, visto che, non avendo oltretutto bisogno di dormire, non vi
trascorrevo molto tempo. Nei primi tempi, però, tra i
condomini circolavano
parecchie dicerie sul bel dottore di Londra. C’era chi diceva
che non potevo
permettermi l’affitto di qualche bell’appartamento
del centro, che di certo più
si addiceva a un medico, perché avevo perso tutti i miei
beni nel gioco o sul
fondo di una bottiglia. Alcuni sostenevano che ero venuto in America
per far
fortuna dopo essere uscito da una violenta faida per faccende di
eredità,
mentre altri ribattevano che c’era di mezzo qualche donna,
magari una bella
ballerina di uno dei più celebri locali di Chicago, per la
quale avrei venduto
l’anima al diavolo. Ma, in fin dei conti, tutti concordavano
sul fatto che
oltre alla mia faccia cordiale ci fosse molto di più di
quanto dessi a vedere…
e non a torto. Ma con il tempo l’interesse per la mia figura
era andato
scemando, favorito anche dalle mie prolungate assenze.
Salii
le scale di corsa, sperando di non incontrare nessuno, e quando giunsi
al terzo
piano mi fiondai oltre la porta del mio appartamento come un ladro in
fuga. Una
volta dentro lasciai correre lo sguardo sull’unica stanza
cercando di calmarmi.
L’arredamento era semplice ed essenziale, sebbene
estremamente curato ed
ordinato; i colori scuri e un po’ smorti
s’intonavano con le pareti color
mattone e il cielo al di fuori della finestra annerito dai fumi delle
industrie. Un grande ed antico crocefisso di legno appeso al muro,
unico
ornamento in quell’ambiente spartano, mi ricordava la mia
vita passata, quando
ero umano nella mia Londra seicentesca, e in particolare mio padre. Il
rumore
del mio respiro accelerato vibrava forte nell’aria, unico
rumore oltre il
ronzio ovattato del traffico proveniente dalla strada e il pianto di un
neonato
due piano più giù. Stasi. Senza accorgermene
subito e senza staccare lo sguardo
dal crocefisso, mi ritrovai a balbettare muovendo convulsamente le
labbra
qualcosa che sulle prime non riuscii a classificare. Solo quando
riconobbi la
cadenza latina mi riscoprii, dopo secoli, a pregare. Non sapevo
perché, ma era
come se riuscissi a scorgere attraverso la croce il pulpito e le navate
in
penombra della chiesa, nella quale s’innalzavano lamentevoli
i canti dei salmi
dei fedeli. Probabilmente stavo pregando Dio di darmi la forza di fare
quello a
cui mi accingevo… o semplicemente per chiedergli di donare
la pace a quella
sottile anima che reggevo tra le dita come brandelli di un vestito una
volta
stupendo. Finii di recitare tra i denti un altro paio di formule e mi
decisi.
Sdraiai Edward su un logoro divano, che un tempo, prima
dell’avvento delle
trame, doveva rappresentare un appetibile pezzo
d’antiquariato, al centro della
stanza. Gli sistemai il cuscino sotto la testa e la coperta attorno al
corpo
smagrito. Profonde occhiaia gli cerchiavano gli occhi, quasi
l’avessero pestato
brutalmente. Quegli occhi,
pensai, un
tempo così brillanti e vivi, verde speranza proprio come
quelli di Elizabeth.
«Ma
che speranza ti rimane ormai?» sussurrai, ben consapevole che
non poteva
sentirmi.
Gli
passai una mano tra i capelli color bronzo, sulla fronte madida di
sudore e
sulle guance incavate. Ed eccomi lì ad indugiare
un’altra volta! Proprio non ci
riuscivo, mi era del tutto inconcepibile sfiorare quel ragazzo se non
con una
carezza paterna.
«Devo farlo» dissi continuando
il mio
monologo senza senso. Altrimenti sarei stato costretto a riportarlo
all’obitorio per lasciarcelo una volta per tutte; e sapevo
che quello sarebbe
stato mille volte più difficile. Ma da dove cominciare?
Socchiusi
gli occhi e, attraverso la polvere che turbinava nell’aria,
rividi per un
attimo quel breve passaggio che portava alle fogne della
città, poi la quiete
apparente fu subito rotta da un tumulto improvviso, con fuoco, falci e
forconi
mescolati a un inseguimento sfrenato. E poi quel
fuoco. Prima oscurità interrotta da grandi fuochi
d’artificio e poi il falò che
bruciava tranquillo ma costante, che mi mangiava ed abbrustoliva dal
basso
verso l’alto, dentro e fuori. La voglia di urlare, ma la
frustrazione di non
poterlo fare, la ricerca disperata di un qualche sollievo nel paese del
dolore.
E alla fine, quando anche le ultime braci avevano smesso di ardere
sotto lo
strato di cenere e pelle… il
risveglio.
E la consapevolezza. E il disgusto. Ma quelli erano venuti dopo; cosa
c’era
stato prima? La risposta brillava chiara nella mia mente: sangue.
Dovevo
graffiare e mordere, far colare quella preziosa linfa vermiglia ed
inquinarla
con il mio veleno. Il tutto gli avrebbe provocato dolore… Ma
quanto ne avrebbe
provocato a me? Sarebbe stato un po’ come offrire un
superalcolico a un alcolizzato
incallito riuscito miracolosamente a rimanere sobrio per molti anni.
L’avrei
ucciso? Mi sarei lasciato prendere dalla frenesia del sangue e
l’avrei ucciso?
Era un rischio che dovevo correre. Edward corrugò la fronte
ed emise un flebile
grugnito nel sonno e per un attimo fui sicuro che quel suono indistinto
fosse
una specie di incoraggiamento a farmi avanti. Mi avvicinai a lui,
accostando il
mio viso al suo, e sentii lontanissimo il battito del suo cuore
accompagnato da
ondate di calore, che mi investirono come un’inondazione. Fu
lì che lo sentii.
Il continuo scorrere nelle vene e nelle arterie col suo ritmo regolare,
accompagnato da quel profumo invitante, di certo il più
raffinato e ricercato
mai esistito, che avevo evitato per troppo tempo. Un brivido di
libidine mi
percorse la schiena. Accostai le labbra al suo orecchio e mormorai
appassionato: «Perdonami».
Di
lì il passo al suo collo, all’incavo sulla
clavicola dove il sangue pulsava
appena sotto pelle, fu breve. Un piccolo squarcio bastò ad
appannarmi la vista
e far sì che non vedessi altro che il rosso scuro del sangue
venoso mischiato a
quello più brillante di quello arterioso. Rosso sangue sulla
pelle candida di
Edward e sulla coperta. Rosso sul mio camice immacolato. Rosso ad ampie
chiazze
sul divano. Rosso che gocciolava sul pavimento in profonde pozze
vermiglie,
nelle quali si riflettevano moltiplicati i miei occhi scintillanti e
selvaggi.
Poi l’urlo acuto e lacerante di Edward, strappato
violentemente dal suo stato
comatoso, che mi trafisse i timpani e minacciò di mandare in
frantumi i vetri
delle finestre, mentre cercavo con tutte le mie forze di trattenere i
suoi arti
che si dimenavano furiosamente. Ma quello non era stato che un breve
interludio. Altro sangue rosso schizzò sui muri. Rosso sui
mobili. Rosso sul
tappeto. Rosso sul tavolino lì vicino. Una goccia rossa
perfino sulle braccia
del crocefisso. Altro sangue mi colava addosso come una cascata, mentre
graffiavo e i miei denti laceravano ogni singolo brano di pelle che mi
capitasse
a tiro. Quell’aroma invitante ormai mi circondava pienamente,
ma il disgusto
era troppo perché riuscissi a concedermi anche solo una
piccola degustazione.
Rosso che tingeva il mio animo e i miei pensieri. Rosso che mi colava
negli
occhi e sulle labbra.
Rosso
che mi imbrattava le mani giunte.
Edward
Dicono
che quando si muore si rivede tutta la propria vita, o almeno i momenti
più
significativi, come in un album fotografico o in un film. E
lì uno può
giudicare se è stato buono o meno, se ha fatto qualcosa di
utile e così via. È
un po’ come lo scrittore che, una volta terminato il suo
lavoro, ne rilegge la
bozza.. O quando finisce un amore profondo o un’amicizia
importante, quando si
fa il resoconto delle esperienze belle e brutte passate insieme. Ma in
quel
momento scoprii che non ci si deve affidare a ciò che dice
la gente. Io più che
un’ordinata storyboard l’avrei paragonato alle
visioni disordinate dovute ai
fumi dell’alcol o all’oppio. Brevi sprazzi senza
senso buttati qua e là, uniti
magari a qualche scena estrapolata da un contesto del tutto differente
se non
pescate dal subconscio e dalla fantasia. L’ultima cosa
precisa e razionale che
ricordavo era l’aggravamento repentino di mia madre, il mio
insensato tentativo
di soccorso e quelle ultime pagine, quella specie di testamento scritto
di
getto prima di addormentarmi. Non sono sicuro, però, di
essermi solamente
addormentato; magari ero anche svenuto o caduto in coma.
L’unica cosa certa era
che mi sentivo così stanco come non l’ero mai
stato in vita mia. E questo era
stato un lungo periodo di galleggiamento in qualcosa di insolito, forse
nella
stessa materia di cui sono fatti i pensieri e i sogni. Navigavo in
questo nulla
felice e beato perché non sentivo più il dolore,
né la preoccupazione, né il
tempo che passava. Ero sicuro che avrei potuto rimanere in quello stato
per
l’eternità e oltre. Ma poi mi ero sentito
strattonare, spingere e
schiaffeggiare con in sottofondo una voce neutra che chiamava il mio
nome
attraverso la parete trasparente della bolla in cui mi trovavo. Non
avevo avuto
nemmeno il tempo di ribattere a quelle sollecitazioni che avevo
già incontrato
due nuovi amici che mi avrebbero accompagnato per molto tempo. Si
chiamavano
Dolore e Bruciore e senza alcuna esitazione mi strinsero in un forte
abbraccio,
accompagnati da una strana sensazione, come di due aghi acuminati che
mi
perforassero quasi furtivamente la pelle del collo. La quarantena
nebulosa si
era dissolta in un attimo per lasciar spazio a ferro e fiamme. Era come
se mi
trovassi nel bel mezzo dell’eruzione di un potente vulcano;
vedevo fiamme e
resti carbonizzati di cose ormai irriconoscibili ovunque volgessi lo
sguardo.
Potevo perfino sentire la lava ustionante scorrermi nelle vene, mentre
le ossa
erano diventate rocce incandescenti che minacciavano di liquefarsi da
un
momento all’altro. Mi misi ad urlare, ma per quanto ci
provassi, per quanto
dessi fiato ai miei polmoni in fiamme, non riuscivo ad udire la mia
voce, quasi
che qualcuno avesse cancellato il suono e non facevo altro che
alimentare il
fuoco che mi avvolgeva. Non riuscivo più a sentirmi le
braccia e le gambe o
anche solo il busto con la contraddizione che, però, il male
lo avvertivo fin
troppo bene. Insieme a quella terribile sensazione di prurito e
fastidio dei
due uncini perennemente piantati nel collo. Mi contorsi per
un’eternità in
quella specie di letto infuocato in attesa che le fiamme si
smorzassero, visto
che non ero abbastanza ottimista da sperare che si estinguessero del
tutto. Il
passaggio dallo stato di stasi a quello così…
vivo, troppo vivo, era stato come
sbattere bruscamente il muso contro il muro durante un bel sogno. Ero
stato un
ingenuo e mi ero illuso che le mie sofferenze fossero finalmente
finite, che
magari in quel paradiso di nulla avrei perfino rincontrato mia madre.
Ed ecco, puff, tutto si dissolveva
in un botto
per mostrarmi la realtà oltre il sipario. Il tutto senza
sapere, poi, se ero
morto o ancora vivo. Però, a dir la verità, il
sogno e l’equilibrio apparente
non mi avevano mai abbandonato, ammesso che potessi definire quella
cosa
solamente un sogno da tanto che mi era sembrato reale.
Mi
trovavo in una radura che non potrei descrivere con altro termine se
non
bellissima. Il prato era di quel verde tenero dell’erba
appena spuntata e
assumeva una sfumatura più scura ai margini della radura,
là dove s’addensavano
le ombre degli alberi fitti. Al centro, invece, dove ero io, batteva il
sole
così forte da accecarmi. Ero sdraiato a terra e gli steli
delle margherite,
delle campanule blu e di un’altra infinità di
coloratissimi fiori di campo mi
ondeggiavano davanti agli occhi sospinti dal vento. L’aria
era fresca e pulita
e, inspirandola a pieni polmoni, potei quasi dimenticare il bruciore
proveniente ora dal petto. Ma, alzando leggermente gli occhi, mi
accorsi di non
essere solo. Un paio di occhi castani profondi e teneri come quelli di
un
cerbiatto indifeso mi fissavano attentamente da sopra un dolce sorriso
divertito. Notai i lunghi capelli color cioccolato che le accarezzavano
la
guancia e l’incavo del collo e capii che si trattava di una
ragazza. Il
problema era che ero più che certo di non averla mai vista
né tantomeno
immaginata. Però, nonostante tutto, non provai quel senso di
diffidenza ed
allerta che si ha di solito davanti a uno sconosciuto. Anzi mi sentivo
quasi
attratto da lei, come se sapessi per certo che di lei potevo fidarmi
ciecamente
e che, al contrario, conoscesse tutto di me. Senza dubbio era la
ragazza più
bella che avessi mai visto; avrei perfino osato dire che
l’amavo. Dischiusi le
labbra per chiederle chi fosse, da dove venisse, quale luogo fosse mai
quello e
cosa ci facessimo noi, ma fui interrotto da un suon gesto improvviso.
Allungò
una mano candida e morbida alla sola vista e prese la mia lasciandomi
senza
fiato, non solo per avermi colto di sorpresa ma anche perché
avvertii che in
quel semplice gesto c’era qualcosa di insolito. Le sue dita
intrecciate erano,
in confronto alle mie, tremendamente calde, quasi che un po’
del rogo che
ardeva in me fosse fluito in lei. La mia mano, invece, era come un
pezzo di
ghiaccio, che già iniziava a sciogliersi sotto quella
stretta bollente, tanto
che per poco non la ritrassi atterrito. Inoltre potei notare anche
un’altra
stranezza: era come se la mia pelle fosse cosparsa di tanti piccoli
diamanti che
rilucevano là dove batteva la luce del sole, dividendone il
fascio nei colori
dell’arcobaleno. Non riuscivo proprio a
spiegarmelo… Ma un istante dopo mi
accorsi di avere ben altro di cui preoccuparmi che quello strano gioco
di luci,
che probabilmente aveva ingannato l’occhio. La ragazza
sconosciuta si era
avvicinata paurosamente a me, tanto che per un attimo temetti che fosse
sul
punto… sì, di baciarmi. Invece
avvicinò le labbra vellutate e rosse come i
petali di una rosa al mio orecchio ed iniziò a cantilenare
una strana melodia. Come
tutto quello che mi circondava neanche quella specie di ninnananna
riuscivo a ricollegarla
a una qualsiasi cosa avessi mai incontrato nella mia breve vita. Di
certo era
la primissima volta che la udivo, ma bi bastò sentirla fino
alla ripresa
seguente per capirne il ritmo e trovarla meravigliosa: il genere di
composizione
di cui sarei stato più che fiero di attribuirmi la
paternità. Era dolce e lenta
e in breve mi fece dimenticare tutti i miei affanni, tanto che per un
nanosecondo fui certo di trovarmi ancora in quel paradiso fluttuante. E
poi la
sua voce… oh, era a dir poco divina! Ormai ero in suo pieno
potere… Ripeté
quell’amabile ninnananna per una seconda volta, per poi
alzarsi in piedi con
movimenti lenti e misurati e senza lasciare la mia mano.
Così facendo mi tirò
su e mi ritrovai in piedi davanti a lei, che riprese quella melodia
ormai a me
nota, ora quasi trattenendo una risata davanti al mio stupore. Poi,
però,
riuscì a sorprendermi ancora quando, come quando mi aveva
preso la mano tra le
sue, si voltò di scatto ed iniziò a correre,
mentre io rimanevo lì imbambolato e
spiazzato a guardarla danzare leggiadra come una fatina sui fiori;
sembrava
quasi che si librasse sulla docile brezza senza aver bisogno di
sfiorare il
terreno con al punta dei piedi scalzi. E intanto la sua risata
riecheggiava squillante
ed argentina, finché si abbassò lentamente di
volume, fino a spegnersi del
tutto quando si fermò ai margini della radura. Si
voltò e mi fissò ancora una
volta con quei profondi occhi da cerbiatto di una tenerezza
impensabile,
facendomi un cenno con la mano di raggiungerla. Io obbedii neanche
fossi stato sotto
l’influsso di un potente incantesimo, ma non riuscii a
percorrere più di
qualche metro che le gambe iniziarono a dolermi violentemente, come a
ricordarmi del fuoco che avevo dimenticato, fino a che ne persi del
tutto la
sensibilità e caddi a terra in ginocchio. Lei rise ancora e
continuava a
chiamarmi, mentre io provavo invano a rialzarmi. Un forte formicolio
nacque in
un punto impreciso sotto il ginocchio, per risalire tutte le gambe e la
schiena
e raggiungere le mani. Abbassai lo sguardo e notai che le dita avevano
preso a
tremarmi convulsamente e il terrore che ne seguì fu
cancellato subito da una
fitta al petto. Era come se mi avessero trapassato da parte a parte con
un
pugnale di ghiaccio e rimasi lì immobile quasi
contorcendomi, mentre potevo
chiaramente percepire il pulsare della pelle contro la lama e perfino
il mio
cuore agonizzante, centrato in pieno da quell’arma mortifera.
Caddi a terra
faccia in avanti come un soldato colpito in battaglia e per un attimo
sentii
tutto girarmi attorno, il cielo sostituirsi alla terra e gli alberi
capovolgersi. Ora tutto il fuoco si era concentrato lì dove
aveva colpito la
spada, pulsando orrendamente come se dovesse esplodere da un momento
all’altro.
Invece, a dispetto delle mie aspettative, quell’unico
focolare iniziò pian
piano a ridursi fino a diventare semplicemente una docile fiammella.
Ciò mi
permise di alzare gli occhi sulla ragazza, che si trovava ancora ai
margini
della radura, anche se la sua espressione era mutata del tutto: il riso
aveva
abbandonato il suo volto, ora corrugato e coperto da un velo di
sofferenza, che
riuscivo a scorgere a stento oltre le mani che le coprivano il viso.
Era la
personificazione del dolore. Poi, però, guardando meglio,
notai che non si
trattava più della ragazza di prima; era un po’
come se si fosse appena
trasformata in un angelo bellissimo e dolente. Un’aurea di
luce bianca l’avvolgeva
come una tunica e per un attimo credei quasi di scorgere un paio di ali
piumate
fissate sulle sue spalle. Aveva ancora le mani premute contro il volto,
come se
stesse piangendo per me, e dalla sua bocca socchiusa uscivano
singhiozzi misti
a lamenti. La luce bianca dava, infine, una sfumatura dorata ai suoi
capelli
biondi. Capelli biondi… Ma la ragazza di prima era bruna e i
suoi capelli erano
molto più lunghi… Eppure, a differenza di tutto
il resto che compariva in quel
sogno, avevo già visto quei capelli di quel colore
unicamente dorato. E anche
quella volta avevo creduto di avere davanti un angelo
dall’espressione pietosa
e triste. L’ultimo fuocherello rimasto al posto del cuore,
ormai unico punto in
cui potevo avvertire un dolore atroce, avvampò
un’altra volta.
«…et ne nos inducas in tentationem, sed libera
nos a malo».
Ora
udii chiaramente la voce dell’angelo e riconobbi tra i suoi
balbettii e
singhiozzi la famosa preghiera del Padre Nostro: quella creatura divina
stava
pregando per me. Forse per la mia salvezza… Ma
perché piangeva? Gli angeli sono
belli e portatori di felicità, non era giusto che anche il
mio angelo piangesse…
per me. Poi un pensiero mi fece venire le vertigini: conoscevo quella
voce…
L’ultimo
rogo sopravvissuto ormai non era ridotto che a una semplice fiammella
di
fiammifero. Udii il mio cuore battere un colpo, sonoro e potente come
quello di
un tamburo, per poi tacere per sempre e lasciare nel mio petto un vuoto
e un
silenzio che avrei odiato per l’eternità. Se il
mio cuore si era fermato… ero
dunque morto?
All’improvviso
la radura scomparve nel nulla così come era apparsa e mi
ritrovai a precipitare
in un abisso più nero della notte e senza fondo. Tuttavia
l’angelo rimase, era
sempre lì accanto a me, raggomitolato su se stesso e
piangente, che continuava
a ripetere meccanicamente quella sua preghiera in latino. Caddi. Ci fu
un
tonfo. La luce del mio idolo illuminò lo spazio circostante,
bucando quella
tela nera e pian piano mi accorsi che attorno a me c’erano
cose e colori, anche
se la sfumatura che sembrava prevalere era il rosso. Sbattei le
palpebre un
paio di volte e mi resi conto di essere sdraiato su qualcosa di
morbido,
probabilmente un divano, e di essere ricoperto da capo a piedi di una
sostanza
liquida, collosa e calda che non riconobbi. Mi sentivo tremendamente
strano e
più tardi scoprii che quella non era soltanto una
sensazione. La prima cosa
fuori dalla norma che notai era che il mio petto si alzava ed abbassava
regolarmente come dovrebbe essere in un qualunque essere che respira (e
questa
era una buona cosa), ciò nonostante non trovavo il battito
rassicurante del mio
cuore sul lato sinistro del petto (e questa era una brutta cosa).
Quindi ero un
essere che respirava ma a cui non batteva il cuore; il dubbio rimaneva:
ero
vivo o morto? E questa era soltanto una delle prime stranezze che poi
avrei
avuto occasione di scoprire: al momento la mia attenzione era attratta
da
qualcos’altro.
Avevo
creduto che, insieme alla radura e all’oscurità,
sarebbe scomparso anche l’angelo
piangente… Mi sbagliavo. Accanto a me seduto sul divano
stava lo stesso angelo
di prima, di cui riconobbi la singolare capigliatura dorata, anche se
la luce bianca
e le ali erano sparite. Aveva la stessa espressione di quello del sogno
o
qualunque cosa fosse, come le mani che gli coprivano il volto e la
fronte
corrugata. Da lui provenivano gli stessi identici gemiti che avevo
udito prima.
Tuttavia notai una discordanza: l’angelo del sogno non aveva
i vestiti e le
mani sporche di sangue… Cercai di alzarmi tirandomi su con
un gomito e quel
movimento lo avvisò del mio risveglio, facendolo scattare
come una molla. Si tolse
le mani dal viso e lo riconobbi una volta per tutte. Aveva le labbra
sporche
dello stesso sangue che aveva sulle mani e un po’ gli
colorava anche le guance
in strisce tirate bruscamente, che assomigliavano al trucco degli
indiani ma
che probabilmente si era procurato graffiandosi lui stesso le gote.
Aveva la
fronte aggrottata, la bocca formava una riga ricurva verso il basso e i
lineamenti erano duri come granito: anche lui, pensai, era la
personificazione del
dolore e del rimorso come l’angelo del sogno. Aveva gli occhi
lucidi e fui
sicuro che sarebbe scoppiato in lacrime da un momento; ma io ancora non
capivo,
anche se pian piano iniziò a delinearsi nella mia mente,
come un polveroso
volume tirato fuori da una soffitta dimenticata, il mostro spietato
dell’incubo.
Era lo stesso. Stessa persona, stessa situazione molto sanguinosa
(finalmente
capii cosa fosse il liquido colloso che avevo addosso). La paura nacque
spontanea nel mio animo e trattenni a stento un grido. Eppure la sua
espressione non era impregnata di odio e voglia di uccidere come nel
mio
vecchio incubo, bensì sembrava che la compassione che lo
caratterizzava fosse
fuoriuscita tutta d’un botto, insieme al rimorso per qualcosa
che aveva appena
fatto, alla pietà, al rammarico e alla sofferenza allo stato
puro.
«Carlisle…»
mormorai, riconoscendo in quel relitto il mio amico dottore.
«Dove sono?».
Lui
non rispose, al contrario si morse le dita e socchiuse gli occhi,
emettendo una
specie di guaito.
«Che
mi è successo?».
Quando
trovò il coraggio si tornare a guardarmi negli occhi, trovai
qualcosa di strano
e discordante nelle sue iridi. Non erano più del colore
dell’oro liquido come
quando mi avevano incantato la prima volta, bensì ora,
seppur sottile e quasi
invisibile, erano sporche di una sfumatura più scura e
rossa. Come…
Sì, proprio come il sangue.
Ta-daaaaaan! Ed ecco a voi finalmente il momento cruciale di tutta questa ff: la trasformazione del nostro caro Edward. Be', spero di averla descritta al meglio, visto che ho deciso di allontanarmi dalla versione della trasformazione di Bella della Meyer e fare qualcosa di più.... originale. Comunque non preoccupatevi, anche se il nostro Eddy è già un vampiro continuerò ancora un po' con le sue avventure.... che andranno abbastanza lontano. Sperando che questo capitolo sia all'altezza degli altri nonchè di vostro gradimento, passo ai ringraziamenti:
GilGalahad: la tua attesa è finita finalmente! grazie mille per i complimenti, anche se credo di non meritarmeli tutti... continua a leggere, mi raccomando!
pinkgirl: anche in questo chap c'è il pov di Carlisle, anche se credo che d'ora in avanti lo userò più raramente, ritornando a fissarmi di più su Edward e sugli altri personaggi che verranno... Per quanto riguarda Daddy Eddy la sto aggiornando alternativamente con questa, ritagliando il poco tempo che ho a disposizione, quindi, avendo due ff per le mani, gli aggiornamenti saranno più sporadici... ma ci saranno eh! XD
Faby hale: Oh, riecco la mia ammiratrice numero uno! I tuoi complimenti sono il mio toccasana, visto anche che ultimamente sono un po' con l'umore sotto i tacchi (il che influisce sull'ispirazione purtroppo). Mi dispiace di averti fatto piangere, anche se in un certo senso è un buon segno per me, perchè vuol dire che riesco ad arrivare al cuore delle persone, che è poi il mio obiettivo. E, no, i personaggi non li ho suggeriti io alla Meyer (sennò le chiederi i diritti), diciamo solo che sono partita da una linea generale presa dal libro per poi svilupparli secondo la mia fantasia, visto che io adoro sezionare i caratteri umani ("Nulla di ciò che è umano mi è estraneo" Terenzio docet XD). Be', per questo capitolo centrale mi aspetto una recensione bomba!!!! A presto e Grazie tante come sempre!!
Inutile che vi dica RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEE!