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Autore: _Noodle    30/11/2016    2 recensioni
 
“Quando la danza diventa un’esigenza, un bisogno primario e necessario, la musica fuoriesce dalla sua tana avvolgendo i corpi degli amanti, sgorgando dagli strumenti e dai grammofoni, dalle casse e dalle console. Quando si balla è notte. Quando si ascolta, il sole è lontano”.
Raccolta di One-Shot: ad ogni decennio del Novecento corrisponde un genere musicale, ad ogni sonorità un diverso e particolare modo di danzare.
~ The Romantic Naughties: 1911 [KuroTsuki].
~ The Roaring Twenties: 1925 [DaiSuga].
~ The Dirty Thirties: 1936 [AsaNoya].
~ The Flying Forties: 1946 [YamaYachi].
~ The Stylish Fifties: 1957 [KuroKen].
~ The Revolutionary Sixties: 1964 [KageHina].
~ The Eccentric Seventies: 1973 [IwaOi].
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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1911, Musica Classica.
Kei Tsukishima suona la “Gymnopédie no. 1” di Erik Satie.
 
 
 
 
 
 
 
1893
 
Mi chiamo Kei e ho sette anni.
Mozart quando ne aveva cinque compose “Il Flauto Magico”, ma io, detto sinceramente, non aspiro a nulla di ciò. Sono un bambino normale, che come ogni bambino normale si diletta a suonare uno strumento complicato. Seguo le lezioni impartite dalla Signorina Kiyoko con interesse, faccio i compiti, occupo qualche ora del mio tempo praticando il noioso solfeggio e di tanto in tanto suono qualche cosa di mia spontanea volontà.
Il più delle volte, quando mi dedico alla musica, i miei genitori e mio fratello non sono in casa: m’imbarazza renderli partecipi della mia arte. Suonare è piacevole e rilassante e m’impegno il necessario per poter differenziare tra di loro i pomeriggi assolati in cui mi chiudo a chiave nella mia stanza. Io preferisco la notte. Il giorno, così entusiasta e burlone, così felicemente ipocrita, mi mette malinconia.
 
1900
 
E’ solo un pianoforte e non dovrebbe significare qualcosa.
 
1906
 
Quando suono mi capita spesso di diventare sordo.
È come se i rumori attorno a me, il soffiare insistente ed incessante del vento, i brusii dei passanti, i richiami di mio fratello e le urla di mia madre non esistessero. Esiste il pianoforte ed esiste solo quello. Per il restante mormorio del mondo, io sono sordo. Lo era anche Beethoven, eppure suonava da maestro.
Quando suono non divento mai cieco. Esploro paesaggi e conto numerose galassie quando la mia mente è catturata da quelle sette note tentatrici, fautrici di sogni e di dolori. Vedo le stagioni, il trascorrere delle ore e il mutare della luce, le risacche dei mari occidentali, i tramonti che, si dice in giro, cancellino le preoccupazioni. Vedo la mente che tenta di risolvere equazioni complicatissime, mercati stracolmi di spezie, la semplicità di una nonna che stringe a sé il nipote. Vedo auree ed aurore che nessuno è in grado di ammirare, vedo i locali dove si balla il dixieland, vedo gli innamorati che studiano i loro corpi di nascosto, affondando le lingue in lucenti calici di cristallo.
Ma di ciò che io vedo nessuno è a conoscenza, perché quando non suono io sono muto e di me non parlo.
Ciò che la musica mi trasmette e ciò che la musica mi fa diventare nessuno potrà mai saperlo.
Essenzialmente, sono solo.
 
Giugno, 1911
 
<< Che cosa sai suonare? >>
<< So suonare Satie. >>
<< Qualcosa che io possa ballare? >> 
<< Non è un problema mio se non sai muovere i piedi sulla musica classica. Io non suono altre porcherie, e ti faccio già un favore. >>
 
Settembre, 1911
 
<< Direi che ne sei capace >> gli dissi.
<< Io ho un udito sopraffino anche per ciò che non è una porcheria >> mi rispose.
<< Che ne dici di venire al Neko Club con me questa notte? >> mi propose.
<< Ma io non so ballare >> confessai.
<< E chi ti dice che tu debba ballare? Il pianoforte ce l’abbiamo anche lì. Porta Satie con te e mettiti una giacca decente, per piacere >> concluse.
 
Quel tizio con i capelli neri color dei tasti diesis fu il primo a conoscere il mio ripostiglio segreto. Nascondevo il mio pianoforte in una stanza retrostante ad un Caffè, alla quale si poteva accedere tramite una porticina di legno marcio e scuro, madida di sudore e di vecchiaia. La porta della stanza retrostante al Caffè era chiusa con un pesante lucchetto e nessuno aveva mai osato aprirla: i sognatori ci vedevano l’infinito, i codardi un ostacolo, gli ubriachi un miraggio; io ci avevo semplicemente visto un’occasione e ne avevo approfittato. Ci avevo trasportato il mio fedele compagno e ogni volta che non tenevo lezioni private a ragazzini con uno scarso senso della ritmica e della dinamica mi rinchiudevo lì dentro, dedicando del tempo a me stesso. Non l’avevo mai mostrato a nessuno prima di quel giovedì piovoso. Kuroo Tetsurou, così disse di chiamarsi, era un ballerino di tip tap e si esibiva spesso nei locali più frequentati della città, quelli che con l’arrivo del nuovo millennio avevano aperto le porte alle novità.
Tetsurou, sì, era una novità. Non perché si vestisse in modo eccentrico o nascondesse nelle tasche della giacca cartoline dei quadri di Toulouse Lautrec o di fanciulle senza veli, non perché acconciasse i suoi capelli in modo tanto diverso da come li acconciava la gente, non perché fumasse tabacco solo raramente, quando ne aveva voglia, no. Non era una novità perché ballava sulle note di quella musica sbarazzina e divertente, non perché avesse i soldi per pagare l’affitto ma volesse guadagnarne altri per visitare Parigi, non perché avesse deciso di rivolgersi ad un insegnante di pianoforte come me per sperimentare cose nuove, no.
Kuroo Testurou, occhi ambrati e ciglia lunghissime, labbra carnose e denti bianchissimi, era una novità perché più di chiunque altro, perché più di me, sapeva diventare sordo.
Quel giovedì di giugno, prima che potessi tornare a casa, Kuroo si frappose tra me e la soglia del Caffè, chiedendomi di aiutarlo con una certa importante faccenda di stile. Aveva scoperto per vie traverse quale fosse la mia professione e mi confessò di voler provare a ballare su una musica diversa dalla solita. Io, una volta entrati nel mio nascondiglio, suonai la “Gymnopédie no. 1” di Erik Satie, il mio brano di repertorio preferito. Non so perché scelsi proprio quel pezzo, così intimo e personale; forse perché la situazione lo richiedeva, forse perché è il brano che conosco meglio, un porto sicuro per le mie dita e per il mio cervello.
Non so che cosa mi portò a farlo, non so perché decisi di mostrare ad un perfetto sconosciuto una parte di me, della mia vita e della mia anima. Forse mi mise in soggezione, mi sentii minacciato da quel sorriso tremendo e da quegli occhi grandi e seduttori, forse accettai quella proposta come se non fosse stata tale, come se fosse stato un obbligo. Non ero mai stato il tipo da farsi mettere i piedi in testa; al contrario, avevo sempre incusso timore, suscitato l’ira di chi discuteva con me, sorpreso la gente quando meno se l’aspettava.
Lui, invece, mi annullò.
Salimmo i quaranta gradini come se fossero stati una ripida scala di note ed entrammo nella stanza. Non parlai mai.
Mentre presi posto dietro il pianoforte, lui si tolse la giacca che portava sulle spalle appoggiandola su una polverosa sedia di legno, non curante che si potesse sporcare. Arrotolò le maniche della camicia bianca fino al gomito, si passò una mano tra i capelli ribelli e chiuse gli occhi. Istintivamente, li chiusi anche io. Le mie mani iniziarono a muoversi sui tasti con tranquillità; conoscevo quella composizione meglio di quanto conoscessi me stesso e ogni qual volta mi capitava di suonarla era come se stessi ripercorrendo un fragile momento della mia vita nel modo più particolareggiato possibile. Benedetto il giorno in cui scoprii la magia delle armonie di questo pazzo musicista francese.
Suonate le prime note, contate le prime pulsazioni, aprii gli occhi, incuriosito dai movimenti che, immaginavo, il ballerino di tip tap stesse sperimentando di fronte a me. Lo vidi, invece, appoggiato alla coda del pianoforte, sguardo trasognato e sorriso malizioso. Non muoveva un muscolo.
 
<< Perché non stai ballando? >>
<< Perché hai smesso di suonare? Prima di ballare devo conoscere la melodia alla perfezione. >>
 
Ricominciai, imbarazzato dalle parole del mio interlocutore, che imperterrito continuava a fissarmi. Tentai di diventare sordo, le mie orecchie tentarono di soffocare ogni piccola vibrazione che giungeva ai miei timpani, temetti di sanguinare per lo sforzo e per l’impegno, ma lo sguardo di quella creatura tanto misteriosa e tanto invadente faceva più rumore di qualsiasi tuono, di qualsiasi tamburo, di qualsiasi silenzio.
 
<< Mi stai guardando in modo strano >> sussurrai.
<< Ti sto guardando. >>
<< In modo strano... >>
<< In modo strano. >>
 
Con un lento e delicato gesto della mano mi fece segno di riprendere a suonare. Una volta che ebbi ricominciato per la terza volta, notai una confidenza maggiore in Kuroo. Vedevo i suoi muscoli in tensione, i suoi occhi leggermente socchiusi che pensavano a figure e a movimenti; vedevo le sue mani ripercorrere la gestualità delle mie e poi, quando meno me l’aspettavo, vidi i suoi piedi sfiorare in controtempo il pavimento come se fossero stati dei fiammiferi. Lanciavano scintille. Alternava movimenti scattanti a ritmi più lenti, si concedeva di girare su se stesso, di roteare leggermente le braccia, di piegare le ginocchia e di flettere il busto in avanti per riempire totalmente l’eco della mia musica.
Mi sorrideva Tetsurou, o forse più semplicemente sorrideva a Satie.
Le claquettes ticchettavano sonoramente sul pavimento in pietra della stanza, le sue dita schioccavano a ritmo ogni volta in cui le scarpe non collidevano con il terreno. Io suonavo, suonavo quel pianoforte che anni prima, all’età di quattordici anni mi ero ripromesso che non avrebbe dovuto significare niente.
Fu alla fine della sua limpida performance di tip tap che Kuroo, fronte asciutta e respiro regolare, merito dell’abitudine, si avvicinò a me e mi chiese di seguirlo nel locale dove solitamente si esibiva.
La mia mente non riuscì a valutare se fosse più difficile trovare una giacca decente da indossare o apparire accattivante ai suoi occhi. Fu quello il momento in cui capii che quello sconosciuto ballerino dagli occhi ambrati aveva risvegliato in me un sentimento che ritenevo si  fosse assopito per non svegliarsi mai più. E la cosa mi lasciò interdetto.
 
<< Kei! Eccoti qui. >>
La sua voce era accogliente, rotonda, dai bordi smussati, talmente cordiale da farmi salire i nervi a fior di pelle. Inconsapevole di ciò a cui stavo andando incontro, mi avvicinai a lui, varcando la soglia del fumoso locale.
Il Neko era un club all’avanguardia, al passo con i tempi. Era costituito da un’unica grande sala, pavimento di moquette rossa e un centinaio di tavolini ricoperti da candide tovaglie bianche, apparecchiati con la migliore argenteria (o almeno, così pareva). Di rimpetto alla porta, dalla parte opposta della sala, vi era un’area specifica riservata ai ballerini e ai musicisti: un piccolo palcoscenico incorniciato da due drappi rossi messi a mo’ di sipario; sulla sinistra vi erano un pianoforte, una tromba, un contrabbasso riposto sul suo apposito sostegno ed una batteria composta da pochi tamburi. Accanto agli strumenti sostavano tre uomini vestiti di tutto punto che s’intrattenevano a parlare con Kuroo, gioviali ed estremamente eleganti. Dovevano essere gli altri musicisti e, tratte queste conclusioni, considerai che sarei realmente stato io ad occupare il posto dietro il pianoforte quella notte e che saremo stati io e la mia musica ad accompagnare i passi vorticosi di Tetsurou. Un lampadario di cristalli illuminava copiosamente la camera ed era in grado di spegnersi poco per volta, a mano a mano che le luci del palco si accendevano.
Successe tutto talmente in fretta che non ebbi nemmeno il tempo di comprendere se fosse giusto o sbagliato quello che mi accingevo a fare. Non ebbi la freddezza di riflettere sulle mie azioni, qualità che normalmente mi contraddistingueva. Un insegnante di pianoforte avrebbe dovuto rifiutare, avrei dovuto lasciare che Kuroo si dimenticasse di me, reclinare l’offerta con un semplice “non sono interessato”, dargli del lei e mantenere una certa distanza professionale. Nulla di ciò era accaduto, senza che io ne conoscessi il perché. Non si poteva tornare indietro.
Giunto ai piedi del palcoscenico, Tetsurou si avvicinò a me, stringendomi la mano e sorridendo più sommessamente  e timidamente rispetto a qualche ora prima. Fuori aveva smesso di piovere, ma Kuroo non aveva smesso di colpirmi, di urtarmi come avrebbero fatto delicatamente e ferocemente tutte quelle gocce d’acqua.
<< Sono felice che ti sia convito a venire, Quattrocchi, non ci speravo. Per le dieci si inizia, tieniti pronto. Prima di noi suoneranno altri musicisti, dovrai essere paziente. Nel frattempo, scegli un tavolo e occupalo. >>
E fu così che trascorsi le ore seguenti seduto ad un tavolo, al tavolo numero undici per la precisione, attendendo che arrivasse il momento della mia prima esibizione pubblica. Ero nervoso e non riuscivo a nasconderlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sulla superficie ovattata della mensa, le mie gambe rimbalzavano aritmicamente in su e in giù. Osservavo gli uomini con il cappello nero e le camicie con il colletto inamidato dare il braccio a donne dagli abiti lunghi e scintillanti, con i capelli elegantemente raccolti, e mi chiedevo se quel luogo di festa, di frenetica energia e di tensione amorosa percepibile al tatto fosse luogo per me. Tutto era disteso, allegro e frivolo, così spontaneamente sofisticato per me che la mia semplicità e riservatezza furono messe a dura prova. Non ero mai stato il tipo da folla, da gente, da grande pubblico o da festa, non ero mai stato il tipo da locali, da novità. Ero un abitudinario, un cultore del tempo che scorre linearmente e lentamente. Eppure, quando fu il momento di salire sul palco, quando fu il momento di rintanarsi dietro il pianoforte e di svelarsi davanti ad una miriade di occhi vispi ed impazienti non ebbi alcuna esitazione. Fu Tetsurou a condurmi verso la mia postazione, a lanciarmi un occhiolino fugace quando fu il momento di incominciare. In quel momento mi fu chiaro il perché di quella mia straordinaria audacia e convinzione, perché il mio solito silenzio avesse iniziato a brontolare, a farsi disturbante. Avevo voglia di suonare, sì, ma non per la folla, non per la gente, non per il pubblico. Avevo voglia di suonare per un’opportunità, per un giorno di pioggia, per un nascondiglio segreto, per un ballerino che aveva creduto in me per qualche ora, per dei piedi frenetici, per delle gambe muscolose, per un corpo terribilmente affascinante e proibito.
Se non fosse stato per la nitidezza con cui vedevo il mondo attorno a me avrei pensato che qualcuno mi avesse celatamente somministrato dell’oppio.
Non riuscivo a ragionare, le mani tremavano avvolte da un malsano ed estatico spirito dionisiaco che si divertiva a fare a pugni con l’Apollo che solleticava la mia ragionevolezza.
 
Quando Tetsurou incominciò a ballare guidato dalla mia musica mi sentii incredibilmente gratificato. Fu la prima volta che le note del mio pianoforte risultarono essere utili a qualcosa, a qualcuno. Per me la musica era utile, un bisogno primario quanto mangiare e dormire, ma a quanto pare non ero l’unico a viverla in quel modo, non ero l’unico a percepirla come una normalità anormale. Fu strano quello che portammo in scena, considerato il locale in cui ci esibivamo. Tutta quella gente, probabilmente, avrebbe voluto ballare, dimenarsi e saltellare, ma noi non concedemmo loro questa soddisfazione. La danza di Kuroo e la fluidità dei suoi movimenti, tuttavia, suscitarono uno scroscio di applausi inimmaginabile. S’inchinò ringraziando. Indicò me, che imitai il suo movimento come meglio potevo. Poi scese dal palco, fiero dell’esibizione di quella sera estiva.
 
Mi trascinò fuori dal locale, sotto un cielo coperto e privo di stelle. Le strade erano vuote, i tavoli del Neko Club tutti occupati.
 
<< Cognac? >>
<< Non bevo, grazie. >>
Kuroo, schiena appoggiata al muro e piedi incrociati l’uno sull’altro, reggeva il suo bicchiere di cognac come se fosse stato un trofeo. Teneva lo sguardo basso, i capelli neri davanti agli occhi smarriti nel nulla. Respirava piano, quasi restava in apnea. Non appena mi accorsi che lo stavo fissando in modo troppo intenso, distolsi lo sguardo, gettandolo oltre la via. Faceva caldo e la notte era umida e vaporosa. Tutto era leggero, incredibilmente surreale.
Attendevamo da soli, nel silenzio della notte.
<< Certo che sei proprio strano. Gli artisti fanno la rivoluzione, sono irriverenti, sono atipici. Gli artisti bevono, gli artisti fumano. >>
Lo guardai con stizza, con un malcelato disgusto. Tuttavia non appena sorrise, la mia espressione mutò in un rammaricato cipiglio. Qualcosa lacerò il mio stomaco. Pulsazioni incapaci di seguire il ritmo del mio metronomo interno.
<< Cielo, spero di non averti spaventato con questi discorsi >> si scusò, avvicinandosi terribilmente a me. Le claquettes facevano rumore. Incastrò i suoi occhi nei miei e fu in quel momento che mi accorsi che il colore delle nostre iridi era lo stesso; fui percorso da un impercettibile brivido di vergogna, che fortunatamente fui abile a ricacciare verso la punta dei miei piedi.
<< Io non sono un artista >> decretai.
<< Discordo. Kei Tsukishima, che tu ci creda o no, io l’ho vista. >>
Rimasi confuso da quell’affermazione, dal tono soffuso della sua voce, dalla nauseante distanza che separava i nostri nasi e le nostre fronti. Profumava di buono quell’uomo, di biancheria pulita, di essenze sofisticate.
<< Hai visto cosa? >>
<< La scintilla. >>
<< Io non capisco di che cosa tu stia parlando, Kuroo. >>
Inaspettatamente mi afferrò le mani, poggiandole sulle sue; divaricò leggermente le dita per far combaciare i nostri palmi e i nostri polpastrelli.
<< Immagina di posare le tue mani sui tasti del pianoforte. Immagina la loro consistenza, la loro liscia superficie, i loro colori, lucidi e contrastanti. Che cosa provi? Che cosa senti qui, a livello del petto? C’è qualcosa che brucia, non è vero? C’è qualcosa che corrode le interiora come il veleno più nero, dico bene? Immagina di suonare ciò che più ti piace, immagina di sprofondare in un letto di note irriverenti, immagina i suoni cristallini e i boati tonanti che solo il tuo strumento può produrre. Immagina di perdere il controllo, immagina di non riuscire più a fare la differenza tra te e la musica, immagina di essere travolto senza via di scampo da una turbinante tempesta di piacere. Che cosa senti, in quel momento? >>
<< Non per essere scortese, ma se mi lasciassi… >>
<< Mi chiedo davvero che cosa tu sia, se tu sei il muro che crei. Che cosa senti, Kei? >>
 
Posò le sue labbra sulle mie, dischiudendole appena. Le sue ciglia lunghe sfioravano la mia pelle, il suo respiro batteva dolcemente contro il mio naso. Era morbido baciare, umido e terribilmente innaturale; era imbarazzante, per niente igienico, scomodo e difficile, privo di logicità e di consequenzialità. Ma Dio, cos’erano quei dolci movimenti, quel disperato bisogno di mangiarsi l’un l’altro!
Era esperto Tetsurou, eccome se lo era. Lo percepii dal modo che aveva di cingere i miei fianchi con estrema tenerezza e sensualità, lo capii da come la sua lingua s’introdusse impetuosamente nella mia bocca, vergine ed inesplorata.
Fu il mio primo bacio.
Tentai di muovere le mani, di appoggiarle sulla sua schiena, di sentire il calore del suo corpo confondersi con il mio, ma la bellezza di quel gesto, di quel contatto che con qualsiasi altro essere umano mi avrebbe fatto ribrezzo, rese le mie membra inerti. Ero in completa balia dell’arte. Era accaduto tutto in una sera. Eravamo passati dal perderci in Satie all’intrecciare le mani nei nostri capelli, eravamo passati dal parlarci appena a riversare l’amore l’uno nella bocca dell’altro. Tremando riuscii ad afferrargli una mano e attorcigliai le mie dita affusolate con quelle ruvide ali da demone tentatore. Il tip tap mi aveva conquistato, i suoi occhi scaltri mi avevano ammaliato, tentato, sconvolto, devastato, lacerato, la sua voce mi aveva dolcemente accoltellato, le sue parole lentamente ucciso: mi avevano fatto ascoltare tutto ciò che la musica mi aveva sempre nascosto. Kuroo valeva molto di più di un qualsiasi pianoforte, di una qualsiasi composizione. Kuroo valeva la passione, valeva l’ambizione.
 
Si allontanò dalle mie labbra senza sciogliere la presa della mia mano.
 
<< Io ti ho sempre ascoltato suonare origliando dalla porta retrostante al Caffè. Ti sembrerò estremamente invadente, ti chiedo perdono. Ho iniziato a conoscere la tua musica prima di te e, credimi, non avrei potuto agire in maniera migliore. Io so che cosa vedi quando suoni, Kei, perché lo vedo anche io. So che non rimani qui, so che percorri ampi e sterminati spazi che solo noi conosciamo. Sarai anche solitario ed incredibilmente indisponente, indecifrabile alla vista, oserei dire, ma come sai io ho un buon udito. Io ho visto in te la scintilla. L’ho percepita sentendoti suonare, vedendoti accarezzare tutti quegli innumerevoli tasti. Noi artisti siamo atipici. >>
<< Anche… anche io ho visto la scintilla. >>
<< Ti conosci meglio del previsto. >>
<< Non hai capito: anche io ho visto la scintilla, ma in te. E probabilmente potrei accettare di suonare qui la sera. Ovviamente per il modico compenso. >>
Le nostre labbra tornarono a sfiorarsi, teneramente affamate.
<< E forse non solo per quello. >>
 
Se solo non fosse stato per quel pianoforte, per quello strumento che non avrebbe dovuto significare niente, per la “Gymnopédie no.1” di Erik Satie, ora non mi troverei qui, seduto al pianoforte del Neko Club a ricordare e ad ammirare il mio amante, la mia persona, il mio alter ego, che mentre sfiora il pavimento con sagacia e con stile, con quel sorriso beffardo che tanto amo, non smette di credere in me e in quella scintilla che, a quanto pare, ancora brilla.
 
 
 

 
 
Angolo dell’autrice: * Squillo di tromba * carissime e bellissime persone, sono tornata! <3 Avevo promesso che non avrei tardato troppo per cominciare questo mio nuovo progetto, perciò eccomi qui a condividere le mie nuove follie sul fandom. Innanzi tutto, come state? Io devo dire che sono ultra felice ed emozionata di aver pubblicato la prima One-Shot di questa raccolta. La musica e la danza sono parti integranti della mia esistenza, e per questo mi sono chiesta: che cosa avrebbero ballato i nostri cari figlioli se si fossero ritrovati in un’epoca diversa da quella contemporanea? Kuroo e Tsukki sono stati la mia prima scelta per questo decennio, in quanto ho presto spunto dell’headcanon di Ems di Tsukki pianista e, visto che per i decenni seguenti avevo già progetti ben definiti, ho deciso che gli anni ’10 sarebbero toccati a loro. Cose da sapere su questo capitolo:
- Le musiche a cui mi sono ispirata: “Gymnopédie no.1” di Satie e REMIX di HUBOY (soprattutto); “Charlie Countryman” di Christophe Beck & DeadMono; “Newt Says Goodbye to Tina” di James Newton Howard.
- L’ambientazione di questa OS (come spesso sarà per quelle seguenti, accetto alcune eccezioni) è sfumata ed imprecisa, Americheggiante. Non ho voluto descrivere la realtà giapponese del tempo perché sono piuttosto ignorante in materia, quindi ho deciso di rifarmi all’immaginario comune dell’America di quei tempi e di quelli successivi.
- “<< Mi stai guardando in modo strano >> << Ti sto guardando. >> << In modo strano... >> << In modo strano. >>” è una citazione da “Donne dagli Occhi Grandi” di Angeles Mastretta.
Spero di conoscere al più presto un vostro parere, grazie a tutti quelli che leggeranno o lasceranno una recensione, mi farebbe davvero piacere! <3
Aggiornerò con una frequenza di una settimana e mezza/due circa, in quanto voglio dedicarmi con calma e precisione alla stesura di ogni storia.
_Noodle
 
  
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