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Autore: AvalonGirl    20/05/2009    2 recensioni
E' facile essere genitori nella giungla urbana di New York City? Per Judith Ferrante, yankee ventitrenne italoamericana, di certo no...specialmente se hai una suocera che fa invidia alla strega di Biancaneve, un marito super bello, super intelligente, super tutto e corteggiato da qualunque essere femminile (ma anche maschile, eh!) nel raggio di cinquecento metri, una famiglia che più stramba non si può e la laurea alle porte...riuscirà a far conciliare il tutto con la sua gravidanza?
Vedremo, vedremo...
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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nonni
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Come e Quando dire nonni
1° Parte
 
 
 
 
Quando la mattina dopo mi svegliai notai con grande sollievo che tutto lo stress accumulato nell’ultimo mese andava scemando sempre di più. Rimasi un altro po’immobile nel letto, seminascosta tra le coperte leggere e accoglienti.
La sveglia non era ancora suonata e quindi decisi di starmene a poltrire ancora un po’. Sempre a occhi chiusi ripensai a tutto quello che era accaduto il giorno prima: ero incinta.
Mi sentivo ancora abbastanza confusa al riguardo, ma l’idea ch e qualcosa stesse crescendo dipendendo interamente da me non mi terrorizzava più…certo, avevo ancora una fifa matta sulla piccola questione nota come “partorire”, ma non me ne sarei dovuta preoccuparmene per altri otto mesi.
Aprii gli occhi lentamente, ancora assonnata, e me li strofinai con le mani. La vista fu abbagliata dal raggio di luce che penetrava dalla finestra aperta e scoperta dalle tendine, amplificato dal colore caldo e acceso della stanza; le pareti e le tende erano di un luminoso color pesca, il letto era posto al centro della stanza, in legno chiaro e con una trapunta rosa e bianca, dello stesso colore del letto erano i due piccoli comodini e l’armadio, fissato in una fessura tra la finestra e il muro.
Avevo arredato quella stanza personalmente, adoravo i colori caldi egli ambienti luminosi, mi mettevano di buon umore.
Allungai il braccio verso l’altra parte del letto, sicura di trovare il corpo caldo e perfetto di Andrew ancora dormiente. Con mio grande dispiacere, invece, la mia mano andò a vuoto, scoprendo il materasso e i cuscini freddi, segno che erano disabitati da un po’, mugugnai delusa.
 Si era gia alzato…strano. Solitamente era un’odissea ogni volta che doveva alzare il suo regale fondoschiena da letti o divani.
Contrariata, alzai gli occhi verso il comodino, dove tenevo la sveglia, e li spalancai: erano quasi le nove meno un quarto.
Saltai letteralmente a sedere sul letto, come punta da qualcosa.
Avevo lezione alle otto e mezzo!
Calcolando il traffico e l’attesa alla metro non sarei riuscita ad arrivare in facoltà neanche per le nove e mezzo.
Andrew dov’e diavolo era? Possibile che lui avesse sentito la sveglia ed io no?
Balzai giù dal letto e senza neanche infilarmi le pantofole mi precipitai giù dalle scale.
La scala dava sul piccolo ingresso, nel quale sentii distintamente la voce della giornalista della CNN che argomentava su una delle tante sparatorie avvenute nel Bronx.
Mi diressi verso la cucina e quando entrai, spalancai gli occhi.
Andrew indossava il mio grembiule da cucina preferito, quello bianco regalatomi da mia madre con la scritta “Kiss me! I’m Italian!”, e pasticciava con la cialda per le frittelle.
Il mio grembiule, che una volta era stato candido e profumato, era completamente sporco di miele e sciroppo d’acero.
Andrew era perfetto in tutto: era bellissimo, intelligente, dolce, affettuoso, spiritoso e non era per nulla geloso (forse solo un po’). L’uomo ideale con la “I” maiuscola e sottolineata.
Era un essere umano, però, …e come tutti gli esseri umani anche lui aveva un tallone d’Achille; non sapeva minimamente cucinare.
Perciò, vederlo nella cucina, con il mio camice portafortuna e indaffarato ai fornelli mi faceva un po’ paura.
-Cosa diavolo stai facendo?- gli chiesi con cipiglio ironico.
Lui alzò la testa dalla cialda e mi sorrise tutto giulivo –Buon giorno, amore!- cinguetto poi tutto felice, abbandonò gli aggeggi che aveva in mando e venne verso di me.
Mi baciò lievemente e a fior di labbra, poi ritornò a cucinare.
Era così dannatamente attraente anche così, con i capelli biondissimi ancora più spettinati del solito e la farina sul volto, che mi sentii veramente felice…anche se mi aveva messo a soqquadro, la cucina.
-Come ti senti?- mi domandò.
-Bene. Molto bene, davvero. E’ tutto più chiaro e calmo ora -ed era la verità; poi mi ricordai il motivo per cui ero entrata in cucina. Neanche lui era andato in facoltà.
-Ehi…ne sai qualcosa della sveglia?-
-Sveglia?- mi chiese distrattamente continuando a versare il liquido sulla cialda.
-Si, - ripresi io –quella che avrebbe dovuto suonare alle sei e mezzo.-.
Mi guardò con espressione angelica con tanto di aureola sul capo e coda da diavolo che ondeggiava dietro, -No, non ne so niente.-.
Io sospirai divertita, -Hai tolto le batterie.- era un’affermazione.
-Se lo sai non chiedermelo!-
Afferrò il vassoio con le frittelle e mi fece segno di sedermi. Io mi accomodai accanto a lui e guardai attentamente il piatto.
-Sicuro che sono commestibili?-.
Mi guardò con faccia finta offesa, -Assolutamente si!-.
Ne presi un pezzo con la forchetta e assaggiai…era addirittura buono. A che ora si era svegliato per prepararle? Di certo non gli erano riuscite al primo colpo, lo conoscevo troppo bene.
-Allooora?- pendeva letteralmente dalle mie labbra.
Gli sorrisi, addolcita da quei suoi occhi che mi facevano sempre girare la testa come la prima volta che lo vidi.
-Ti amo.-.
Il suo sorriso s’illuminò, cavolo se non era da mozzare il fiato!
Mi abbracciò stretta, come solo lui sapeva fare. Mi ordinò di finire la colazione di andare a vestirmi, mentre lui avrebbe ripulito la cucina.
-Perché?- gli chiesi.
-Perché altrimenti faremo tardi.-.
-Tardi? Per dove?-, sentivo puzza di bruciato.
Mi sorrise dolce, -Ma dai tuoi, naturalmente! Tua madre ha chiamato prima, gli ho detto che saremmo passati nella mattinata, perché c’era qualcosa di molto importante su cui discutere.-.
La mascella mi cadde sul pavimento. Iniziai a sudare ghiaccio.
-C…cosa avresti fatto tu?-
Mi guardò stupito, -Su, andiamo Ju! Qual è il problema?-
 
Venti minuti dopo mi trovavo di nuovo nell’ingresso, indossavo dei jeans chiari, una maglia celeste e avevo portato indietro i capelli con un cerchietto bianco.
Di certo non c’erano i manuali su cosa indossare per dire ai tuoi che eri incinta; perché è questo che mi stavo apprestando a fare. Ok, avevo accettato quasi completamente l’idea di aspettare un bambino…e allora perché ero terrorizzata all’idea di dirlo a mia madre? Andrew si era offerto di dirglielo, ma, anche se avevo una fifa pazzesca, rifiutai.
Dovevo essere io a comunicare la notizia.
Perché anche se avessi temporeggiato un po’, alla fine avrei comunque dovuto affrontare l’argomento.
Andrew scese le scale vestito di tutto punto, neanche dovesse andare ad un matrimonio.
Era bellissimo.
-Allora, - disse incoraggiante –andiamo?- e mi pose il braccio. Il lo afferrai sbuffando e uscimmo.
La nostra auto era una Ford del ’98 grigia metallizzata, Andrew l’aveva acquistata a diciassette anni lavorando come meccanico in un officina nel West Side; naturalmente senza consenso dei genitori. Nonostante fosse abbastanza vecchia, andava che era una meraviglia e Andy la adorava. Salimmo in macchina in silenzio, o meglio, io ero in silenzio…lui non faceva altro che parlare e sorridere, profetizzando la faccia che avrebbe fatto mia madre.
Io cercavo di non pensarci.
Erano le undici di venerdì mattina, il che voleva dire che sia mio padre sia mia madre erano occupati con ristorante; in positive sia le mie sorelle sia mio fratello dovevano essere a scuola.
“Diventerete nonni.” Facile, semplice e diretto. Mi bastava entrare nel ristorante, sorridere felice, guardare i miei negli occhi e pronunciare quella semplice frase; verbo e complemento…niente di più.
Mentre passavamo per Houston Street, fui per la prima volta stranamente felice nel notare il familiare traffico di New York, avrei avuto più tempo per preparare un discorso decente.
-Sicura che non vuoi che parli io?- la voce di Andy mi giunse da lontano, nonostante fosse seduto proprio accanto a me, al voltante.
Io negai con la tesa –No, grazie…ma voglio essere io. Capisci, no?-
-Sicuro! Ricordati che io sono con te, e poi è una bella notizia.-.
-Già, - concordai io, -è una bella notizia.-, era la verità, mi dissi mentalmente.
Il traffico non era statico, così, passata Broadway, arrivammo velocemente ai confini di Little Italy.
Parcheggiammo l’auto fuori dal quartiere; il “Al Chiaro di Luna” non era lontano, anzi era proprio all’inizio di Mulberry Street, la via principale del borgo italoamericano.
Un tempo Little Italy era stato uno dei più grandi quartieri con residenti italiani dello stato di New York ma ora non era più cos’ legato alle sue origini italiane. Certo, tutti i negozi avevano nomi italiani e le bandiere tricolore sovrastavano gran parte delle strade, ma era ben limitato il numero di veri emigranti italiani rimasto. La mia famiglia rientrava in quella categoria.
Mio padre, Carlo Ferrante, aveva cinquantadue anni. Per la sua nascita mio nonno era voluto rientrare in Italia, così mio padre era italiano puro, così come lo era mia madre, Maria. Lei e mio padre si erano conosciuti in occasione di uno dei tanti viaggi che papà faceva in Italia quando era più giovane, “Per non dimenticare chi siamo e la terra che ci ha donato la vita.”, diceva sempre.
Si erano incontrati per le vie popolari di Napoli ma mia madre era romana; al fine dei tre mesi, quando mio padre stava per rientrare, lei era “scappata” con lui, non penso che mia nonna materna ne fosse molto felice. Nove mesi dopo spuntò fuori mio fratello maggiore, Joseph.
Joseph pecora nera.
Lui e mio padre non andavano particolarmente d’accordo. Papà avrebbe voluto che Jo ereditasse il ristorante, così come succedeva da tre generazioni. Peccato che Jo non fosse della stessa idea. Avevamo quattro anni di differenza ed era il mio fratello preferito. Purtroppo non lo vedevo da po’ perché viveva a Seattle lavorando come commercialista. Io ero la seconda di cinque di figli. Dopo di me venivano le mie due sorelle, la diciottenne Claudia e la quattordicenne Lily.
Claudia era sempre stata la mia spina nel fianco fin da piccolissime. Ero sempre stata un tipo calmo, ma la nascita di Claudia era stata davvero decisiva per la mia infanzia. Staccava la testa a tutte le mie bambole, mi si appiccicava peggio della colla e voleva sempre stare al centro delle attenzioni quando invitavo le mie amiche a casa. Ora si era calmata, diciamo, ma era comunque un tipo stravagante, frequentava l’ultimo anno di liceo e aveva gia chiaramente dichiarato di non aver la minima intenzione di andare all’università. Nonostante avessimo passato i tre quarti nella nostra infanzia a tirarci le trecce a vicenda le volevo bene.
Liliana, invece, era quel genere di ragazzina che non si vedeva e non si sentiva. Minuta e anche abbastanza timida aveva sempre cercato la protezione dei fratelli maggiori. Mia madre aveva tentato di farla sciogliere un po’ iscrivendola a un corso teatrale, e forse aveva ottenuto i suoi risultati. Lily rimaneva comunque la solita introversa, probabilmente era la più dedita allo studio della famiglia. Regnava incontrastata sui libri, questo era certo; ne aveva letti così tanti che a volte mi domandavo come facesse a trattenere tutte quelle informazioni in una testa tanto minuta.
Poi c’era l’ultimo della famiglia. In Italia, nella città di mio padre, i tipetti come Vincent erano chiamati in un solo modo: scugnizzo.
Undici anni di pepe e scherzi, avrebbe fatto un baffo a Bart Simpson. Passava le sue giornate a giocare a calcio nel parco vicino casa o a architettare scherzi contro i nostri poveri vicini. Papà lo definiva la mascotte del ristorante e deponeva in lui grande fiducia; dopo Jo era l’unico figlio maschio e quindi avrebbe ereditato lui il ristorante.
Sinceramente questa concezione così maschilista sulla questione dell’“eredità” m’infastidiva parecchio, ma preferivo lasciar cadere l’argomento per evitare discussioni inutili.
Papà poteva sembrare rude al tocco, molto rude…in verità. Sapevo che come diceva mia madre era un pezzo di pane. Parlava con un forte accento e quando si arrabbiava, imprecava sempre in italiano, mamma ci copriva le orecchie con le mani e scuoteva la testa rassegnata.
Ricordi come quello mi facevano stare bene.
Anche camminare tra le strade di Little Italy mano nella mano con l’uomo che amavo mi faceva stare bene. Finché Andrew mi avrebbe tenuto per mano, sarebbe filato tutto liscio.
Quelle vie erano tutte incredibilmente familiari per me, familiari e nostalgiche; mi avevano vista appena nata ed ora ci camminavo da sposata ed incinta. Greenwich Village era un quartiere bellissimo e che amavo, ma niente avrebbe mai potuto sostituire alla mia Little Italy.
Andrew strinse di più la mia mano, -Ci siamo.- disse.
L’insegna blu a caratteri rossi che recitava “Al Chiaro di Luna. Vero ristorante italiano. Dal 1930.” era ben visibile. Dato che eravamo settembre, c’erano ancora i tavoli fuori, quelli che disponevamo in estate per permettere ai clienti di godersi la stagione e la vitalità del quartiere. Il locale non era molto grande, in tutto c’erano venticinque tavoli, i servizi e la cucina, in cui scendeva la scala che la collegava ai due piani superiori, dove c’era la casa. Aprivamo tutti i giorni, escluso il martedì, dalle otto alle undici.
Mi avvicinai ancora di più ad Andy ed entrammo.
La porta si spalancò con il solito trillo, che ci avvertiva dell’entrata di un cliente. Mia madre, che era china su un tavolo che stava apparecchiando, alzò il volto paffuto e ci sorrise con espressione dolce.
-Ecco qui i miei tesori!- esclamò con il suo forte accento, e abbracciò entrambi. Si sprecò in baci con Andrew, che per lei, come per me, rappresentava l’essere e il marito perfetto.
Mia madre aveva cinquanta anni, era bassa e un po’ appesantita. Il suo volto era la cosa più dolce che avessi mai visto, contornato da ricci e sbarazzini capelli castani e due occhi blu cielo che t’incantavano.
Da piccola le avevo chiesto molte volte il motivo per cui non avevo occhi così belli, poiché i miei erano di un fin troppo comune castano scuro.
-Ju, - mi disse, e si avvicinò preoccupata – stai bene, tesoro?- mi mise le mani sul volto e lo girò a destra e a sinistra, per scrutarmi meglio.
Sapevo di non avere esattamente quella che si poteva definire una bella cera, dovevo essere anche abbastanza pallida perché mia madre mi scrutava critica, forse nel tentativo di trovare qualche strano sintomo che indicasse qualche sottogenere di malattia.
-Sto bene, mamma! Non ti preoccupare!- cercai di ribattere.
Era ovvio che non li avessi per niente convinta.
-Sicura?-, poi si voltò verso Andrew, -Andy caro, ance tue sembri stanco…volete che vi prepari qualcosa?-.
Qualcosa per lei equivaleva a un pranzo per il Ringraziamento per otto persone.
-Non si preoccupi Mary…- le rispose un po’ forzato. Sbaglio o mi sembrava preoccupato? Forse un po’ d’ansia stava venendo anche a lui.
Sorrisi sadica alle sue spalle. Così avrebbe capito cosa sentivo da quella mattina!
Mia madre non era per niente convinta delle sue parole, infatti, continuò a squadrarci con i suoi grandi, immensi e indagatori occhi azzurri.
Mi sembravano raggi x.
-Ragazzi, siete strani, sapete?...su, avanti, ditemi cosa è successo!- era impaziente, si vedeva benissimo.
-Ecco, - Andrew prese parola, io mi sentivo la lingua incollata al palato, di nuovo. -…Carlo non c’è?-.
Mamma aprì e chiuse le palpebre. Andy non chiedeva mai di mio padre…non perché non andassero d’accordo o perché avevano qualche contrasto, ma perché lo metteva in soggezione. Potevo capirlo, perché il sopracciglio alzato di mio padre e la sua espressione burbera avevano fatto scappare quei pochi ragazzi che avevo avuto durante l’adolescenza.
Andrew era sopravvissuto al suo sguardo accigliato, ma comunque, anche se di poco, ne avvertiva l’ostilità. Ostilità che era notevolmente calata dopo il matrimonio; probabilmente mio padre avrebbe voluto vedermi sposata con un italiano.
-Noi abbiamo una cosa da dire-continuò -…è importante che ci sia anche lui.-.
Mia madre ci guardò per qualche secondo, con gli occhi ridotti a fessure, ovviamente si stava chiedendo perché quel comportamento così sospetto.
Io, anche non ero mai stata particolarmente loquace, me ne stavo zitta e con espressione cerea sul viso. Andrew, che di solito era la reincarnazione umana della perfezione e della sicurezza di se, sembrava addirittura confuso.
Gli doveva sembrare tutto molto strano.
-Sicuro, - riprese –è in cucina, ve lo chiamo subito ragazzi. CARLO! VIENI QUA! Tua figlia e tuo genero ci devono parlare!-.
Mia madre e mio padre parlavano quasi completamente italiano tra di loro.
Andy mi guardò, forse voleva che gli traducessi quello che aveva detto mia madre, ma rimasi zitta.
-L’ho chiamato, ma siete sicuri di stare bene?- ed eccola che ritornava alla carica.
-Cosa succede?- mio padre uscì dalla cucina. Indossava un camice identico al mio, con la stessa scritta “Kiss me. I’m Italian.”.
Aveva un’espressione corrucciata, il solito sopracciglio sinistro alzato (ma come riusciva a sollevarne solo uno?!) e sguardo serio.
-Ehm, - Andy mi guardò, -forse…forse è meglio che ci sediamo- propose.
Mia madre si mise una mano sul petto, -Cosa avete combinato?!- chiese allarmata.
Andrew scosse le mani sorridendo nervoso, -Nulla…non si preoccupi!-.
Mio padre arcuò ancora di più il famoso sopracciglio. Entrambi si sedettero.
-Ecco…- Andy mi guardava. Forse aspettava che prendessi la parola; infondo gli avevo detto di voler essere io a dirlo ai miei. Ora non ne ero più così convinta.
“Perché non riesci a parlare?” sentii distintamente questa domanda nella mia testa.
Qual è il problema?” insistette la voce petulante.
“Non so come dirglielo…” risposi mentalmente io. Ora sentivo anche le voci, stavo impazzendo. Non sarei resistita altri otto mesi, mi avrebbero dovuto ricoverare in uno ospedale psichiatrico prima dello scadere del termine.
“Sono i tuoi genitori…perché ti fai tutti questi problemi? Non hai fatto nulla di sbagliato.”
“Io…io mi vergogno.”
La voce assunse un tono tagliente, quasi cattivo, “Ti vergogni di tuo figlio?”.
NO!
-Vedete…noi dovremmo comunicare una notizia…o meglio…ehm…Judith vorrebbe darla…-, Andrew stava tentennando  e mi guardava ancora, forse aspettava un segno.
“Io non mi vergognerei mai di mio figlio!” risposi prepotentemente.
“E’ questo che stai facendo.” terminò la voce in modo affilato, per poi spegnersi improvvisamente così come si era accesa.
Quella voce era la mia coscienza.
Certo che facevo proprio schifo, pensai mentalmente.
Guardai mia madre, tutta preoccupata, e mio padre, sospettoso; in fine Andrew, che arrancava dandomi tempo.
Nostro figlio.
Il nostro bambino. La conseguenza….no, non la “conseguenza”, ma il “dono” del mio amore per lui.
La verità m’illuminò di colpo.
Perché me ne sarei dovuta vergognare?
-Sono incinta.-
Lo esclamai tranquillamente.
Tutte le mie ansie sparirono di colpo, come foglie portate via dal vento. Mi sentivo leggera e felice.
Andrew si zittii all’istante. Forse perché stupito dal mio cambiamento di tono, forse per dare il tempo e il silenzio necessario ai miei per assimilare l’informazione.
-Che…che cosa…?- chiese mio padre.
-Sono incinta. Di un mese. Diventerete nonni!- esclamai sorridendo.
Tutte le mie preoccupazioni erano sparite.
Mi sarei vergognata mai di mio figlio?
Assolutamente no, non ne avrei avuto nessun motivo.
Cercai la mano di Andy, che non tardò a stringere la mia.
Aspettavamo entrambi una reazione. Che non tardò ad arrivare.
Mia madre diede un urletto e si alzò di colpo dalla sedia, noi facemmo altrettanto.
-Mamma?- chiesi confusa.
-Sei incinta!- esclamò quasi brillando.
-Si.- le risposi io sorridendo.
-Di un mese!- continuò.
-Si.-
-Diventerò nonna!
Annuii anche a questo, -Si, mamma.-
Mia madre mi si catapultò addosso e mi abbracciò con tutte le sue forze.
-Non ci posso crede…! Nonna! Nonna! Il mio primo nipote!- stava letterale sproloquiando.
-Dov’è? Dov’è quel santo ragazzo?- chiese la vuoto; si girò di scatto verso Andrew, che sorrideva imbarazzato.
-Sono qui.-.
Mamma gli fu addosso in men che non si dica, -Grazie! Grazie! Lo sapevo io…- disse agitando le braccia, -…lo sapevo che eri il ragazzo giusto!-, gli afferrò il volto tra le mani e gli scoccò un sonoro bacio sulla guancia.
-Santo ragazzo! Benedetto ragazzo!Lo sapevo io!-, poi ritornò da me.
-Ehm…grazie, Mary.- Andy si scompigliò i capelli, era il gesto tipico di quando era in imbarazzo.
Mia madre lo fulminò scherzosamente con lo sguardo, -Quante volte ti ho detto di chiamarmi mamma?-.
-Molte.- gli rispose Andy, ridendo.
-Bambina mia! Tesoro! Non ci posso credere…! La mia donna!- e iniziò a baciarmi.
La abbracciai con tutta me stessa, -Ti voglio bene, mamma.- le dissi, poi, con tutto il sentimento possibile.
-Anche io! Anch’io!- urlò lei. Poi si staccò improvvisamente; corse verso l’ingresso del ristorante e girò il cartello da “APERTO” a “CHIUSO”.
-Oggi non si lavora!- esclamò tutta pimpante, -E’ un giorno di festa!-
Poi mi resi conto che mio padre non si era mosso dalla sedia.
“Oddio…” pensai.
-Papà?- ero esitante.
Sia mia madre (che era tutta intenda ad abbracciare Andy) che Andrew si girarono in contemporanea verso mio padre, ancora seduto e con lo sguardo rivolto al pavimento.
-Caro…?- chiese mia madre avvicinandosi.
Mio padre alzò lo sguardo.
Ciò che vidi mi toccò il cuore.
Lacrime.
Mio padre stava piangendo.
Si asciugò gli occhi con la manica e ci guardò torvo –Cosa avete da guardare?-.
-Ohh tesoro…- sospirò mia madre.
Papà si alzò dalla sedia e andò verso Andrew, che deglutì.
Lui e mio padre si guardarono negli occhi per pochi instanti, poi mio padre aprì le braccia e lo abbracciò.
Dall’espressione di Andrew capì che non se lo aspettava.
-Congratulazioni.- disse mio padre, era evidente dal suo tono (ma scommetto che non l’avrebbe mai ammesso) che era commosso.
-Grazie, Carlo.- Andy era veramente colpito.
Non lo avevo mai visto così felice.
Io e mia madre guardammo entrambi intenerite.
Poi mio padre lasciò Andy e venne da me.
Mi catapultai fra le sue braccia e mi strinse forte. Sentivo il familiare odore di tabacco alla menta sui suoi vestiti vissuti.
-Sei una donna, ora. - mi disse con voce emozionata.
-Ti voglio tanto bene, papà.- sentii distintamente alcune lacrime di felicità salire agli occhi, anche mia madre singhiozzò.
Mio padre sciolse il nostro abbraccio e mi guardo, era chiaramente felice. Raramente gli avevo visto quell’espressione.
-Devo chiamare tua nonna!- esclamò all’improvviso mia madre, interrompendo quel momento, e corse verso il telefono vicino alla cassa.
Papà la guardò stizzito, -Non inizierai a mettere i manifesti per tutta l’America e l’Italia, spero!-
Mamma gli fece cenno di star zitto.
Andrew mi si avvicinò.
Intrecciò le dita delle mani con le mie e mi guardò sorridendo.
-Come mai questo cambio improvviso?- mi domandò a bassa voce.
-E’ nostro figlio. Tuo e mio.-incomincia io –non c’è niente di più bello. Non c’è niente di cui vergognarsi.-.
Mi rivolse il sorriso più brillante, più sfavillante, dolce, bello e un sacco di altri aggettivi positivi, che avessi mai visto.
-L’hai capito finalmente!- il suo tono era scherzosamente saccente.
-Scusa. Scusa se ci ho messo un po’. Mi perdonerai?-
-Assolutamente si.- e mi si avvicinò.
Era così tremendamente bello!
La mia vita stava predendo una svolta totalmente inaspettata, ma non potevo esserne più felice.
Ora lo potevo esclamare convinta.
Non mi sarei fatta trasportare dagli eventi né avrei avuto paura di quello che mi aspettava.
La mia famiglia sarebbe stata sempre con me.
La mia famiglia, Andrew e il nostro bambino, erano il mio futuro, la mia certezza assoluta.
-Ti amo.- gli dissi sorridendo.
-Ne ero sicuro, - mi rispose –perché per me è lo stesso.-e mi baciò.
Risposi al bacio con passione, allacciando le braccia dietro al suo collo.
Mia madre, ancora col telefono in mano, ci guardò intenerita e sorrise commossa; mio padre ci lanciò un’occhiata stizzita ma non ebbe nulla da ridire.
Era tutto perfetto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Secondo capitolo! Che ne pensate?
Ringrazio Purple e pirilla88 per le recensioni!
Al prossimo cap!
 
 
 
 
 
 
  
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