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Autore: Morgana89Black    06/12/2016    1 recensioni
Severus Piton accetta di tornare a fare la spia per Silente. Va dal Signore Oscuro per riconquistare la sua fiducia. Cosa accadrebbe se dopo questi fatti qualcuno dal passato tornasse nella sua vita?
Dal primo capitolo:
Un lampo di luce ed un taglio poco profondo, ma doloroso si apre sul mio viso, sento il sangue sgorgare lentamente. Al primo se ne aggiungono altri, su ogni parte del mio corpo: gambe, braccia, petto. Non sono così profondi da uccidermi, ma lo sono abbastanza per torturarmi.
Dal quarto capitolo:
Non riuscivo ad evitarmi di tornare regolarmente ad osservare la sua figura armoniosa dalla quale, nonostante tutto, mi sentivo attratto. La contemplai a lungo mentre, sicura di sé, con gesti precisi e misurati portava a compimento una delle pozioni più complicate con cui una ragazza della sua età poteva venire a contatto.
Dal settimo capitolo:
"Sei ubriaco, Severus! Solo per questo ti dirò quel che sto per dirti: in un altro mondo, forse, ti avrei concesso almeno una notte con me", sorrideva placidamente mentre pronunciava quelle parole.
Dall'ottavo capitolo:
Lei non risponde, mi volta le spalle. Sta tremando, è evidente. Ed io non so cosa fare. Se ora l'avvicinassi mi respingerebbe...
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Famiglia Black, Famiglia Malfoy, Narcissa Malfoy, Nuovo personaggio, Severus Piton | Coppie: Draco/Astoria, Lily/Severus, Lucius/Narcissa, Lucius/Severus, Severus/Narcissa
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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Verde disprezzo.
 

Sono tornato ad Hogwarts con l'amaro in bocca quella mattina. Lasciare il tuo corpo caldo alle prime luci dell'alba è stata per me una sofferenza maggiore di quanto avrei mai potuto pensare. È stato rassicurante stare al tuo fianco, ho dormito come non avevo mai fatto prima, non negli ultimi anni almeno. Mi hai reso sereno, almeno per qualche ora. Sentire il tuo respiro caldo sfiorarmi l'orecchio era per me una certezza. La sicurezza di saperti viva, nonostante l'apparenza, mi ha tenuto in vita.

Il tuo corpo straziato da ferite che non sono stato capace di riconoscere mi ha sconvolto. Non riuscire a comprendere cosa o chi ti ha ridotto in quello stato mi ha lasciato bramoso di conoscenza. Odio non sapere, è sempre stato così.

Tu lo sai: i libri sono sempre stati i miei unici amici, prima di lei, prima di Lily. Sono stati il mio unico conforto anche dopo di lei, dopo che l'ho persa, dopo la sua morte. Ho passato, pertanto, diverse ore in biblioteca, vagando fra gli scaffali senza motivo, senza saper bene cosa cercare, cosa aspettarmi. Senza la certezza di dove cercare.

Ero nel mio studio ed era sera, quando Albus Silente ha bussato alla mia porta. Non viene mai nel mio ufficio. Solitamente se serve vado io da lui. Quando ho visto la sua figura tranquilla dinanzi a me, nell'antro della porta, il mio cuore ha mancato un battito. L'unica altra volta in cui ricordo che sia mai venuto da me è stato quando mi ha annunciato la morte di Lily e James Potter. Quell'unica volta la associo al giorno più orrendo della mia intera esistenza.

È entrato, cauto come se stesse violando la mia intimità e gli son stato grato per le sue premure. Si è seduto con la sua innata serenità davanti al mio camino spento, illuminandolo di scoppiettanti fiammelle gialle. Un piccolo moto di irritazione mi ha colpito, quando il mio ufficio si è riscaldato, sotto il gentile tocco del fuoco. Non è mia abitudine concedermi questo piccolo lusso. Sono troppo abituato a rimanere rintanato nelle tenebre, per far entrare il sole nella mia vita. Sono un'ombra della notte, che rischia di essere disfatta dalla luce.

"Dovresti accendere il camino ogni giorno, Severus. Ti farebbe bene sentire il calore del fuoco, ed inoltre rende più ospitale l'ambiente, non trovi?".

"Non mi sembra", la mia voce è piatta, ma penso che lui abbia compreso gli sforzi che sto facendo per non rispondergli male e spegnere di nuovo quella piccola fonte di vita che non bramo minimamente.

"Mi offriresti un bel té, caro mio?", la capacità dell'uomo di sembrare sereno, se non addirittura felice, in qualsiasi situazione, mi irrita notevolmente, ma ormai ho imparato a non curarmene più.

Con gesti misurati faccio comparire due tazze fumanti, il colore della bevanda tradisce la differenza fra le due miscele. Il mio è un earl gray, l'unico té che, almeno a mio parere, vale la pena di sorseggiare. Il suo non saprei neanche come definirlo, una miscela dolciastra di frutta secca, té nero e erbe. Non riesco ad immaginare qualcosa di più disgustoso, ma a lui piace e ormai, dopo tutti questi anni, non ho neanche la necessità di chiedergli cosa desideri, lo so già. Nonostante la sua imperscrutabilità ed i suoi misteri, è l'uomo che conosco meglio.

Mi siedo dinanzi a Albus ed afferro la mia tazza, come fosse la mia unica ancora di salvezza. Non so cosa aspettarmi, non so perché è qui e lui non sembra intenzionato a parlare. Ci studiamo a lungo, come due falene nella notte che si osservano dai loro nascondigli, convinte che nessuna delle due potrà attaccare l'altra per prima.

"Non sono qui per darti brutte notizie", un flebile sollievo si espande nel mio corpo, da qualche parte, qua sul petto, in un luogo che neanche ricordavo esistesse, "Cassandra si è svegliata qualche mattina fa. Mi è giunta notizia oggi dall'ospedale. Hanno fatto i necessari accertamenti e sembra che, nel complesso, stia bene", il mio cuore perde un battito o forse due.

Mi guarda, come se fosse in attesa di una mia qualche reazione. Io non so cosa si aspetti da me, ma di sicuro erra nei suoi desideri. Il calore che sento laggiù, vicino allo stomaco, è il massimo della gioia che posso esprimere.

Già, il massimo che posso mostrare, non che voglio. Perché la verità è che ormai non sono più capace di essere felice. Non lo so fare. Non so sorridere in un modo che non dimostri disprezzo. Non so dimostrare alcun sentimento, non sono capace. Non ci riesco. È oltre le mie possibilità. Sono ghiaccio, pietra dura.

Non chiedo altro. Se lo facessi, dimostrerei un interesse che non posso mostrare.

"Mi chiedevo se potessi farmi un favore", il mio sopracciglio si alza quasi in automatico, mentre mi chiedo se non lo sto già facendo, "vorrei che portassi Antares da sua madre questo pomeriggio".

"Portare Antares da sua madre?", lo guardo, come se mi avesse chiesto di ucciderlo. A dir la verità, probabilmente, avrei trovato meno strana questa di richiesta, "sei impazzito, Albus?", la mia voce trasuda sconcerto. Dev'essere davvero ammattito, o forse sono io che sono uscito di senno e tutta questa conversazione non sta avvennendo, se non nella mia mente bacata.

"Non sono affatto impazzito. Tu e Cassandra...".

Mi alzo, colpito in pieno dalle sue parole, "io e Cassandra cosa?", la mia voce trema mentre gli pongo la domanda che, dentro di me attende attenzioni da parte mia da tanto tempo, un quesito a cui io non voglio rispondere ed a cui non voglio che altri lo facciano.

"Severus, calmati. Mi pareva solo che il vostro rapporto fosse sufficientemente... amichevole", sottolinea questa parola come se neanche lui la credesse adatta a descrivere questa linea sottile, questo filo di seta che mi lega a quella donna, "da permetterti di avere un comportamento altrettando gentile con suo figlio".

"Vorresti davvero che accompagnassi il bambino da sua madre?".

"Sì, vorrei davvero che lo facessi".

"E non pensi che la cosa potrebbe, non so... sembrare strana? Se qualcuno ci vedesse?".

"Sei un suo insegnante", la risposta a lui sembra così ovvia che mi fa quasi dubitare della correttezza delle mie osservazioni e dei miei timori, "e sei amico di sua cugina e della famiglia di lei. Mi sembra che non ci sia nulla di strano nella tua... accortezza nei suoi confronti", rimarca queste ultime parole come se si aspettasse davvero che, in questo modo, mi si incollassero addosso rendendomi diverso.

Non posso proprio evitare di sospirare, sconfortato. Quest'uomo non cambierà mai e non serve a nulla che io mi irriti per le sue stramberie.

 

"Severus... dovresti sorridere di più. È Natale", il sorriso dell'uomo era giocoso, come quello di un bambino a cui è appena stato consegnato il regalo tanto agognato,"non ti mettono allegria le decorazioni?".

"Dovrei gioire di alberi addobbati, caramelle e dolciumi di diverso genere?", la voce dell'uomo al suo fianco era amara come fiele, tagliente come una lama appena affilata, rovente come lava eruttante.

"Dovresti gioire dei sorrisi degli studenti, delle vacanze imminenti. Dovresti gioire sentendo le carole per i corridoio della scuola, quardando la neve cadere lenta oltre le finestre. Dovresti gioire del calore del fuoco nei caminetti accessi, della cioccolata bollente sui tavoli delle case".

"La gioia non fa per me, Albus! Continua pure a divertirti tu al mio posto", senza aggiungere altro era andato via, lasciano l'altro da solo a chiedersi se un giorno qualcosa o qualcuno sarebbe riuscito a farlo ridere di nuovo.

 

Sono passati anni da quel giorno, eppure è ancora impresso nella mente ogni dettaglio di quella conversazione. Lo sguardo di Albus che sembra deridermi oggi come dieci anni fa. La sua capacità di farmi sentire inadeguato ed infantile, come un bambino che mette il broncio, è sempre presente e sempre più forte.

"Bene. Allora è deciso. Partite alle cinque", si alza chiudendo un discorso che mi sembrava ancora lontano da una fine ed esce dal mio ufficio così in fretta da non darmi il tempo di replicare.

La verità è che abbiamo giocato una partita a scacchi con le mosse già scritte, da lui. Mentre io manovravo le mie pedine lui sorrideva consapevole che ogni quadrato da me conquistato non era altro che un punto per il suo re.

Potrei riconrrerlo, presentarmi nel suo ufficio, dirgli che non intendo portare quel bambino a Londra. Potrei. È un mio diritto. Ma cosa riuscirei mai ottenere? Una conversazione estenuante e sconveniente. Un discorso che non voglio affrontare.

Non posso far altro che rassegnarmi a prendermi carico di quel moccioso insolente e sperare che non mi pentirò di averlo fatto.

 

È con la consapevolezza che non sarà un viaggio piacevole e che le prossime ore saranno, forse, le più difficili della mia vita che mi appresto ad attendere Antares davanti al portone d'ingresso della scuola. Mancano pochi minuti all'ora stabilita ed io mi sento come uno studente al primo esame ed è una sensazione che proprio non mi piace.

Un rumore mi scuote dal mio torpore e lo vedo. Cammina in silenzio e con gli occhi bassi verso di me. In questo momento sembra il bambino che è. Dimentico che ha solo dodici anni. Dimentico che è solo un ragazzo a cui hanno strappato l'infanzia di mano. Un ragazzo che è stato portato via da casa propria, a cui sono stati tolti gli amici. Un bambino che non ha idea di cosa gli riservi il mondo, che non sa quanto sarà duro il suo futuro. Un bambino che non conosce veramente il destino infausto che la sua famiglia gli ha riservato, fra responsabilità, decisioni difficile e, soprattutto, bivi che potrebbero cambiare la vita di un'intera discendenza magica. È l'ultimo, il più giovane di discendenze di una della famiglia di maghi più potenti d'Inghilterra. Non ne porta il cognome, ma è un Black e, come ogni altro membro di questa famiglia, dovrà affrontare il mondo e le aspettative ed i pregiudizi di questo.

Mi guarda cauto, prima di salutarmi. Continua ad osservarmi, come se non sapesse che tipo di reazione aspettarsi da me.

"E' stato avvisato della nostra destinazione?".

"Sì, professore".

"Le hanno detto che sua madre si è svegliata?".

"Sì, professore", le sue risposte sono telegrafiche. Mi sta studiando e probabilmente ricorda ancora il nostro ultimo incontro e l'esito poco piacevole dello stesso.

"Andiamo. Le regole sono semplici, signor Selwyn: poche parole e passo svelto. Non ho tempo da perdere", forse sono più duro del necessario, ma davvero non vorrei essere qui, con lui, ora.

Mi avvio verso i cancelli di Hogwarts, verso l'esterno della scuola, unico posto in cui potremo smaterializzarci. E durante il tragitto spero solo che per lui non sia la prima volta, perché proprio non ho voglia di dovermi anche prendere cura di un ragazzino alla sua prima smaterializzazione.

Mi segue, senza dire una sola parola. Lo sento dietro di me, silenzioso come un'ombra, ma presente come un macigno posto sul mio stomaco: è la personificazione del senso di colpa.

Per cosa poi, non lo so. Forse perchè ho una relazione con sua madre. È questo che abbiamo, no? Una relazione. Che parola strana. Difficile da comprendere per chi come me è sempre rimasto in disparte, lontano da tutto e da tutti. O forse perché so che avrebbe necessità di qualcuno che lo conforti, ma io sono certo solo di una cosa: non sono io la persona che può confortarlo.

"Si appoggi al mio braccio. Ci smaterializzeremo dentro il San Mungo, così eviteremo problemi e il rischio di essere visti".

Non dice nulla, non pone domande. Sento la sua mano sul mio braccio, come un presenza estranea, difficile, incomprensibile. È come una malattina, un virus a cui non sono abituato, a cui non sono capace di resistere, ma da cui vorrei guarire.

Il famigliare strappo nei pressi dell'ombelico mi colpisce proprio mentre penso che il corpo accanto al mio è la prova del suo tradimento, della sua crudeltà. Lei mi ha illuso e poi abbandonato. Con lei ho ceduto a sentimenti che neanche pensato potessero nascere nel mio cuore e nella mia mente, e poi la sua pugnalata dritta al petto, precisa, sicura, determinata. Ancora sento il senso di vuoto di quella mattina. La rabbia provata alla vista di quella foto.

Sono passati anni eppure, ancora oggi, la odio per quell'illusione, per avermi fatto assaporare qualcosa di molto simile alla felicità, all'appagamento, per poi togliermi ogni cosa. Una parte di me non l'ha mai perdonata e, forse, non lo farà mai.

In pochi secondi l'ambiente accanto a noi cambia. Il prato intorno ad Hogwarts lascia il posto agli asettici muri di quest'ospedale. Volto il viso verso Antares. Sembra scosso e il suo colorito non è dei migliori, ma pare che sia tranquillo e, soprattutto, non stia per rimettere sulle mie scarpe. Per fortuna. Per lui ovviamente.

"Professore", stavo già camminando lungo il corridoio, quando la sua voce mi ferma. Per la prima volta da quando lo conosco sembra implorare. Mi volto a guardarlo e vedo preoccupazione nei suoi occhi. Il timore lo tradisce e le sue mani tremano impercettibilmente, ma sono troppo esperto nel notare i segni di debolezza di un uomo, per non vedere.

Non parla, mi guarda. Sospiro rassegnato, tornando sui miei passi, "sì, signor Selwyn?".

"Mia madre... lei...", non mi guarda più negli occhi, osserva le sue mani traditrici, "lei... in che condizioni è?".

Avrei dovuto aspettarmi questa domanda, ma sono comunque impreparato. L'ultima volte che l'ho vista sembrava morta... forse questa non è la risposta giusta. "Lei è sveglia. È stata ferita, ma ora sta meglio. Ed è sveglia. È l'unica cosa che conta", alza gli occhi sul mio viso e vedo il sollievo nelle sue iridi verdi. Un verde così diverso da quello che tormenta i miei sogni. Sembra quasi ringraziarmi ed io non sopporto il suo sguardo grato. Devo voltarmi e ricominciare a camminare. Non posso sopportare il suo viso. Fa male. Non so perché, ma fa male.

Lei mi guardava con la stessa gratitudine, quando la difendevo da sua sorella. Lei. Lei che oggi mi guarderebbe con odio e disprezzo. Lei che una volta mi ha guardato con odio e disprezzo. Non posso pensare a Lily. Non ora.

I miei passi rimbombano nel corridoio vuoto ed io ho la sensazione di camminare verso un destino che non conosco. Inconsapevole. Incapace di conoscere una risposta all'unica domanda che mi pongo ogni giorno: domani sarò ancora qui? Domani cosa accadrà.



 

***




Mi scuso tantissimo per il ritardo nella pubblicazione del capitolo, purtroppo è stato un periodo molto pieno. Cercherò di essere più puntuale.
Ringrazio molto chi mi sengue con costanza e chi mi fa sapere sempre il suo parere, soprattutto Manu75.
Aggiornerò presto, lo prometto!

   
 
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