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Autore: Sognatrice_2000    03/12/2016    3 recensioni
John Watson, medico militare reduce dalla guerra in Afghanistan, rientra a Londra, la sua città natale, privo di voglia di vivere e senza più alcuna prospettiva futura.
Quando il suo vecchio amico, il Dottor Mike Stamford gli propone di accettare un impiego come assistente domiciliare per assistere un suo paziente malato di SLA, John incontra Sherlock Holmes, bizzarro e affascinante consulente investigativa, e il suo mondo torna improvvisamente ad esplodere di colori ed emozioni.
Purtroppo però non tutte le favole hanno il loro lieto fine...
(Au ispirata al film "Qualcosa di buono")
Storia partecipante al "Welcome to the Johnlock Hell - Sherlock (BBC) Contest" indetto da Chappy_ sul forum di Efp
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Resta anche domani

 

 

E' un pomeriggio grigio e piovoso di fine Dicembre, quello in cui John Watson si decide finalmente a varcare il cancello del cimitero.

Vi era rimasto davanti per quasi un'ora, perfettamente immobile, esalando respiri profondi per farsi coraggio e riuscire finalmente a varcare quel confine. Gocce di pioggia scivolavano sul suo viso con rapidità, i capelli bagnati erano appiccicati al volto, e i vestiti gli si erano incollati addosso come una seconda pelle.

Aveva stupidamente dimenticato l'ombrello a casa, e sicuramente l'indomani si sarebbe svegliato con un brutto raffreddore, ma non gli importava.

John attraversò l'entrata zoppicando, appoggiato al suo bastone, guardandosi intorno incerto, mordendosi il labbro inferiore di tanto in tanto, nervoso. Non era sicuro che quella fosse una buona idea, ma aveva rimandato anche troppo.

Erano passati già due mesi, e lui non era mai riuscito a trovare il coraggio di varcare quella soglia. Ma adesso doveva farcela, nonostante la tentazione di allontanarsi e non tornare mai più si facesse più forte ogni secondo passato lì dentro.

Non scappò, quando finalmente trovò la lapide che gli interessava, un po' isolata rispetto alle altre tombe, al centro di una piccola zolletta di terreno particolarmente curata. Rimase fermo, appoggiandosi al bastone e cercando di ignorare le fitte di dolore alla gamba, mentre leggeva il nome impresso a caratteri dorati sopra il marmo nero.

Sherlock Holmes. Quel nome ridicolo e pomposo che racchiudeva tutto il suo mondo. Un nome che ancora non riusciva a pronunciare senza essere assalito dall'insopprimibile voglia di piangere e urlare fino a perdere la voce.

Era passato ancora troppo poco tempo per trattenere le lacrime, o forse di tempo non ne sarebbe passato mai abbastanza.

John non riuscì a sopportarne la vista un solo istante di più. Strinse i denti per trattenere in fondo alla gola un pianto imminente, e chiuse gli occhi. Per un attimo, un solo, insignificante attimo, riuscì persino a relegare la realtà in un cassetto della sua mente, e a chiuderlo con la chiave di sicurezza.

Ma poi sollevò le palpebre, e scoprì che la realtà si era stufata di aspettare, ed era uscita dal suo rifugio sicuro, come sempre senza chiedere il permesso, annebbiando ogni singola fibra del suo essere di dolore puro e lancinante.

Dovrebbe dimenticare, per il suo bene. Ma non può.

Non avrebbe mai potuto dimenticare Sherlock, ne era consapevole. Perchè nessuno può dimenticare una persona che gli ha dato così tanto da ricordare.

John chiuse gli occhi, un sorriso dolce impregnato di malinconia si posò sulle sue labbra.

E i ricordi di un passato che non sarebbe mai tornato lo avvolgono, cullando il suo cuore in una stretta tenera e crudele.

 

 

**

 

 

Si erano conosciuti nel momento in cui entrambi avevano bisogno di un'ancora di salvezza, di qualcuno che li aiutasse a capire che la vita poteva ancora riservare la più meravigliosa delle sorprese.

John Watson, medico militare reduce dalla guerra combattuta in Afghanistan, era stato congedato quando un proiettile gli aveva trafitto la spalla sinistra.

Trentacinque anni, disoccupato, con pochi soldi in tasca, una zoppia psicosomatica e un disturbo post traumatico da stress, John si aggirava tra le strade di una Londra improvvisamente grigia e ostile, in un mondo di cui non si sentiva più parte, in un mondo dove non era più in grado di riconoscere niente, nemmeno se stesso.

Viveva in un in un monolocale piccolo e scarno, non aveva ancora trovato un lavoro, non c'era nè una moglie, nè una fidanzata che lo stesse aspettando.

Nemmeno la sua famiglia avrebbe potuto aiutarlo in qualche modo.

Suo padre se n'era andato quando lui aveva dieci anni e si era risposato con un'altra donna, sua madre era morta da più di due anni, sua sorella Harriet aveva preferito l'alcool ai rapporti interpersonali e dopo il divorzio di quest'ultima dalla sua compagna Clara, a stento si sentivano al telefono un paio di volte all'anno.

Non aveva nessuno per cui restare, nè una qualsiasi prospettiva su un futuro che da ragazzo aveva sempre immaginato sereno e luminoso, ma che mai come in quel momento gli era apparso tanto terribile e tetro.

E poi, in un tiepido pomeriggio di fine Febbraio, aveva incontrato Mike Stamford, uno dei suoi compagni di università che non vedeva da almeno dieci anni, che adesso era diventato un uomo dalla pancia prominente ma conservava ancora lo stesso sorriso aperto e rassicurante di quando era un giovanotto. Era uscito per fare una passeggiata nel parco a due isolati dal suo appartamento, nella speranza che un po' d'aria fresca avrebbe giovato al suo umore, che sembrava sprofondare giorno dopo giorno, e mai si sarebbe aspettato di ritrovare un vecchio amico in circostanze così inaspettate.

A dire il vero all'inizio non ne fu molto contento, soprattutto quando Mike gli chiese con poco tatto che cosa l'aveva ridotto in quello stato e lui era stato costretto a raccontargli tutti i dettagli della sua spiacevole esperienza nell'esercito.

Per farsi perdonare la gaffe, Mike gli aveva offerto un caffè, e tra una chiacchiera e l'altra, John si era sfogato con lui riguardo ai suoi problemi economici.

Mike aveva riflettuto qualche secondo, poi gli aveva esposto una sua improvvisa idea. "Sai, John, adesso io lavoro in un ospedale qui vicino, il Sant Bartolomews, e proprio oggi ho parlato con un mio paziente. Soffre di SLA e ha bisogno di un... assistente domiciliare, chiamiamolo così, una persona che si prenda cura di lui e che lo assista durante la giornata, per mangiare, lavarsi e altre cose così. Forse non è il lavoro più adatto per te, ma mi hai detto che sei in difficoltà e la paga è molto buona."

Sebbene gli fosse sembrata un'ottima occasione, in un primo momento John era parso incerto e aveva subissato Mike con ogni sorta di domanda. Aveva così scoperto che Sherlock Holmes, questo era il nome del paziente di Mike, soffriva di SLA già da più di un anno, e i sintomi si erano aggravati notevolmente in quell'ultimo periodo, perciò necessitava di assistenza continua.

Viveva da solo, perciò non c'era nessuno che si potesse occupare di lui. Aveva un fratello che però era costantemente assorbito dal suo lavoro, e i genitori erano troppo anziani per badare a lui, e vivevano fuori città. Inoltre, particolare non trascurabile, la famiglia Holmes era molto facoltosa, e Mycroft, suo fratello maggiore e suo tutore ufficiale, era disposto a spendere qualsiasi cifra per il benessere di Sherlock. "Cercano una persona molto qualificata, e tu sei un ottimo medico." Aveva aggiunto Mike. "Secondo me dovresti fare un tentativo. Se l'impiego non ti piace, sei comunque libero di rifiutare."

John non ci aveva pensato due volte. Poteva esssere un compito impegnativo e difficoltoso, ma aveva bisogno di soldi e tutto sommato le premesse sembravano buone.

Chiese a Mike l'indirizzo, e il giorno seguente si presentò a Baker Street, un quartiere abbastanza lussuoso, anche se non in modo esagerato, davanti ad un portone laccato di verde, con inciso il numero "221b."

Gli aveva aperto la padrona di casa, una donna anziana dal volto gentile e dal sorriso dolce, quasi materno, che si era presentata come la signora Hudson.

L'aveva guidato su per le scale, poi aveva aperto la porta dell'appartamento di Sherlock con il suo mazzo di chiavi.

Durante il tragitto in taxi, John si era immaginato un appartamento ordinato e un po' antico in cui abitava un anziano signore distinto ed elegante, un gentiluomo d'altri tempi che l'avrebbe accolto con la tipica cortesia inglese degli uomini di buona famiglia.

Invece si trovò davanti un appartamento incredibilmente disordinato, più della sua vecchia camera da adolescente, con fogli fitti di appunti sparsi ovunque, un microscopio sul tavolo della cucina, un teschio sulla mensola del caminetto, e una quantità incredibile di polvere posata sui pesanti tendaggi ricamati alle finestre.

Se le stanze non fossero sembrate attraversate da un uragano, forse avrebbe potuto trovarlo addirittura gradevole.

Ma ciò che gli fece spezzare il respiro e morire le parole in gola, fu l'immagine che si presentò davanti ai suoi occhi in quel momento.

Davanti ad una grande finestra, girato di spalle, c'era un uomo seduto su una sedia a rotelle elettrica.

Con un unico fluido movimento azionò la sedia, che ruotò su se stessa, avendo udito i suoi passi, e quando gli fu davanti John non potè fare a meno di spalancare gli occhi per la sorpresa.

L'uomo davanti a lui doveva avere circa la sua età, forse era addirittura più giovane, ed era indubbiamente bellissimo, di una bellezza peculiare e unica che non aveva mai notato in nessun'altra persona.

Zigomi alti e aristocratici, naso dritto e leggermente aquilino, pelle lattea, collo lungo e slanciato, labbra rosee con una deliziosa fossetta a forma di cuore, capelli mori e ricci che gli incorniciavano il viso facendolo sembrare un'adolescente. Ma ciò che più lo colpì, furono gli occhi. Erano di un colore indefinibile, a metà tra l'azzurro incontaminato e il verde chiaro, e lo scrutavano affilati come pugnali, carichi di un'energia vibrante che sembrava nascondere un'intelligenza vivida e spaventosa.

Come poteva essere ancora così bello, nonostante la malattia?

"Allora, pensa di starsene lì a fissarmi come un idiota ancora per molto, o possiamo cominciare il colloquio?" Sherlock lo aveva fulminato con lo sguardo, e suo malgrado, John aveva sorriso appena, non riuscendo ad arrabbiarsi veramente di fronte a quel tono eccessivamente melodrammatico, ammaliato dalla voce calda e profonda che possedeva quell'uomo.

Era cominciato tutto così, con un'unica frase che invece di allontanarlo lo aveva avvicinato a quella straordinaria, impossibile, meravigliosa creatura che era Sherlock Holmes.

John aveva scoperto quasi subito che Sherlock era terribilmente orgolioso, in un modo quasi infantile, e suo fratello l'aveva praticamente costretto ad assumere un assistente domiciliare, e nonostante l'adorabile propensione del fratellino a far fuggire indignati tutti i candidati, non si era ancora arreso.

Bastò poco meno di mezz'ora per far capire a John che Sherlock sarebbe stata la persona più maleducata, ignorante e detestabile che avesse mai potuto avere la sfortuna di incontrare.

Dietro a quei lineamenti angelici, si nascondeva uno stronzo lunatico che non aveva la minima considerazione dei sentimenti altrui. Era un vero e proprio genio, doveva concederglielo, dato che aveva dedotto tutto il suo passato di medico militare con una sola occhiata, e stando a quello che diceva, aveva persino collaborato con la polizia di Scotland Yard come consulente investigativo, mestiere che aveva inventato lui stesso. Ma tralasciando questo, era una persona a dir poco irritante, che non aveva la minima idea di come rapportarsi con gli altri.

L'iniziale attrazione di John era del tutto evaporata, sostituita dalla voglia di urlare quando, diretto al frigo per prendersi una bibita, aveva trovato una testa umana sul ripiano.

"C'è... c'è una testa nel frigorifero. Una maledetta testa." Aveva esalato incredulo, di fronte allo sguardo impassibile di Sherlock.

"Ottimo spirito di osservazione, John. Continuo a lavorare ad alcuni casi irrisolti di Scotland Yard, e quella mi serve per studiare la coagulazione della saliva dopo la morte. Qualche problema?"

Aveva sarcasticamente sollevato un sopracciglio, e John aveva capito che tutto quello che nel mondo reale era semplicemente impossibile e assurdo e grottesco, succedeva al 221b, dove la normalità non si era mai degnata nemmeno di bussare alla porta. Perchè quell'appartamento, e soprattutto Sherlock, erano un mondo a parte.

L'idea di andarsene l'aveva sfiorato, doveva ammetterlo, ma aveva bisogno di un lavoro, e non poteva lasciarsene sfuggire uno dove la paga erano cinquemila sterline al mese.

L'ora successiva fu un vero inferno: dopo avergli spiegato che sarebbe dovuto restare a dormire lì ogni notte (e John si maledì in tutte le lingue per non averci pensato prima, dato che l'idea di passare ventiquattro ore accanto a quel tipo così insopportabile gli faceva venire voglia di strapparsi i capelli), Sherlock aveva voluto metterlo alla prova.

Gli aveva chiesto di cucinare qualcosa non solo di commestibile, ma di invitante e appetitoso, dato che non mangiava mai di sua spontanea volontà, sostenendo che la digestione gli rallentava i pensieri e intralciava il suo lavoro. E doveva seguire una dieta ferrea ed equilibrata, data la sua malattia, quindi avrebbe dovuto preparargli qualcosa di salutare e di estremamente buono, senza tralasciare l'aspetto estetico della pietanza.

John, che nonostante l'età adulta non aveva ancora imparato a cucinare decentemente neanche un uovo sodo, aveva distrutto un tagliere, aveva cacciato un urlo poco dignitoso quando aveva trovato un sacchetto di bulbi oculari nel microonde, si era bruciato entrambe le mani e alla fine era riuscito a preparare soltanto una misera insalata, ma tutto sommato era soddisfatto, dato che il suo datore di lavoro aveva giudicato i suoi metodi discutibili ma il risultato tutto sommato apprezzabile.

Fu solo dopo, quando Sherlock stava osservando divertito la sua mediocre pietanza, che capì: se avesse voluto mandarlo via come tutti gli altri, Sherlock l'avrebbe già fatto. Per quale motivo a lui ignoto, aveva visto qualcosa di diverso in lui, e intendeva trattenerlo, e magari persino assumerlo.

Stava offrendo a John la possibilità di decidere, cosa che fu ulteriormente confermata dalla domanda ironica che gli rivolse dopo: "Allora, ha deciso di scappare a gambe levate come tutti gli altri? Non sarebbe certo il primo nè l'ultimo che vuole allontanarsi da me." Le parole erano derisorie, ma la voce tremava un poco.

Fu allora che John capì che dietro quella facciata di freddezza e di arroganza si nascondeva il più grande e il più generoso dei cuori.

Fu allora che John si rese conto che Sherlock stava cercando di salvarlo da quello che sarebbe venuto dopo, ma lui non aveva nessuna intenzione di essere salvato.

Gli posò istintivamente una mano sulla spalla, e sorrise. "Non ho intenzione di scappare. Anzi, ho deciso di restare."

Era la decisione più folle e più sensata che avesse mai preso in tutta la sua vita.

 

 

**

 

 

I primi tempi John pensava che non ce l'avrebbe fatta. Il lavoro era faticoso, estenuante, e Sherlock era peggio di un bambino capriccioso. Doveva alzarsi presto per preparargli la colazione, lavarlo, vestirlo, accompagnarlo fuori, metterlo a letto.

Non era in grado nè di camminare nè di muovere le braccia, ma testardo com'era, a volte si impuntava a voler mangiare da solo, con il risultato che le posate sfuggivano dalle sue mani e il cibo si spargeva dappertutto, oppure pretendeva di farsi il bagno da solo, finendo per scivolare sul pavimento bagnato e procurarsi diversi lividi ed escoriazioni. A volte si lamentava dicendo che il caffè era troppo amaro, altre che le sue camice non erano state stirate bene, altre ancora che voleva indossare la vestaglia blu che era in lavanderia, e rifiutava categoricamente di mettere quella beige, anche se nella stanza faceva freddo, sostenendo che quel colore lo invecchiava.

Nonostante il suo stato fisico sempre più delibitato, insisteva per continuare a svolgere il suo lavoro da casa, e John era diventato il suo fedele assistente, o meglio il suo schiavo personale.

Doveva passargli penne e fogli, digitare messaggi sul suo cellulare, e stare rigorosamente in silenzio quando rifletteva, possibilmente evitando di respirare.

John credeva che l'avrebbe mandato al manicomio, e aveva avuto la tentazione di fare le valigie e andarsene più volte.

Ma poi c'erano le sere in cui lui e Sherlock si sedevano sul divano, uno accanto all'altro, e lui si addormentava facendo ciondolare la testa sulla sua spalla, abbandonato su di lui con la stessa cieca fiducia di un neonato che sprofonda nell'abbraccio della madre. C'erano le volte in cui Sherlock trovava la soluzione di un caso e ridevano insieme, la luce a illuminarne improvvisamente lo sguardo.

C'erano le volte in cui Sherlock lo prendeva in giro, criticando i maglioni colorati che a lui piaceva indossare, e un mezzo sorriso divertito affiorava sulle sue labbra.

John capì che, malgrado tutti i suoi difetti, malgrado fosse antipatico, egoista ed egocentrico, ogni mattina si alzava sperando di vedere quel sorriso. Capì di essersi innamorato dell'essere umano più singolare e più straordinario del pianeta.

Poi la realtà lo investiva di colpo, e sentiva un macigno abbattersi su di lui. Non doveva affezionarsi troppo, diceva la sua parte razionale, perchè la malattia continuava ad avanzare e le speranze di sopravvivere, per Sherlock, si stavano riducendo drasticamente.

Ma il suo cuore non era d'accordo.

Una volta sua sorella Harriet gli aveva detto che il cuore non si sbagliava mai, e lui le credeva in quel momento come non le aveva mai creduto prima.

Così ogni giorno, silenziosamente, gli rivolgeva una preghiera che implorava di essere ascoltata. "Resta. Resta anche domani."

 

 

**

 

 

Tre mesi dopo, John si era ritrovato a pensare che non avrebbe scambiato quella vita con un'altra più ordinaria e rassicurante per niente al mondo.

Grazie alla sola presenza di Sherlock, la sua zoppia era scomparsa, e gli incubi sulla guerra si erano drasticamente ridotti.

Non che la loro convivenza fosse tutta rose e fiori, anzi, John poteva contare più momenti bui che attimi di felicità, ma alla fine ognuno di quegli attimi lo ripagava di ogni sforzo che compiva.

La vita con Sherlock non era mai noiosa, al contrario John continuava a stupirsi della vitalità che il consulente investigativo aveva conservato nonostante la malattia che lo divorava giorno dopo giorno, un pezzo alla volta.

Ammirava la sua mente e non aveva mai fatto un mistero. Lo considerava geniale, fantastico, straordinario, e non smetteva mai di farglielo notare. A volte le sue strabilianti deduzioni si rivelavano salvifiche, come quando aveva capito che due bambini vittime di un rapimento si nascondevano in una vecchia fabbrica di dolci abbandonata soltanto grazie ad un'impronta, e i poliziotti li avevano salvati dalla morte appena in tempo. A volte si rivelavano esilaranti, come quando, annoiato a morte, Sherlock se l'era preso con la loro ignara padrona di casa che era venuta a portargli il tè, deducendo da una briciola sul suo vestito che era stata dal panettiere, un dongiovanni che aveva almeno due mogli in giro per il mondo.

Ma John non si stancava mai di ascoltare le parole che uscivano con incredibile fludità dalla sua bocca, non si stancava mai della luce soddisfatta che illuminava i suoi lineamente sempre rigidi e austeri, conferendogli l'entusiasmo di un bambino in un negozio di caramelle.

Continuavano a risolvere insieme ogni sorta di caso affidatagli dall'ispettore Gregory Lestrade, l'unico poliziotto di Scotland Yard disposto a sopportarlo(dopo che Sherlock aveva poeticamente definito l'intero corpo di polizia come un branco di imbecilli senza limiti c'era poco da stupirsi) ed erano diventati praticamente inseparabili.

John aveva addirittura aperto un blog online, nel quale descriveva le loro avventure. Sherlock ovviamente l'aveva giudicata un'idea stupida: "Ho già un mio sito, "La scienza della deduzione", ricordi?"

"Nel quale elenchi duecentoquaranta tipi di tabacco, certo. Nessuno legge il tuo sito, Sherlock. E poi è questa la tua vita, quella che sto racontando io, non l'elenco di duecentoquaranta tipi di tabacco."

Alle parole di John, Sherlock aveva aggrottato le sopracciglia rivolgendogli il suo migliore sguardo assassino. "Duecentoquarantatrè." Aveva precisato, ed era rimasto in silenzio per il resto della giornata, un broncio seccato a incupirgli il viso.

John commetteva l'errore di esaltare la sua umanità e i suoi difetti nei suoi racconti, e Sherlock non poteva sopportarlo. Si era offeso a morte quando, con un certo stupore e un certo divertimento, John gli aveva fatto notare che era impossibile che non conoscesse il Sistema Solare, naturalmente dopo aver reso pubblica quell'imbarazzante verità.

Quella volta Sherlock non gli aveva rivolto la parola per quasi due giorni, rifiutando di alzarsi dal divano sia per mangiare che per lavarsi.

Eppure, più il tempo passava, più John si rendeva conto che non poteva più fare a meno di lui, dei suoi silenzi irritati, dei suoi bronci improvvisi, dei rari ma indescrivibili sorrisi.

E faceva paura. Ed era meraviglioso.

 

 

**

 

 

Passarono altri sei mesi, e le condizioni di Sherlock precipitarono notevolmente. Aveva perso peso, e il suo fisico già magro e slanciato era divenuto un mucchietto di ossa, il viso un insieme di lineamenti scavati dal pallore molto più innaturale del solito.

Non riusciva più a respirare senza essere scosso da violenti colpi di tosse, e la sua voce, quella voce che John tanto amava, ormai era in grado di uscire soltanto in rantoli confusi e scoordinati.

Ma John riusciva sempre a capire quello che diceva.

Si era creato uno strano rapporto, tra loro. Avevano vissuto praticamente in simbiosi in tutti quei mesi, e John sentiva di considerarlo non più una persona da assistere, ma il suo migliore amico, l'uomo migliore che avesse mai conosciuto.

Sapeva che oltre all'affetto che provava per lui c'era qualcosa di più profondo, ma non aveva la forza di accettarlo.

Sherlock stava morendo, lentamente. Glielo stavano portando via, e lui non poteva accettare di perdere il suo migliore amico, tantomeno l'uomo che amava come non aveva mai amato nessuno in tutta la sua vita.

Come medico ne era consapevole, come uomo faceva una fatica immane ad accettarlo. Aveva tentato di spingerlo a sottoporsi ad alcune cure sperimentali, ma lui non ne aveva voluto sapere.

Sherlock aveva sempre visto la malattia come una prigione, oltre che una continua sofferenza. Aveva accettato il suo destino serenamente, sperando che la morte gli avrebbe finalmente restituito la dignità che aveva perso.

"Andrà tutto bene." Gli ripeteva John, incessantemente, non tanto per convincere lui quanto piuttosto se stesso.

Sherlock scuoteva la testa, un sorriso amaro a piegargli gli angoli della bocca. "Non farlo." Lo supplicava debolmente.

"Cosa?"

"Quello che fanno tutti. Non mentire."

John sapeva che Sherlock aveva sempre affrontato razionalmente la sua malattia. Ma sapeva anche che lui non sarebbe stato in grado di affrontare in modo altrettanto razionale la sua morte.

La sua preghiera, evidentemente, era destinata a rimanere inascoltata.

 

 

**

 

 

Quando Sherlock non fu più in grado di respirare da solo, venne ricoverato in ospedale, ma non fu messo sotto ventilazione artificiale.

Quella decisione spettava a lui, o meglio, spettava al suo tutore.

John aveva ricevuto quella nomina inconsapevolmente, e legalmente adesso era responsabile del suo destino più di quanto non lo fossero i suoi genitori.

Mentre guardava i volti trasfigurati dalle lacrime di Violet e Siger Holmes, gli occhi lucidi di Mycroft, gli sguardi quasi imploranti dei suoi amici e collaboratori, la giovane patologa Molly Hooper e l'ispettore Lestrade, riuniti tutti al suo capezzale, John pensò che non poteva portare via un figlio, un fratello, un amico a quelle persone.

Poi guardò il volto di Sherlock, disteso su un letto d'ospedale, fragile come non lo aveva mai visto prima, le palpebre abbassate docilmente e la mascherina dell'ossigeno a coprirgli il viso esausto.

Doveva rispettare la sua volontà, a costo di dover subire gli sguardi di biasimo dei suoi parenti, a costo di perderlo per sempre.

Disse ai dottori di portarlo a casa, e firmò per la sua dimissione.

 

 

**

 

 

Durante il giorno vennero diverse persone a fare visita a Sherlock. Nessuno lo diceva apertamente, ma tutti gli stavano dicendo addio, tutti erano venuti a porgergli il loro ultimo saluto, portando con sè affetto, lacrime, sorrisi, parole gentili.

Sherlock non era stato amato da molte persone, rifletteva John.

Ma era stato amato profondamente, era quella la cosa che contava più di tutte.

 

 

**

 

 

Quella notte, nel comodo letto dell'appartamento di Baker Street, John era steso accanto a lui. Sapeva che non avrebbe visto l'alba del giorno dopo, e voleva trascorrere con lui ogni secondo che gli era possibile. Voleva dirgli tante cose, ma le lacrime avevano formato un nodo fastidioso nella sua gola, che gli impediva di pronunciare qualsiasi sillaba. Lo tenne stretto a sè sforzandosi di trattenere le lacrime per un tempo indefinito, poi Sherlock si mosse contro di lui, e John capì che voleva dirgli qualcosa.

"Che c'è?"

"Sai, John, la prima..." La voce gli usciva con incredibile difficoltà, il respiro era accellerato, le parole appena udibili. "Fin dalla prima volta che ti ho visto, ho capito..." Un colpo di tosse. "Ho capito che tu non mi vedevi per com'ero, ma ho sempre..." Un altro colpo di tosse, stavolta più violento. Un lieve sorriso gli increspò le labbra, suo malgrado. "Da allora ho desiderato sempre, ogni momento, essere l'uomo riflesso nei tuoi occhi."

Spietato e sincero, dolce e crudele come soltanto lui sapeva essere. Un'ondata di emozione rischiò di travolgere John, e un sorriso gli nacque spontaneo sul volto, mischiandosi alle lacrime che, incontrollate e silenziose, avevano cominciato a bagnargli le guance. "Sherlock..." Mormorò con voce tremula, ma lui lo interruppe.

"Fammi... fammi finire, John. Desidero soltanto... ringraziarti." Sherlock emise un respiro profondo per cercare di far uscire quanta più voce possibile. "Grazie per la tua amicizia. Non avrei mai pensato di avere un amico, non ne ho... non ne ho mai avuti, eccetto te. Tu sei la persona più saggia e... coraggiosa che abbia mai conosciuto, e mi hai permesso di essere tuo amico. Non avrei mai creduto che fosse pos-possibile..." John gli posò una mano sulle labbra per impedirgli di affaticarsi ancora, sopraffato da questo nuovo Sherlock, così sincero e disarmante, che esternava le sue emozioni con così tanta facilità.

Lo amava, adesso non aveva più paura ad ammetterlo. Lo amava da morire. "John... aspetta. C'è qualcos'altro che devi sapere. E' una cosa che volevo dirti da tanto tempo, ma non ho mai... non te l'ho mai detta. E' improbabile che domani mattina sia ancora vivo, perciò voglio dirtela adesso. Io ti..." Stavolta l'attacco di tosse fu così violento che John non si preoccupò di fargli concludere la frase. La voce di Sherlock non era più in grado di uscire ormai, ma a John non importava.

Qualunque cosa avesse voluto dirgli, in quel momento aveva perso la sua importanza. Era il suo turno, adesso.

"Anch'io devo ringraziarti. E tu dovrai incassare il colpo e tacere, per una volta." John sorrise, ma la sua voce tremò mentre gli occhi di Sherlock lo fissarono stanchi ma curiosi, ancora straordinariamente vigili come il primo giorno in cui l'aveva visto.

Il suo cuore si strinse in una morsa di tenerezza. Non c'era più posto per la paura, l'imbarazzo, l'incertezza. Doveva dirgli quello che provava adesso, ora che era stretto tra le sue braccia, o non l'avrebbe più fatto.

"Prima di conoscerti ero così solo... e ti devo tantissimo. Tu mi hai dato tutto, mi hai dato una nuova vita, mi hai dato molto più di quanto meritassi." Si schiarì la voce, leggermente a disagio. Non aveva mai detto parole simili a nessuno, prima di quel momento.

"E conoscerti è stata la cosa migliore che potesse succedermi. Mi sento l'uomo... l'uomo più fortunato del pianeta, perchè ho avuto la possibilità di conoscerti." La voce si spezzò improvvisamente fino a tramutarsi in singhiozzi. Discreti e contenuti il più possibile, ma pur sempre singhiozzi di un pianto carico del dolore più terribile che potesse provare un essere umano.

Appoggiò la testa sul petto di Sherlock, sentendosi impercettibilmente rassicurato dal battito del suo cuore che poteva udire attraverso la stoffa del pigiama. Sherlock era ancora lì, tra le sue braccia, ancora vivo, ancora bellissimo.

Non avrebbe mai smesso di essere bellissimo ai suoi occhi.

Senza accorgersene lo strinse, lo strinse con tutta la forza di cui era capace, affondando il viso nel suo collo mentre lottava disperatamente per non far uscire altre lacrime. "Ti prego, non farlo." Lo implorò in un sussurro, completamente privo di controllo, completamente illogico. "Non andare via. Resta... resta ancora un po'. Solo un altro po'."

Sherlock non poteva ricambiare la sua stretta, ma sorrise appena in risposta, gli occhi carichi di un evidente rammarico. "Mi piacerebbe tanto, John." Riuscì a esalare, con le ultime forze che gli rimanevano. "Io e te contro il resto del mondo... sono certo che sarebbe stato meraviglioso."

John si rese conto che quella frase era un addio, che portava con sè un carico di speranze distrutte, sogni infranti su un futuro insieme che non avrebbero mai potuto vivere.

Non era ancora pronto ad accettarlo, non era ancora pronto a lasciarlo andare.

Gli baciò le palpebre socchiuse, gli zigomi, il mento, sussurrandogli che era accanto a lui, che ci sarebbe sempre stato.

Lo ripetè per tutta la notte, anche se Sherlock, vinto dalla fatica, aveva ormai chiuso gli occhi per l'ultima volta da molte ore, l'ombra di un leggero sorriso a illuminargli ancora il volto.

 

 

**

 

 

John pensò a tutto questo, davanti alla tomba di Sherlock Holmes, mentre si sforzava di trovare le parole giuste per un ultimo saluto.

Aveva nostalgia di ogni secondo trascorso insieme a lui, di ogni prezioso attimo vissuto al suo fianco.

John aveva riso, aveva pianto, si era divertito e si era arrabbiato con lui. Con lui aveva vissuto i mesi più belli della sua vita, e adesso che non c'era più la sua esistenza si era improvvisamente svuotata di ogni significato.

In quei giorni senza Sherlock, la città aveva perso i suoi colori, i suoi profumi, i suoi sapori, e John si era aggirato a lungo per le strade come un vagabondo, in cerca del colore dei suoi occhi, della grazia dei suoi movimenti, della morbidezza dei suoi ricci, del calore delle sue mani affusolate.

Lo cercava in ogni persona, in ogni volto, in ogni gesto, ma non lo trovava mai.

Si era lasciato crescere i baffi, nella speranza di sentire la voce di Sherlock che lo prendeva in giro. "Devi raderti, John, ti invecchiano. Non posso certo farmi vedere in giro con un anziano." Ma il rimpovero non era mai arrivato.

Aveva appeso in anticipo le decorazione natalizie, sperando di sentire lo sbuffo irritato di Sherlock che si lamentava di quanto fosse idiota quella festività. Ma le stanze continuavano ad essere immerse nel silenzio, un silenzio quasi surreale a cui le sue orecchie non erano più abituate.

Alla fine, John aveva dovuto accettare che Sherlock non sarebbe più tornato, e che avrebbe dovuto trovare la forza per dirgli addio.

Una persona a cui teneva se n'era andata, ma aveva ancora a disposizione il resto del mondo, continuavano a dirgli tutti i suoi amici. Ma cosa se ne faceva del resto del mondo, quando aveva conosciuto il meglio che poteva offrirgli e poi se l'era visto portare via per sempre?

John pensava a tutto questo, davanti alla sua tomba, pensava a quanto gli era mancato e a quanto gli sarebbe mancato in futuro, e si rese improvvisamente conto che ogni parola, ogni gesto sarebbe stato troppo poco. C'era solo una cosa, un'ultima cosa che doveva fare, poi l'avrebbe lasciato riposare in pace.

Appoggiò una mano sul marmo freddo, gli occhi già lucidi. "Sherlock, devo dirti una cosa." Cominciò, a bassa voce. Sherlock dormiva raramente. Non poteva disturbarlo. "Una cosa che tu giudicheresti stupida, stucchevole e banale, ma che ho sempre desiderato dirti. Non l'ho mai fatto, e anche se non puoi sentirmi, ho bisogno di dirtela adesso." Esalò un respiro profondo. "Ti amo. Ti amo più di qualsiasi altra persona al mondo."

La pioggia aveva smesso di cadere.

Lentamente, stava sorgendo l'arcobaleno.

 

  
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