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Autore: WillofD_04    07/12/2016    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Sospirai, sollevata più che mai.
«Non sai quanto sono contenta di vederti tornare ai fornelli» confessai al mio interlocutore «un’altra insalata di cavoli bolliti e avrei preso a pugni Bepo».
Ryu rise di gusto e mi disse di non preoccuparmi, perché ci avrebbe pensato lui da quel momento in poi. Questo era assolutamente rassicurante.
L’avevo dimesso due giorni prima, ma dal momento che la ferita non si era ancora rimarginata del tutto gli avevo intimato di rimanere a letto a riposarsi. Ora però era più in forma che mai ed era pronto e determinato a riprendere possesso della sua amata cucina.
«Bentornato tra noi» affermò Law sorridendo distrattamente. Solo in quell’istante notai che l’intera ciurma si era radunata nella stanza.
«Ryu! Siamo felicissimi di vederti di nuovo in cucina!» gridò Shachi, e mi parve di notare che lui e il suo compare avevano gli occhi lucidi dalla felicità.
Nei giorni precedenti mi avevano ringraziato mille volte e mi avevano anche tartassato di domande su quando il cuoco avrebbe potuto riprendere la sua attività. Per fortuna nessuno aveva più detto una parola su quanto accaduto alla Locanda del Fiore, a Nyusu. Era meglio dimenticare e avevo avvertito che avrei fatto a pezzi chiunque avesse osato riportarmi alla mente o divulgare al resto della ciurma l’accaduto.
«Fate silenzio. Vi ho chiamati per dirvi che sbarcheremo. Tutti» annunciò il capitano «abbiamo un lavoro da fare. Tra un’ora vi voglio sul ponte».
Ci fu un mormorio generale. Da quando ero lì questa era la prima volta che saremmo tutti scesi a terra. Non sapevo cosa aspettarmi, semplicemente perché non avevo idea di come funzionasse. Di che lavoro parlava Law? Non ero sicura di volerne venire a conoscenza. Certe volte, quando si trattava di lui, era meglio rimanere nell’ignoranza. A quanto pareva lo avevano capito anche i miei compagni, e molto prima di me. Quello che mi importava era che potevo mettere di nuovo piede fuori dal Polar Tang. Ormai lo conoscevo come le mie tasche, tanto era il tempo che avevo trascorso lì.
Prima che il chirurgo della morte ci congedasse, Maya mi fermò. Mi consegnò gli stivali che le avevo affidato giorni prima. Le avevo chiesto di aggiungere delle tasche, sempre in cuoio, sulla parte esterna di entrambi, così avrei potuto riporci i pugnali. Non che non fossi contenta della mia ascia, ma la mia permanenza lì – anche se ancora non avevo combattuto una vera battaglia – mi aveva insegnato che era sempre meglio avere un asso nella manica o in questo caso, due pugnali negli stivali.
Ringraziai di cuore la mia amica, che ormai per me era quasi una sorella e che alcune volte, essendo un po’ più grande ed esperta di me, mi faceva addirittura da mamma. Lei mi rispose che tra donne dovevamo aiutarci, ed essendo noi le uniche due ragazze della ciurma, era necessario che collaborassimo per la nostra sopravvivenza. Le sorrisi e lasciai che raggiungesse Omen. Maya non lo avrebbe mai ammesso, ma ultimamente il loro rapporto era diventato più intimo e non ero l’unica ad averlo notato.
Quando furono usciti tutti dalla cucina, mi avvicinai a Law.
«Capitano. Credi che sia una buona idea lasciare che Ryu sbarchi con noi? Il decorso postoperatorio è buono e la ferita si è rimarginata bene, ma non sono sicura che sia ancora abbastanza in forze per affrontare uno sbarco» lo dissi a voce bassa, per non farmi sentire dal cuoco, che era ancora lì. Non si sarebbe mosso tanto facilmente, ora che si era riappropriato dei suoi utensili da cucina.
«Non lo so, sei tu il suo medico» si limitò a rispondermi. Capivo che dovevo imparare a gestire quel genere di situazioni, ma ogni tanto il suo parere mi avrebbe fatto comodo.
«Tranquilla Doc, sto benone! Mi farà bene prendere un po’ di aria fresca. E poi, mi servirebbero alcune scorte di cibo. Sono finiti i cavoli».
A quanto pareva il tentativo di non farmi sentire era fallito. Ryu mi sorrideva, cercando di rassicurarmi. Non potei non sorridere di rimando, anche perché ero perfettamente consapevole del motivo per cui i cavoli fossero finiti.
«D’accordo allora. Se mi assicuri che ti senti bene, ti do il permesso per sbarcare. Compra quanti cavoli vuoi, ma ti prego, a nome di tutta la ciurma, non cucinarceli per almeno un paio di settimane» lo pregai scherzando. In realtà ero serissima e lo sapeva anche lui, che rise e annuì.
Gli avevo dato il permesso di venire con noi e questo mi faceva sentire potente ed importante, ma ero anche responsabile per lui. Dovevo tenerlo d’occhio o la colpa di qualsiasi cosa gli fosse successa sarebbe ricaduta su di me.
 
Eravamo tutti in fila sul ponte, a braccia incrociate. Sembravamo quasi seri. Aspettavamo che le scialuppe venissero calate.
«Secondo voi di che lavoro si tratta?» chiesi ai miei compagni vicini
«Non lo so, su questo il capitano è sempre abbastanza criptico» mi rispose Penguin
«Non lo sapremo finché non lo vedremo. Mettiti il cuore in pace» aggiunse Shachi. Mi ero messa il cuore in pace, volevo solo capire a che cosa saremmo andati incontro, per essere più preparata.
«Di sicuro non stiamo andando lì per rifornirci di provviste e carburante, visto che abbiamo fatto il pieno l’altro giorno» constatai
«Vuoi dire quando noi abbiamo sgobbato come muli trasportando scatoloni pesantissimi mentre tu te ne sei andata beatamente a zonzo per tutta l’isola a rimorchiare piratucoli squilibrati?»
Alzai gli occhi al cielo. «Ti serve un calmante, Shachi? Perché posso portartelo se vuoi».
In tutta risposta lui mi lanciò un'occhiataccia, strinse i pugni, arricciò il naso e digrignò i denti.
«Almeno si può sapere il nome di questa fantomatica isola su cui sbarcheremo?» domandai sbuffando
«Si chiama Rethgif» comunicò Bepo, facendoci voltare verso di lui
«Ti pareva che il cocco del capitano non sapesse dove stiamo andando» fece Shachi, inacidito
«Avete ragione, chiedo umilmente scusa. Avrei dovuto dirvelo prima» il visone abbassò la testa, mortificato. Sospirai e gli misi una mano sulla spalla.
«Non è colpa tua, non farne una questione di Stato. È solo nervoso» assicurai all’orso polare, che però continuò a scusarsi, infastidendo il resto della ciurma. D’improvviso sembravano essere diventati tutti irascibili. Forse erano preoccupati come me, ma nessuno voleva ammetterlo.
«Comunque Rethgif è un nome del cazzo» commentò Penguin
«Concordo» lo appoggiai io.
Avevo l’impressione che sarebbe stata una lunga e dura giornata, che l’avessimo voluto o no.
 
«Qualunque sia il lavoro che dobbiamo fare, non intendo sventrare altri cadaveri» annunciai mentre spostavo l’ennesimo ramo per poter continuare a passare lungo lo stretto e insidioso sentiero sterrato. Gli stivali nuovi, che avevo messo per la prima volta quel giorno, avevano imbarcato più fango di quanta acqua avesse imbarcato il Titanic. Camminavamo da parecchio ormai, e cominciavo a fremere per l’impazienza. In più, l’irritazione generale rendeva nervosa anche me.
«Stai zitta e continua a camminare» soffiò con disprezzo Shachi, dietro di me. Stavo per rispondergli per le rime, quando Bepo mi interruppe.
«Ti conviene risparmiare il fiato. A quanto ho capito c’è da camminare ancora per un po’».
Non lo disse in tono duro, ma dolce e pacato. Per fortuna era ancora rimasta una briciola di tenerezza in lui.
«Finalmente siamo arrivati» dissi espirando ed appoggiandomi le mani sulle ginocchia. Avevamo fatto una bella scarpinata, senza dubbio. Mi girai verso Ryu. «Tutto a posto?» gli chiesi apprensiva.
Annuì, anche se sembrava un po’ affaticato e aveva la fronte madida di sudore. Avrei dovuto tenerlo d’occhio per il resto della nostra permanenza lì. Forse non era stata una buona idea farlo venire con noi. Cercai di non pensarci – o meglio di pensare che tutto sarebbe andato bene – e mi rivolsi al capitano.
«Allora, adesso ci vuoi dire il motivo per cui siamo dovuti venire qui su questa isola sperdu...» qualcosa mi interruppe e mi fece gelare il sangue nelle vene. Ci raddrizzammo tutti e iniziammo a guardarci in giro, più vigili che mai.
«Trafalgar Law, in compagnia della sua fidata ciurma. Quale onore» disse una voce che non riuscii a localizzare bene.
Rethgif era un’isola piuttosto ostile, l’unico villaggio che c’era era circondato da un anello di fitta vegetazione. Ovunque si sbarcasse si doveva prima camminare a lungo attraverso la giungla prima di raggiungere quel villaggio. E ora che finalmente vi eravamo approdati, qualcosa – anzi, qualcuno – ci impediva di proseguire.
“Non di nuovo” pregai nella mia mente. Perché dovevo avere un capitano con così tanti nemici!? Il panico iniziò a salire in me quando alla nostra destra dei rumori ci fecero immediatamente voltare e dalla foresta cominciarono a venir fuori delle sagome. I miei compagni cominciarono a restringersi in cerchio e io feci altrettanto, premurandomi di rimanere vicino a Bepo. La piazza principale era deserta. C’eravamo solo noi pirati e quei dannati tizi di cui non conoscevo l’identità. Evidentemente i cittadini avevano capito che era meglio tenersi alla larga e si erano rinchiusi in casa. O forse erano stati avvisati in precedenza e avevano deciso di non interferire. Anche se, a dire la verità, quella sembrava tutt’altro che un’isola abitata. Le case, arroccate in cima al villaggio, erano fatiscenti e piene di crepe e parecchie finestre erano rotte. Tutto sembrava così immobile, come se il tempo si fosse fermato. Forse si era fermato davvero.
«I cacciatori di taglie» sibilò il visone, distraendomi dalle mie riflessioni filosofiche, quando il gruppo di persone fu abbastanza vicino da poter essere identificato. Istintivamente ed istantaneamente, proprio come fece il resto della ciurma, sfoderai Mr. Smee e mi preparai al peggio.
«Maledetto pipistrellaccio» soffiò Shachi
«Quello» Bepo mi indicò il più grosso e spaventoso della banda, poi abbassò la voce «è Ruben, detto “Mano Alata”. Stai molto attenta, può trasformarsi in un pipistrello. Non farti ingannare, non è stupido come sembra, ed è riuscito a mettere le mani sulle taglie di molti pirati importanti».
Chissà perché, la notizia non mi rassicurava affatto. Anzi, molto probabilmente sarebbe stato meglio non sapere. Fino all’ultimo secondo avevo sperato che fosse tutto uno scherzo, che quelle persone dall’aria estremamente minacciosa e poco raccomandabile non volessero veramente iniziare un combattimento, ma magari andare a bere qualcosa tutti insieme in un pub e chiacchierare amabilmente del più e del meno. Ma a quanto pareva non era così. Erano lì per prendere le nostre teste. Per la seconda volta, nel giro di qualche giorno, mi ritrovavo a pensare di togliere la cintura e scappare via. In quegli anni me l’ero immaginata tante volte come sarebbe stato combattere nella realtà, ed ora che era arrivato il momento in cui potevo scoprirlo, non ero sicura di volerlo fare. Non ero sicura di essere pronta. Ma come tutte le cose, non si è mai pronti abbastanza.
 
La battaglia iniziò senza che me ne accorgessi. Il capo, quello più grosso di tutti, gridò che sarebbe stato un piacere arricchirsi grazie alle nostre morti; e poi, in un nanosecondo, si trasformò in un orribile pipistrello gigante. I suoi compari – che precedentemente si erano disposti a semicerchio attorno a noi – seguirono il suo esempio e avanzarono verso di noi con molto impeto. Solo in quel momento mi resi conto che eravamo in netta inferiorità numerica. La proporzione era di almeno uno a quattro, ma non mi sarei lasciata scoraggiare da questo. Noi eravamo più forti e avremmo vinto. Mi fidavo dei miei compagni. La domanda era: mi fidavo anche di me stessa?
Prima che avessi il tempo di prepararmi mentalmente, sentii il clangore delle armi che si scontravano tra loro e capii che dovevo fare qualcosa. A quel punto qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Potevo sfilarmi la cintura e tentare di dileguarmi tra le fronde del bosco, evitando lance, spade e l’intera battaglia, o potevo combattere. In un breve momento di ilarità isterica, pensai che forse l'opzione migliore sarebbe stata la fuga con Cavendish qualche giorno prima, quando mi aveva proposto di andare con lui. Se non altro, ero sicura che il biondo non si sarebbe mai cacciato in tutti questi guai. Scossi la testa, intimandomi di riprendermi. No. Questa volta non sarei scappata. I miei compagni non mi avrebbero mai perdonato se lo avessi fatto. Chiusi gli occhi e strinsi l’impugnatura dell’ascia con entrambe le mani. “Non è qui che morirò” ripetei a me stessa più volte. “Non è qui che morirò” pensai e sperai, e me lo dissi così tante volte che iniziai a crederci. Tuttavia, quando riaprii gli occhi, vidi un energumeno di almeno tre metri venire verso di me a gran velocità. Puntava me, puntava proprio me. Le gambe iniziarono a tremarmi, il cuore batteva all’impazzata, la paura mi paralizzava e sentivo la presa su Mr. Smee allentarsi sempre di più. Che potevo fare? La mia mente era completamente vuota. Per fortuna, quando quel colosso era ad una decina di metri da me, intervenne Jean Bart. “Prenditela con quelli della tua stessa stazza!” aveva esclamato, anche se lui era quasi il doppio. Poi, tra i due iniziò un violento e feroce corpo a corpo. Distolsi lo sguardo intimandomi di non far tremare le gambe. Mi ci volle una forza di volontà incredibile per eseguire quell’ordine, ma alla fine ce la feci. Mi guardai intorno. Tutti stavano lottando. Bepo era alle prese con un tizio con la pistola e fortunatamente stava riuscendo a schivare tutti i colpi; Shachi e Penguin stavano combattendo insieme contro quattro o cinque persone, la loro sincronia era pazzesca, a tal punto da ricordarmi quasi Rufy ed Ace che lottavano insieme a Marineford. Tutti gli altri tentavano di rimanere vivi contrastando i nemici come meglio potevano. Non riuscivo a vedere la faccia di Law, ma ero sicura che fosse incazzato e che avrebbe fatto di tutto per distruggere quel pipistrello del cazzo e il suo sorriso arrogante che aveva scombinato i suoi piani, come io stavo facendo di tutto per evitare la battaglia. Non potevo più permettermelo. Dovevo aiutare i miei amici. A qualunque costo. Prima che potessi fare qualsiasi cosa, però, un potente calcio alla mandibola mi fece cadere a terra. Mi puntellai sul gomito sinistro, mentre con la mano destra mi massaggiavo il punto in cui quel barbaro sconosciuto aveva colpito. Il calcio che mi aveva dato Bepo mesi prima non era niente in confronto. Quel colpo aveva fatto scaraventare la mia ascia a qualche metro da me. L’uomo che avevo davanti mi fissava con aria sadica, come se fossi carne da macello. In mano stringeva un pugnale e sospettavo che fosse pronto ad usarlo. Senza indugiare – e senza perderlo d’occhio nemmeno per un secondo – strisciai con i gomiti fino alla mia arma e riuscii a riprenderla appena prima che questo sferrasse il suo attacco. Repentinamente allungai al massimo l’ascia e parai il colpo, tenendola orizzontalmente con entrambe le mani. Da terra, però, non avevo la forza necessaria per respingere il cacciatore di taglie, che stava riuscendo ad avvicinare sempre di più a me il suo coltello. Così, feci quello che a quanto pare sapevo fare meglio: improvvisai. Gli sferrai un calcio nel punto maschile più vulnerabile. Funzionò, perché fece una smorfia di dolore e indietreggiò di qualche passo, dandomi il tempo di rialzarmi e di colpirlo alla testa con la parte piatta di Mr. Smee. Svenne sul colpo. Il giorno dopo avrebbe avuto un gran mal di testa, ma se l’era cercata. Non lo uccisi, perché ancora prima di iniziare l’addestramento avevo prestabilito che non avrei portato via la vita a nessuno. Io stessa non ero nessuno per poter fare una cosa tanto orribile ad un altro essere umano. Però avendo studiato anatomia a fondo, sapevo dove colpire per mettere fuori combattimento un nemico senza ucciderlo.
Tirai un sospiro di sollievo – anche se c’era ben poco per cui essere sollevati – e gettai il coltello lontano dall’uomo che avevo appena messo ko, tra le fronde della fitta vegetazione, giusto per precauzione. Sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene e senza perdere tempo mi guardai intorno, per cercare di capire se qualcuno dei miei compagni avesse bisogno di aiuto. Sembravano tutti cavarsela egregiamen...
«Maya!» urlai, vedendola in seria difficoltà. Era dall’altra parte della piazza e non esitai a correrle incontro, abbassandomi ogni tanto per schivare colpi non diretti a me.
Quando la raggiunsi, stava combattendo contemporaneamente contro due cacciatori di taglie. Ansimava visibilmente e stava avendo dei problemi. Presi uno dei due alle spalle e, tenendo l’ascia – che avevo accorciato al minimo – in posizione orizzontale, gliela premetti contro la gola, tentando di soffocarlo. Il poveretto si dimenava parecchio, ma la mia presa era salda e non avrei mollato tanto facilmente. Quando qualche minuto dopo sentii il suo corpo abbandonarsi contro il mio, capii che le forze lo avevano lasciato e smisi di fare pressione.
«Grazie!» esclamò Maya con il poco fiato che le rimaneva in corpo. Non ci fu tempo per risponderle perché un altro gruppetto di uomini si scagliò contro di noi. Per un po’ combattemmo fianco a fianco e in qualche – forse patetico – modo riuscimmo a respingerli tutti. Lei con la sua Sunny Spear ed io con la mia Mr. Smee. Facevamo una bella squadra insieme. Ci furono un paio di volte in cui rischiai di inciampare sui corpi degli uomini a terra. Nessuno mi aveva preparato a questo. Era uno spettacolo inquietante e spaventoso al tempo stesso. Sebbene ce l’avessi a morte con quei maledetti cacciatori, sperai che nessuno di loro fosse realmente morto. Nessuno si meritava una fine del genere. Ma la cosa più agghiacciante di tutte, paradossalmente, era il rumore. Era un rumore assordante, armi che si scontravano, colpi di pistola, uomini che gridavano nell’impeto del momento o di dolore, corpi che cadevano a terra, esanimi. Non era una cosa che si vedeva – o sentiva – tutti i giorni e molti si auguravano di non vederla mai. Ora capivo perché tanti soldati nel mio mondo soffrivano di disturbo post traumatico da stress. Vedere anche solo una volta cose agghiaccianti di quel tipo, poteva essere devastante per qualcuno, figurarsi viverle. Sospettavo che mi sarei sognata per molte notti quei momenti.
«Vieni via dalla room del capitano!» gridò la mia amica, tirandomi per un braccio. Nel mio attimo di riflessione e smarrimento, non mi ero accorta che una sfera bluastra mi aveva circondato. Non era un bene trovarsi nel campo d’azione di Law durante una battaglia. Bepo me ne aveva parlato più volte durante l’addestramento. Di solito il chirurgo ispezionava l’area prima di agire, ma quando era particolarmente arrabbiato – o era messo alle strette – non ci faceva caso, chi c'era c'era, lui avrebbe scatenato comunque il putiferio. In fondo i suoi sottoposti erano ben consapevoli che dovevano tenersi lontani dalla sua “sala operatoria”. Per fortuna me ne tirai fuori appena in tempo, ma in quel secondo di distrazione, uno degli uomini di Ruben mi colpì allo stomaco con una mazza chiodata. Caddi a terra. Non riuscivo a respirare. La cintura metallica aveva attutito la botta, ma era comunque alquanto doloroso. Tossivo, sputavo saliva e stavo rannicchiata in posizione fetale, incapace di alzarmi. Boccheggiavo e mi tenevo lo stomaco, sperando che non fosse nulla di grave. Non ce la facevo a rialzarmi, avevo esaurito tutte le energie e forse anche l’adrenalina.
«Questa qui non ha nessuna taglia sulla testa» comunicò il cacciatore che mi aveva colpito ai suoi compari vicini «però potrebbe esserci utile in altri modi...Ruben sarebbe felice di ritornare da questa battaglia con qualche souvenir» il sorriso dell’individuo che mi sovrastava mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. Con una mossa fulminea calciò l’ascia lontano da me, poi mi prese per i capelli e mi trascinò via dal campo di battaglia, nel bosco. Mi obbligò a inginocchiarmi. Gli davo le spalle e sentivo il suo fiato puzzolente sul collo, mentre una daga premeva sulla mia gola.
«Prova a muoverti e ti taglio la gola, ragazzina» sibilò quel viscido cacciatore. Avrei voluto sputargli in faccia, ma non avevo più la mia ascia e non potevo fare niente. Pregai con tutte le mie forze che qualcuno venisse a salvarmi. Che qualcuno si accorgesse che ero sparita. Ma sapevo che erano tutti troppo impegnati a combattere per salvarsi la pelle, per pensare a me; e questo era un bene da un certo punto di vista, non dal mio però.
Nel posto in cui ero, potevo osservare bene tutta la battaglia. Solo in quel momento notai il cuoco. Nella confusione e nell'impeto di quei minuti me ne ero totalmente dimenticata. Avevo commesso un errore imperdonabile.
«Ryu!» gridai con tutta la forza che avevo in corpo, dimenandomi e tentando di liberarmi. Era lì, ad una cinquantina di metri da me, a terra, sanguinante e con una pistola puntata contro. Sembrava esausto e incapace di reagire. Non potevo permetterlo. Non potevo lasciare che morisse, ero io che gli avevo dato il permesso per venire con noi su quell’isola, era mia la responsabilità!
«Stai ferma, stupida ragazzina! O ti faccio stare ferma io.»
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ero bloccata lì e sarei stata costretta ad assistere alla fine di un mio compagno senza poter fare niente. E pensare che qualche ora prima mi stavo lamentando perché i miei stivali nuovi si erano sporcati di fango. Spalancai gli occhi. Ma certo! Gli stivali! Perché cazzo non ci avevo pensato prima!? Se avessi potuto, mi sarei schiaffeggiata da sola per la mia stupidità. Che diavolo li avevo comprati a fare se poi non ne usufruivo!? E mi ci ero anche fatta cucire delle maledettissime tasche apposite, accidenti a me.
Con una mossa repentina sfilai il pugnale dallo stivale destro e lo conficcai dritto nel polpaccio dell’uomo che mi teneva prigioniera. Quello gridò di dolore e lasciò la presa abbastanza a lungo da permettermi di scattare in avanti e correre verso il cuoco. Corsi più veloce che potevo. Dovevo aiutarlo. Tenni lo sguardo puntato su di lui e sul suo aguzzino per tutto il tempo. Lo aveva in pugno e non si fece scrupoli ad alzare il cane. Percorsi i metri che ci separavano in circa cinque secondi. Li raggiunsi. Arrivai alle spalle del cacciatore di taglie. Da quel punto potevo vedere bene l’espressione di Ryu. Era l’espressione di un uomo che si era rassegnato a morire; ma io non lo avrei permesso. Ancora con il pugnale in mano e senza pensarci due volte, mi avventai sull’uomo che mi dava le spalle, che non si era minimamente accorto della mia presenza. Gli tagliai la gola. Senza fermarmi a riflettere, io gli tagliai la gola. Fu un taglio netto e preciso. Il sangue sgorgava a fiumi dalla ferita. L’uomo agonizzò per qualche secondo prima di cadere in ginocchio e poi abbandonarsi al suolo. Il mio compagno mi guardò con estrema gratitudine, ma io quasi non ci feci caso. Tutto sembrava essersi fermato attorno a me. Deglutii e mi guardai intorno. Era tutto confuso. Osservai il pugnale sporco di sangue che stringevo ancora tra le dita, poi fissai il corpo a terra, esanime, dell’uomo che qualche secondo prima minacciava la vita di Ryu. Attorno ad esso c'era un lago di sangue color rosso vivo. Mi portai una mano alla bocca.
Era morto. Lo avevo ucciso.
   
 
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