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Autore: Antokia    11/11/2016    4 recensioni
«Qualcuno ha mai fatto qualcosa per te? Persino Mustang, probabilmente ti ha aiutato e ti sta accanto solo perché una tua mano gli è utile.» A quelle parole Riza cede. Si alza in piedi, cercando di aggredire quella voce. È inutile. «No. No. No. Sta zitto!!!» Riesce a urlare. Chiude gli occhi. Torna a respirare.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Warmness on the soul
capitolo quarto

 




4 Gennaio 1875

Il muretto su cui si sedette Berthold era gelido, ma lui non ci fece molto caso. Amava trascorrere i pomeriggi all’aperto, nel giardino di casa sua, nonostante le temperature rigide. L’aria fredda gli pizzicava le guance e il naso cominciò ad assumere un colore rossastro. Sua madre lo rimproverava sempre quando rimaneva fuori troppo a lungo. La condizione che la donna gli imponeva per non rientrare a casa era quella di imbottirsi come un fagotto, con tanto di sciarpa e cappello. Questo perché il giovane era di salute cagionevole. Odiava ammalarsi, e odiava ancora di più dover rimanere a letto per giorni e giorni, quindi, a malincuore, conveniva con la madre.

Stava nevicando: un evento che non si verificava spesso, nella zona Est di Amestris. Berthold lo considerò un motivo in più per godersi quel momento. Si sedette a gambe incrociate sul suo adorato muretto e, come era solito fare, ne approfittò per mettere in pratica i suoi studi sull’alchimia. Non aveva mai provato a trasmutare la neve. Disegnò velocemente un cerchio alchemico. Unì le mani e si concentrò.
 La concentrazione venne meno, non appena si accorse di un rumore di passi alle sue spalle. Era già pronto a infuriarsi contro chiunque volesse importunarlo.

«Stai pregando?» Il suono della voce di Zachary gli suggerì che, da quel momento, non avrebbe più concluso nulla. Addio esercizi. Da quando un giorno, Berthold si lasciò convincere a farsi accompagnare a casa da lui, se lo ritrovava all’improvviso tra i piedi. Si girò a guardarlo, mettendosi a cavalcioni sul muretto. Il ragazzino era ancora più buffo del solito: si era coperto praticamente tutto il volto con la sciarpa e si stringeva le braccia attorno al petto, nel vano tentativo di scaldarsi. Magro com’era, faceva ridere vederlo così gonfio di vestiti e soprabito.

«Non dovresti presentarti qui quando ti pare, solo perché adesso sai dove abito, Zach.»

«Mi stavo annoiando. Ed ero solo. Chiunque preferisce un po’ di compagnia rispetto alla solitudine. Non trovi?» Rispose Zachary, sedendosi accanto all’amico. Tirò su col naso e gli sorrise.

«Non è un problema che ti poni, se hai altro a cui pensare.» Fece Berthold, poggiando il mento sul palmo di una mano, mentre con l’altra tracciava immaginariamente dei simboli sulla pietra fredda. Aveva sperimentato qualsiasi metodo utile per cacciarlo via. Ogni tentativo si era rivelato un fallimento, e poco a poco si stava abituando all’idea di averlo attorno, anche se avere un amico non era di certo un evento che Berthold si sarebbe aspettato.  

«Mh. E posso sapere a che pensi?»

«Guarda qui.» Gli disse il giovane alchimista. Riprendendo ciò che aveva interrotto poco prima. Delle scintille azzurre schizzarono da terra. Una massa di neve si levò dal terreno, modellandosi in aria per assumere una forma tondeggiante. Poi la neve si trasformò in acqua, ricadendo a terra.

«Wow, sai usare l’alchimia!» Esclamò Zachary, felicissimo della scoperta. «Potevi dirmelo prima, amico.» Si alzò in piedi con un saltello. Guardò l’altro con un sorrisetto di chi la sa lunga. Berthold si meravigliò della reazione del ragazzino: il suo stupore era del tutto differente da quello che si immaginava. Zach prese un po’ di neve e l’appallottolò con le mani, posandola poi sul muro, accanto all’amico.

«Sta a vedere.» Disse infine e schioccò le dita. Attorno alla palla di neve apparvero delle fiamme rosso acceso, che in pochi secondi la fecero sciogliere. Berthold non poté credere ai suoi occhi. Mai aveva visto una cosa simile. Era alchimia, senza dubbio, ma quel fuoco era qualcosa di straordinario. Il ragazzo, oltretutto, era riuscito a trasmutare senza l’utilizzo del cerchio alchemico.

«C-come ci sei riuscito?»

«Vedi questo simbolo ?» Gli disse il giovane, mostrandogli il dorso della mano. C’era un piccolo tatuaggio, a cui l’altro non aveva mai fatto caso, un minuscolo cerchio alchemico con dei simboli particolari. Ecco dov’era. Berthold sentì la necessità di saperne di più.
 
 

A Riza piacevano i viaggi in treno. Adorava lasciarsi cullare dai movimenti del vagone, osservare i paesaggi al di fuori del finestrino, che cambiavano ad una velocità incredibile. Era molto rilassante. Il tutto condito dal ritmo regolare delle rotaie che sfregavano sui binari e lo sbuffo del fumaiolo, che di tanto in tanto coglieva Riza di sorpresa, destandola dai suoi pensieri.

Nonostante quella piacevole parentesi, i suoi demoni non l’abbandonavano. Aveva deciso di tornare nel posto che un tempo chiamava casa e che adesso invece non era nulla, se non un agglomerato di ricordi dolorosi. Non era affatto felice di dover mettere di nuovo piede lì, tanto più che si era ripromessa di non farlo. Il suo passato non era una cosa esattamente gradevole da rivivere. Non che fosse tutto da buttare, certo, c’erano stati anche bei momenti che non avrebbe mai dimenticato.

Si era convinta a tornare, ad ogni modo, perché pensava che se c’era una soluzione per capire cosa le stesse succedendo, quella era proprio recarsi nel luogo designato dalla persona del sogno. Gli elementi a favore di quella ipotesi erano schiaccianti. Riza solitamente non credeva in quel genere di cose. Sapeva distinguere nettamente la linea che separava l’onirico dal reale, ma non era talmente stupida da negare l’evidenza: la linea di separazione, nel suo caso, stava venendo meno. Le erano sorti troppi dubbi, e non poteva continuare ad ignorarli, come se niente fosse. Non era quel tipo di persona.

Il fischio del treno segnò il suo arrivo a destinazione, nell’affollata stazione di East City. La villa Hawkeye non era propriamente vicina al centro città, quindi l’opzione migliore sarebbe stata arrivarci in auto. Riza si avviò al di fuori della stazione alla ricerca di un autista. Aveva avvisato della sua partenza il Generale, che si era subito offerto di accompagnarla, ma lei era riuscita a farlo desistere, promettendogli che avrebbe telefonato, una volta giunta in città. Il piccolo Black Hayate era stato affidato alle attente cure del Sergente Fury, che accettava sempre con goia di badare a lui.
 
Riza scese dall’auto, trovandosi di fronte al vecchio cancello della villa. Si avvicinò a passo lento verso di esso, osservando la forza erosiva del tempo: la splendida casa in cui viveva da bambina era in stato di sfacelo. Si notava persino dall’esterno. Il giardino era una distesa di erbacce e il cancello arrugginito conferiva un’aria quasi spettrale al luogo. La serratura si aprì, dopo un po’ di capricci. Prima di entrare in casa e affrontare la realtà dei fatti, la donna volle concedersi una passeggiata, come quelle che faceva un tempo. Stava per fare buio e l’aria che le soffiava in faccia era più fredda, ma questo non le impedì di addentrarsi nel suo boschetto. Erano ricordi felici, quelli che aveva di quel posto. Riza continuò a camminare,  finché non giunse al lago. Quante sere aveva passato lì, nel suo rifugio, dove si lasciava andare a pianti e sorrisi, quando era sola. Si accostò il più possibile alla sponda, per poi sedersi di fronte a quello specchio d’acqua. 
 



Settembre 1904

Riza era seduta a gambe incrociate. Sovrappensiero, stava lanciando delle pietre sul pelo dell’acqua. Riusciva a farle rimbalzare lontano a gran velocità. Prese la mira e colpì un ramo che galleggiava in superficie.

«Wow, ma l’hai fatto apposta? Che precisione!» Il giovane Roy Mustang, apparso alle sue spalle, la fece sussultare. Riza non si era minimamente accorta del suo arrivo e non se lo aspettava, soprattutto. Solitamente a quell’ora, Roy era impegnato nelle lezioni che il maestro Hawkeye gli impartiva.

«Già. Non che la precisione serva a molto, nella vita.» Gli rispose lei. Aveva davvero poca fiducia nelle sue potenzialità e si scoraggiava facilmente.
«Non sono d’accordo.» Ribatté il moro, chinandosi sulle gambe. «Posso sedermi anch’io?»
«Non sono la proprietaria di questo posto. Può fare quello che vuole.» Roy ormai conosceva abbastanza bene la ragazza, ma non poteva evitare di rimanere spiazzato di fronte a quel genere di risposte, anche se erano frequenti. Con quella domanda, ovviamente, Roy intendeva chiederle se la sua presenza era gradita o meno. In quel modo Riza non gli aveva detto né sì né no. Comunque, si sedette poco lontano da lei, rimanendo in silenzio. Silenzio che fu rotto dalla ragazza che, sinceramente curiosa, chiese: «Non dovrebbe essere con mio padre, in questo momento?»
«Sì, ma al momento è poco trattabile.» Le rispose Roy, notando che il suo sguardo divenne ancora più interrogativo. Senza bisogno di ulteriori domande da parte sua, continuò.
«Devi sapere che ho deciso di arruolarmi nell’esercito. Ovviamente ho voluto informare della decisione tuo padre. Ecco… Non l’ha presa proprio bene. A dire il vero si è infuriato.»
 
Riza non avrebbe mai immaginato che Roy Mustang potesse prendere una decisione simile. Lo aveva sempre visto come una persona fuori dagli schemi. Uno spirito ribelle che non si addiceva per nulla alle rigide regole militari. La reazione di suo padre, invece, non la sorprese. Sin da quando era bambina non faceva che sentirgli dire: “L’alchimia è ciò che di più importante c’è a questo mondo. Non può e non deve essere utilizzata come strumento per gli ignobili fini degli uomini.”
«Capisco.»
«Però vorrei  sapere perché si è arrabbiato tanto. Voglio dire, ci sarà pure un motivo…»
«Non credo ce ne sia uno in particolare. Infondo anche lei conosce mio padre. Non c’è di che meravigliarsi.» Rispose Riza, convinta che non ci fosse niente di strano dietro la reazione del padre, del tutto conforme al suo carattere.
«Ti dico che c’è qualcosa che non sappiamo. Mi accorgo al volo di certe cose, io. Ad ogni modo, ho preso la mia decisione e non ho intenzione di cambiarla.» La informò Roy, aggiungendo: «E se tuo padre non vorrà più avermi come suo allievo, mi vedrò costretto ad andarmene.»
 
 
A dispetto di quanto ci si potesse aspettare dalla stagione autunnale, quella mattina, faceva capolino tra le nuvole un sole raggiante, che picchiava sulla pelle del Sergente Fury. Gli pizzicavano le guance. Con un dito scacciò via le prime gocce di sudore che scendevano dalla fronte. La divisa militare cominciava a pesargli addosso. Kain si stava dirigendo al Quartier Generale. Al suo fianco, Black Hayate si scrutava attorno, felice di passeggiare per le strade della città con il suo compagno di giochi preferito. Il Tenente Hawkeye aveva chiesto a Fury di occuparsi di lui per tutta la giornata, dicendo che doveva fare una cosa importante e che non sarebbe stata in grado di badargli molto. Kain non le aveva domandato nulla a riguardo, anche se avrebbe voluto sapere qual era la cosa tanto importante e se era quella la causa del suo sguardo impensierito. Si limitò ad annuire e offrirle la sua disponibilità. Non voleva intromettersi in affari che non lo riguardavano, o forse, era semplicemente un vigliacco. Troppo timoroso, insicuro e impacciato per riuscire a fare qualsiasi cosa, figuriamoci essere d’aiuto ad una come Hawkeye.
Nel giro di pochi minuti, i due giunsero a destinazione. Il piccolo Hayate si sedette davanti alla scalinata, guaendo. Kain si piegò per carezzargli la testolina.

«Lo so che è una bella giornata, Black Hayate, e capisco che questo posto non sia poi molto invitante rispetto all’aria aperta.» Disse il Sergente, indicando con il pollice l’edificio alle sue spalle.

«Ma non posso lasciarti girovagare da solo. Se ti succedesse qualcosa, io… Sai, non voglio beccarmi una pallottola della tua padrona in fronte. Capisci che intendo, no?»

Il cucciolo abbassò la testa, poi strofinò il naso contro la mano di Kain e si avviò verso l’entrata. Capiva alla perfezione.
 
Fury era un po’ ansioso. Non gli piaceva entrare in ufficio per ultimo e sentire gli sguardi dei colleghi addosso, tutti rivolti verso di lui. Per questo cercava di arrivare sempre in orario, se non prima. Quella mattina, però, a causa della chiamata inaspettata del Tenente, non era riuscito in alcun modo ad evitare il ritardo. Poggiò la mano sul pomello della porta, abbassandolo lentamente e preparandosi psicologicamente a quell’evento che tanto lo metteva a disagio.
 Davanti a lui non vide niente di quello che si era figurato, ma soltanto il Maresciallo Falman, intento a scribacchiare chissà che, seduto col capo chino sul tavolo. L’uomo alzò la testa, per vedere chi fosse arrivato, poi salutò gioviale.

«Ehilà! Buongiorno, Fury.» Il Sergente fece qualche passo più avanti, lasciando entrare anche il cagnolino.  «Oh, ciao anche a te, Black Hayate.» Aggiunse Vato, non appena si accorse di lui.
«Buongiorno, Maresciallo. Ma…» Disse il più giovane, dando un’occhiata al suo orologio. «Dove sono tutti?»
«Beh, giovanotto.» Iniziò Falman portandosi una mano al petto. «È da tempo, ormai, che affermo con convinzione che l’unica persona seria rimasta qua dentro sia io. Non ho idea di che fine abbiano fatto gli altri.»
A Fury venne da ridere. Il tono serio, con tanto di palpebre socchiuse, del Maresciallo era davvero esilarante. Non che Vato avesse tutti i torti: la loro squadra non sarebbe stata la stessa, senza la sua precisione. Dal basso si sentì Hayate abbaiare.
«Lei, Maresciallo, e Black Hayate.» Aggiunse Kain, dando delle leggere pacche sulla testa al cucciolo.

I due uomini si voltarono, sentendo un trambusto provenire da fuori. Ben presto capirono che quelle voci chiassose erano di Havoc e Breda, sicuramente impegnati in uno dei loro inutili battibecchi. Kain e Vato si lanciarono un’occhiata d’intesa, per poi lasciarsi andare ad una sonora risata. Fury era convinto che certe cose non sarebbero cambiate mai. E ne era felice. Si ricordò di quanto fosse evidente la mancanza del Sottotenente Havoc, nel periodo della sua convalescenza. Breda non l’avrebbe mai ammesso, ma si vedeva chiaramente che ne era dispiaciuto. Per non parlare, poi, di quando tutti e sei vennero divisi dai piani alti dell’esercito. Comunicare era diventata un’impresa impossibile. Kain scacciò quei pensieri dalla mente, scuotendo la testa.

La porta venne aperta da Jean, o meglio, da Heymans, che con un calcio lo aveva scaraventato contro di essa. Havoc cadde rovinosamente a terra. Quando si rialzò, massaggiandosi la schiena e sbuffando, salutò gli altri.
«Buongiorno.»
«Si può sapere che avete da sbraitare, voi due?» Chiese, poco educatamente, Falman.
«No… Niente di che… Davvero.» Gli rispose Jean, guardando di sottecchi il collega alle sue spalle.
«C-Cosa ci fa quella bestia qui?!» Se ne uscì Breda, indicando il povero Hayate che, dal canto suo, se ne stava accucciato sotto la sedia di Falman. Heymans aveva sempre reazioni esagerate, alla sua vista. Fury non si capacitava di come un esserino così dolce potesse provocare tanta agitazione in un omone come il collega.
«Non puoi lasciarlo in giardino?!» Hayate alzò un orecchio e, dopo qualche istante di esitazione, scattò verso Heymans, ringhiandogli contro. L’uomo sbiancò, spiaccicandosi con le spalle al muro.
«No, No, Hayate! Da bravo, smettila!» Implorò Fury, esasperato: ogni volta la stessa storia.
 
«Già, quasi dimenticavo.» Esclamò Vato, rivolgendosi ai due colleghi appena entrati, con un gran sorriso tra le labbra. «La mia corrispondenza?»
«Corrispondenza?» Disse spiazzato Havoc, alzando un sopracciglio, mentre Breda era ancora troppo impegnato a inveire contro Black Hayate per accorgersi della domanda.
«Propriamente. Il pacco che vi ho mandato a prendere ieri, giusto?» Disse il Maresciallo, avvicinandosi al collega. Stava cominciando ad innervosirsi.
«Ah. Oh. Sì.» Balbettò Jean, indietreggiando lentamente verso Breda.
 Fury poté cogliere l’espressione spaventata del biondo, con tanto di fronte corrucciata e mascella irrigidita. La stessa del Generale, quando si trovava la pistola del Tenente puntata contro per qualche battuta di troppo. O quella di Breda, per l’appunto, quando vedeva il temibile Black Hayate.
«Deve… Deve essermi caduto mentre…»
«Mentre cosa?» Falman afferrò Havoc per la giacca della divisa. Sembrava che stesse per mettersi a piangere. «VOI, DELINQUENTI! Mio cugino me lo aveva spedito dal suo viaggio a Creta… La Storiografia delle Regioni dell’Ovest. Gli è costato una fortuna!» Continuò a sbraitare il Maresciallo, scuotendo la testa.
«Che sta succedendo qui?» Nonostante il marasma, la voce del Generale giunse chiara e tonda alle orecchie di Fury, che rivolse all’uomo un formale saluto, prima ancora che gli altri notassero il suo arrivo. Kain poté subito accorgersi del fatto che Roy fosse in modalità Generale serio con grandi responsabilità sulle spalle. Pensava da sempre che il suo capo esaltasse volutamente, davanti a loro, il suo essere fannullone, donnaiolo, sbadato e un’altra serie di interminabili aggettivi che si potevano attribuire a Roy Mustang, anche se non sapeva di preciso il perché. Kain sapeva che il Generale non era seriamente un tipo del genere. Gli era chiaro quanto, in realtà, lui fosse un uomo estremamente buono, ostinato a raggiungere i suoi obbiettivi,  senza dimenticarsi di chi gli stava accanto. Era questo il motivo per cui Kain riponeva la massima fiducia nel suo Generale.

«Generale!» Esclamò Havoc, cercando di liberarsi dalla presa del collega.

«Cosa può esserci di più importante rispetto al mio libro?!»

«Ieri abbiamo avvistato i due elementi che stiamo tenendo d’occhio. Deve essermi scivolato mentre li seguivamo. Mi dispiace, Falman.» Vato alzò gli occhi al cielo, cercando di metabolizzare la cosa.
«Complimenti, vedo che prendete alla lettera ciò che vi dico.» Si intromise Roy, che intanto si era seduto alla sua solita postazione.
«Ma non si sono accorti di noi, Generale.»
«Sì, invece.» Sentenziò Heymans. Bastava notare l’occhiataccia che aveva lanciato ad Havoc, per capire che non gli avrebbe concesso dire menzogne.  «Sanno usare l’alchimia.»
«Mh, capisco. Ad ogni modo, domani vi aggiornerò su quanto scoprirò quest’oggi.» Disse Roy, mentre sfogliava meccanicamente le pagine dei fascicoli poggiati sulla sua scrivania. Riconoscendo di essere stato molto vago con quell’affermazione, aggiunse: «Stasera ho un appuntamento con la suddetta signorina.»

«Wow, Generale. È riuscito ad avvicinarla?» Havoc guardava alle conquiste di Roy con la stessa ammirazione con cui un allievo guarderebbe il proprio maestro.  

«Più che altro è stata lei ad avvicinarmi. Ha la necessità di scoprire qualcosa che mi riguarda, o con cui sono a contatto, in ogni caso. È evidente.»  Disse il Generale, per poi ammutolirsi, chinato sui documenti da firmare. Gli altri avrebbero senz’altro preferito continuare a parlare dell’argomento, decisamente più interessante rispetto all’ordinario lavoro d’ufficio, ma Roy non sembrava intenzionato a proseguire la discussione, tantomeno a farsi quattro chiacchiere. Fury cercò di immaginare quale potesse essere il motivo che spingeva il Generale a incupirsi in tal modo. Ipotizzò che l’uomo fosse più informato di lui riguardo al Tenente Hawkeye e a quello che le stava succedendo. Forse era questo che lo faceva impensierire. Kain si voltò un istante verso il resto della squadra: possibile che ancora non avessero domandato che fine avesse fatto il Tenente? Troppo, troppo occupati a rimbeccarsi l’un l’altro per pensare ad altro.

«Generale.» Iniziò Fury, distraendo l’uomo dai suoi compiti. «Il Tenente mi ha…»
«Lo so, lo so, Sergente. Ha informato anche me.» Lo interruppe Roy. Come dirgli che in realtà Kain non sapeva nulla a riguardo? Avrebbe tanto desiderato che Riza avesse rivelato anche a lui la verità su quello che doveva fare quel giorno. Abbassò lo sguardo, non riuscendo a nascondere il velo di delusione nei suoi occhi, che comunque il Generale non riuscì a cogliere.
«Sta tranquillo, Fury. Non devi preoccuparti per lei.» Gli disse Roy, dandogli una calorosa pacca sulle spalle, sfruttando la vicinanza che c’era tra loro.
 
 
 

Riza varcò la soglia di casa sua. Aveva inevitabilmente preso troppo freddo. All’interno, purtroppo, l’aria non era molto più calda, ma il vento, quantomeno, non era più un problema. Il Tenente ebbe la saggia intuizione di accendere il camino, racimolando un po’ di legna trovata in giardino. Quante volte, un Roy alle prime armi aveva rischiato di dare fuoco all’intera abitazione, per cercare di accendere quello stesso camino. 

Si riprese dal freddo e dalla stanchezza accumulati. Sdraiata sul malconcio divano, si chiese cosa avrebbe dovuto fare, da dove sarebbe dovuta partire, per trovare una risposta. Aveva paura, paura che le forze non le sarebbero bastate. Proprio quando si era convinta che non ci sarebbero stati più problemi, che nella sua vita sarebbe tornata una relativa quiete, eccone uno nuovo, pronto a bussare alla sua porta. Avrebbe dovuto aggiustare le cose da sola. Non voleva essere un peso per la sua squadra, per Roy. Erano questi i pensieri di una persona che da sempre viveva all’ombra degli altri. Si era ridotta a credere che infondo, ognuno, preso dai propri fardelli, non avrebbe avuto né la voglia né la pazienza di interessarsi a quello che le succedeva e così anche lei finiva per mettere in secondo piano qualsiasi cosa la riguardasse. Un ammasso di sentimenti accumulati col passare degli anni le ribolliva dentro. Lei non aveva mai fatto uscire nulla da lì.

Riza entrò in camera di suo padre. Si ritrovò immersa in quel tipico ambiente caotico, che non era cambiato di una virgola, da quando aveva ricordi. Dopo la morte di Berthold, aveva lasciato intatto il suo piccolo studio. Non aveva portato via nulla. Ogni foglio, libro, qualsiasi strano oggetto: niente era mai uscito da lì. Era stato più facile scappare, lasciandosi alle spalle tutto ciò che riguardasse quell’uomo. Riza ricordò l’odio provato per Berthold. Un odio che con il passare degli anni si era affievolito, ma che non sarebbe mai scomparso del tutto, come una vecchia cicatrice bianca, quasi invisibile agli occhi di chi non sa che c’è, ma che diventa evidente per chi la conosce e ripensa a ciò che l’ha causata.
Sulla scrivania di legno, logorata dal tempo e dall’umidità, giaceva una scatola color argento, la stessa che Riza aveva sognato. La donna prese l’oggetto tra le mani, incuriosita. Gli tornò alla mente il suo ricordo. Quella scatolina era sempre stata lì. Berthold la custodiva con grande attenzione. Non che la cosa avesse mai insospettito la giovane Riza, che conosceva l’atteggiamento maniacale del padre nei confronti delle sue cose. Sbloccò la serratura, lasciando scivolare via il gancio, infine la aprì.
«Grazie al cielo. Ce ne hai messo di tempo!»
Riza fece cadere l’oggetto a terra, lontano da sé. L’interno della scatola era in cuoio nero. Sul tessuto vi era disegnato un cerchio alchemico. La voce proveniva da lì.
«Chi diavolo sei?»
«Uff, ma non ti stanchi di fare sempre le stesse domande?»
La donna sentì la testa girare. Il rendersi conto di essere stata in compagnia di quella presenza per tutto il  tempo la fece trasalire.    
«Piccola Riza, ti conosco da molto, molto tempo. Io sono sempre stato qui. Mi ricordo di te, sai? Tutte le volte in cui sei sgattaiolata qui dentro… Cercavi forse l’affetto di tuo padre? Avrei tanto voluto aiutarti in quei momenti. Ti vedevo così turbata…»
«C-cosa sei? Che ci fai lì dentro?»
«Sono un’anima! Sono stato intrappolato qui dentro, o meglio, adesso tecnicamente io sono questa scatola. Dannazione, non so come sia possibile che riesca a parlare solo adesso che tu l’hai aperta. Tuo padre mi ha sistemato per bene, devo ammettere.»
Riza era ancora incredula. Faceva fatica ad assimilare le informazioni che stava ricevendo. Deglutì, cercando di contenere l’agitazione.
«Mio padre?»
«Certamente, chi vuoi che sia stato? Piccola Riza, quell’uomo è stato terribilmente crudele. Mi ha privato del mio corpo e condannato a un’eternità rinchiuso nel nulla più totale. Ti ringrazio. Ti ringrazio davvero.»
«Non ho fatto nulla.» Si affrettò a dire la donna. Il buonsenso le suggeriva di stare allerta, tuttavia lei non percepiva nessuna ostilità.
«Lo farai. Riza, noi due siamo legati. Sono riuscito a farmi trovare da te. Non ti chiedi come sia possibile? Non due siamo molto più vicini di quello che pensi. Ti chiedo solo un piccolo aiuto per liberarmi.»
«Non ti conosco nemmeno.» Tagliò corto Riza.
«Io invece ti conosco bene. Ci assomigliamo, lo sai? Ti senti sola, abbandonata al tuo destino. Ti è mancata una madre. Ti sei cresciuta da te, con un padre completamente assente.  Non hai avuto il tempo per essere una normale ragazzina: niente amici, niente divertimenti, niente amore. Ti mancava uno scopo, un obbiettivo da raggiungere, e nessuno ti ha mai aiutato a capire quale fosse. Anche adesso è così… Non lo ammetti, ma ti fa stare male. Non dovresti rinunciare in questo modo alla tua vita, ne hai una sola.»

Riza strabuzzò gli occhi. Una goccia di sudore le rigò la fronte. Come faceva quel tizio a leggerla così bene? Le frasi appena dette erano una realtà dei fatti che il Tenente nascondeva persino a sé stessa. Evitava di analizzare retrospettivamente la sua vita, e lo stesso faceva con il futuro. Semplicemente andava avanti di giorno in giorno.
«Riza, capisco quello che provi. È lo stesso per me, ma non dovrà essere per forza così. Possiamo farci forza a vicenda, se mi aiuti.»

Non poteva concedersi di essere così  ingenua da credere alle sue parole. Non sapeva chi fosse e cosa volesse veramente, ma sentiva che quella voce non stava mentendo, almeno non sul loro legame. C’era davvero qualcosa che li univa. Questo la spingeva ad ascoltarlo.

«Non ho intenzione di prendere per buono ciò che dici. E poi, cosa dovrei fare per te?» Lo incalzò Riza.

«Che motivo avrei di mentirti? Io voglio solo riprendermi il mio corpo, ma ho bisogno di te, perché come vedi non posso muovermi.» Riza non voleva credergli. Si stava opponendo con tutte le forze al suo istinto, che le diceva di assecondarlo, di fare quello che le diceva. Se solo ci fosse stato qualcuno in quel momento a fermarla…
«Riza, ti prego di fidarti. Tuo padre era un folle esaltato, ma presumo che tu già lo sappia. Mi ha ingannato… tradito.»
«Non sono un’alchimista. Non sono in grado di praticare l’alchimia. Come pensi che possa esserti utile?» Replicò la donna, rendendosi conto che con quella domanda stava implicitamente acconsentendo ad aiutarlo.

«Qualsiasi persona sulla faccia della terra può utilizzare l’alchimia. È parte di noi, mia cara. Devi solo seguire attentamente le mie istruzioni e in un attimo avrai finito. Promesso.»
Riza rimase a fissare la scatola con lo sguardo accigliato. Era visibilmente tesa. Si era ingenuamente lasciata coinvolgere dalle parole dell’uomo. Si meravigliò di sé stessa. Usualmente non permetteva che niente influenzasse il suo giudizio su come agire, eppure in quel momento non era capace di effettuare una corretta analisi della situazione.
«Riza…»
 
Riza ascoltò le istuzioni della voce. Non impiegò molto tempo per preparare tutto il necessario. Era ancora dubbiosa sull’effettiva riuscita del piano, ma si limitò ad eseguire quanto le veniva indicato. Disegnò un cerchio di trasmutazione sul pavimento, facendo ben attenzione a riprodurlo fedelmente rispetto a quello inciso sulla tavoletta trovata tra gli oggetti del padre. Si concentrò attentamente, chiudendo le palpebre ed eseguendo i gesti che le erano stati suggeriti. Una concentrazione mille volte superiore a quella che di solito assumeva quando premeva il grilletto. In un istante sentì il suo corpo allontanarsi da lei, o forse era il contrario? Venne catapultata in una dimensione a lei estranea. Non aveva mai visto niente di simile. Attorno vi era il nulla, un’infinita distesa di bianco. L’unica cosa che Riza poté distinguere chiaramente era una gigantesca porta, che la superava in altezza di almeno tre volte, eretta di fronte a lei. Si incamminò verso di essa. La sfiorò con le dita. Ne era affascinata: era questa la sensazione che un piccolo essere umano provava di fronte al sublime? Grande, sconosciuto, pericoloso… ma estremamente affascinante. La donna spinse le pareti della porta. Non sarebbe mai riuscita a descrivere a parole quello che provò in quell’attimo. La sensazione di aver raggiunto una pace mistica, di aver toccato con mano la perfezione, non c’era niente in quel posto che le ricordasse il mondo reale.
In piedi davanti a lei c’era un uomo, che le si stava avvicinando lentamente.
«Grazie.» Sibilò debolmente lui.
«Tu credi ne sia valsa la pena?»
Tra i due si interpose una figura. Non aveva un volto ed era completamente bianca, come tutto il resto, d’altronde. Riza faceva fatica a distinguerne il contorno.
«Cosa?»
«Per ottenere qualcosa è necessario dare in cambio qualcos’altro che abbia il medesimo valore.»
«No, no, aspetta. Che significa?!»

Ovviamente. Come poteva essere giunta fin lì senza accorgersene? Lo scambio equivalente, la porta della verità che giace dentro ogni essere umano… non ci aveva minimamente pensato. L’uomo l’aveva raggiunta, avvolgendo le mani tra le sue. Riza venne spinta indietro, fuori da quella magnificente porta. La vide sgretolarsi davanti ai suoi occhi per poi scomparire definitivamente.

Non capì bene cosa successe negli istanti successivi. Era tutto nero. L’unica cosa che percepiva era il dolore lancinante che si diramava in ogni parte del corpo, paralizzandola. Ritrovò la consistenza del suo corpo. Era sdraiata a terra, completamente priva di forze e dolorante. La testa le pulsava in modo tale da provocarle l’emicrania. Si costrinse ad aprire gli occhi. Di fronte a lei era apparsa una gracile figura che si trascinò al suo fianco.

«Grazie mille, piccola Riza.» Le soffiò in faccia.
«Che diavolo ho fatto?» Sbottò la donna, con voce tremante.  «Cosa mi è stato portato via?!»
«Sta tranquilla. Niente di cui avevi bisogno, infondo non hai mai utilizzato l’alchimia.»
I due si fissarono.  I loro sguardi erano a pochi centimetri di distanza.
«Adesso devo andare a sistemare un piccolo conto in sospeso, mi dispiace.» Continuò l’uomo, dandole un bacio sulla guancia per poi alzarsi da terra. 
«Bastardo…» Fu l’unica cosa che Riza riuscì a dire. Si portò una mano dietro la schiena per cercare di afferrare una delle sue pistole, ma lui si chinò rapidamente, impedendoglielo.
«Ehi, non fare così! Non ti ho mentito. Devo solo portare a termine una cosa. È da tanti anni che aspetto» le disse, mentre con una mano le spostava i capelli ricaduti sul viso. «Sono sicuro che tu mi capiresti. Quando avrò finito tornerò, se vorrai…»
Furono le sue ultime parole. Andò via, scomparendo dalla vista di Riza. Lei rimase accasciata a terra, perdendo i sensi poco dopo. 










Allooooora, prima cosa, non o se avete notato, ma nel flashback del capitolo 2 Riza dà del tu a Roy, mentre in questo flashback gli dà del lei... ecco, diciamo che nel vecchio non mi piaceva proprio quella scena con Riza che gli dava del lei... e poi erano anche più piccoli, quindi...(vabbè, mi sto giustificando). Adesso ho ripreso il lei per rimanere congruente al manga. 
Seconda cosa, ho fatto salire di grado solo il Colonnello anziché tutti i membri della squadra, questo fondamentalmente perché non ci capisco niente con gli avanzamenti di carriera nell'esercito e non volevo sbagliarmi, magari in seguito ricorreggerò tutto,  questo sin dal primo capitolo. Perdonatemi :') 

E dunque, ringrazio tutti quelli che sono arrivati a leggere fino a qui. Ho avuto tantissima difficolta a scrivere questo capitolo, forse si vede. Oltretutto ho avuto l'esame di Finanziaria che mi ha occupato un sacco di tempo... Speriamo sia andato bene almeno... Per tirarmi un po' su di morale ho letto Full Metal Panic, dovete sapere che io sono un po' come Mercoledì Addams, non trovo mai nulla che mi faccia ridere, ma questo manga/anime ci è riuscito. Ancora non ci credo :D...Ok smetto di dilungarmi, anche perché non ve ne frega niente. Vi lascio il link del mio account twitter, se qualcuno vuole fare due chiacchiere a me fa piacere https://twitter.com/schinwalker (probabilmente non si attiva il link, comunque mi chiamo @Schinwalker)
Alla prossima. Antokia

 
  
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