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Autore: AvalonGirl    18/05/2009    3 recensioni
E' facile essere genitori nella giungla urbana di New York City? Per Judith Ferrante, yankee ventitrenne italoamericana, di certo no...specialmente se hai una suocera che fa invidia alla strega di Biancaneve, un marito super bello, super intelligente, super tutto e corteggiato da qualunque essere femminile (ma anche maschile, eh!) nel raggio di cinquecento metri, una famiglia che più stramba non si può e la laurea alle porte...riuscirà a far conciliare il tutto con la sua gravidanza?
Vedremo, vedremo...
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Sedevo impaziente sulle poltroncine dello studio medico, quasi mi mancava l’aria. Per la tensione mi mordicchiai distrattamente le unghie, abitudine che avevo abbandonato al primo anno di liceo.
Il grande orologio appeso sopra la segreteria scandiva i secondi in modo fastidioso, producendo un perpetuo tic-tac.
Stavo letteralmente per scoppiare.
Cercavo di non pensare ai quattro, dico ben quattro, test di gravidanza che avevo nella borsa.
Tutti positivi.
L’infermiera dal volto paffuto chiamò in quel momento un nome di un’altra paziente; questa si alzò e mi passo davanti, per dirigersi verso l’ambulatorio. Aveva una pancia enorme.
Come quasi tutte le altre donne che c’erano in quella sala d’aspetto.
Doveva essere di sette o otto mesi.
Vederla sgambettare goffa verso la porta non fece altero che aumentarmi l’ansia, anche perché io ero la prossima.
E sapevo gia cosa mi avrebbe detto la ginecologa.
Sospirai profondamente e mi ridissi mentalmente il discorso che mi accompagnava da una settimana a quella parte.
“Non sono una sedicenne, ma una donna di 23 anni sposata. Un bambino è più che un’ottima notizia.”
Allora perché stavo così male?
Quella mattina sarei dovuta andare a una lezione abbastanza importante all’università, ma quello era più urgente.
Avevo detto ad Andy che dovevo andare ad accompagnare mia sorella a una visita medica.
Odiavo mentire ad Andrew, lo amavo troppo per farlo senza sensi di colpa.
Non ero riuscita a dirglielo; avrei voluto tantissimo averlo qui con me, in quel momento, ma la lingua mi si era in sostanza incollata al palato.
Le parole “Sono incinta.” si rifiutavano di uscire dalle mie labbra.
Notai che ormai le unghie sulla mano destra erano completamente sparite, passai alla sinistra e iniziò anche a tremarmi la gamba.
Mi chiamo Judith Maria Ferrante, ho ventitré anni e sono sposata da due. Ho conosciuto mio marito a diciotto anni, durante la mia prima festa da campus come universitaria. Andrew aveva la mia stessa età e frequentavamo entrambi la New York University, ma in due indirizzi diversi; lui frequentava la facoltà di giurisprudenza, io quella d’arte.
Non ho ricordi molto precisi di quella serata, pensandoci dovevo essere anche un po’ brilla, ma la figura di Andrew che entrava in quella stanza non la dimenticherò mai.
Indossava dei jeans chiari e una camicia bianca con il simbolo della facoltà di legge, capelli biondi e indomabili e un fisico da dio greco, ma quello che mi colpì di più furono gli occhi: grandi e verdi, con qualche pagliuzza castana, contornati da ciglia chiare; era uno sguardo profondo e intelligente e mi abbagliò in modo folgorante, peggio delle insegne dei Mulin Rouge. Per non parlare di quando mi sorrise…
Cavolo se non era fantastico!
Mi si avvicinò sicuro e si presentò –Ciao, sono Andrew Allen, piacere.- e mi allungò una mano.
Mi ci aggrappai come se ne dipendesse la mia vita, probabilmente.
Tre mesi dopo lo presentai ai miei genitori come mio ragazzo ufficiale. I miei erano entrambi figli di emigranti italiani arrivati a New York nei primi degli anni ’20; i miei bisnonni aprirono un ristorante italiano, il “Al Chiaro Di Luna” nell’allora appena nata Little Italy, il quartiere, dove si raggrupparono gli emigranti provenienti dall’Italia. Tutta la mia famiglia abitava nell’appartamento sopra al ristorante, io andavo a lavorarci quasi tutti i pomeriggi da quando mi ero trasferita all’inizio dell’università; così riuscivo a stare con la mia famiglia e a guadagnare qualcosa.
Mia madre aveva adorato, letteralmente, Andrew dal primo momento in cui aveva messo piede nel ristorante. Mio padre era stato un po’ diffidente, ma se io ero felice anche lui lo era; in più Andrew si era sforzato fin all’inverosimile di far loro un buona pressione (come se ci fosse il bisogno...per me era perfetto in tutto) e, molto evidentemente, ci era riuscito. Mia madre lo accolse subito in famiglia, invitandolo a passare al ristorante ogni volta che voleva senza farsi problemi.
Instaurare un rapporto con i sui genitori fu più difficile, molto difficile…diciamo anche che fu un’impresa. Ci volle molte più tempo prima che lui decidesse di presentarmi come sua fidanzata. Per me non fu per niente un problema, sapevo che in quel periodo il rapporto con i suoi era abbastanza precario…cioè più del solito, e da quello che mi aveva raccontato, non ci tenevo proprio a incontrarli.
Il padre di Andrew, Bruce Allen, era uno degli avvocati più rinomati e competenti dell’intera città, se non dell’intero stato di New York. Gestiva un ufficio legale di fama nazionale nell’Upper East Side e aveva scritto e pubblicato non so quanti saggi e libri sulla giurisprudenza. Sua madre Evangeline, invece, era l’unica figlia di un imprenditore immobiliare; quel genere di donna newyorkese tutta vestiti filmati, alta società e balli delle debuttanti.
Era la donna più bella e più fredda che avessi mai incontrato.
Andrew era figlio unico e sin da piccolo aveva frequentato le scuole più importanti della piazza dell’Upper East Side, dall’asilo nido al liceo.
Dopo di questo erano iniziati i guai.
Il Dottor Allen aveva in mente dei progetti tutti suoi per il figlio: Andrew avrebbe dovuto frequentare Yale, sposare una ricca newyorkese anch’essa tutti balli e martini, e affiliarsi nell’ufficio del padre per poi prenderne le redini un giorno.
Il piano sembrava perfetto, a parte un piccolo particolare: Andrew non aveva nessuna voglia di seguirlo.
Non si presentò all’esame d’ammissione per Yale, e nonostante che a suo padre bastasse una piccola telefonata per far ammettere il figlio, Andrew si rifiutò tassativamente. Disse quindi di voler frequentare la New York University, per grande orrore del padre, e di voler cercare lavoro per conto suo, senza dover basarsi sulle sue “fortune di famiglia”; aveva passato il test d’ammissione con un punteggio astronomico e si era trasferito nel campus.
La situazione era abbastanza critica.
Quando prendemmo il coraggio a quattro mai, ci recammo dalla sua famiglia, che abitava nell’attico più bello che occhio umano avesse mai visto.
Dove?
Naturalmente nell’Upper East Side.
L’incontro andò meglio di quanto ci aspettassimo…per intenderci, non fu propriamente quello che si può definire tutti “baci e benvenuti”; suo padre mi sembrò una persona simpatica anche se un po’ rigido.
Sua madre invece era una lastra di giacchio freddo e pungente; per la maggior parte della serata non mi rivolse la parola.
Non me la presi perché Andrew mi aveva avvertito, ma anche perché si vedeva da un miglio di distanza che era quel genere di donna che non riesce a sciogliersi neanche a pochi centimetri da un’eruzione vulcanica.
Insomma, chi ero io? Ero la ragazza italoamericana che basava i suoi studi su una misera borsa di studio e lavorava nel ristorante per turisti dei genitori che stava irretendo il suo unico figlio, sottraendolo dalla candidata ideale che aveva scelto come sua futura nuora.
Dopo due anni di fidanzamento (in cui Andrew fu in pratica adottato da mia madre), così, all’improvviso me lo chiese.
Ci trovavamo al Museo di Storia Naturale, io stavo osservando tranquilla e inconsapevole una riproduzione di gesso di Leonardo Da Vinci, lui s’inginocchiò e mi chiese molto teatralmente che se non gli concedevo la mano, testuali parole, si sarebbe buttato dal ponte di Brooklyn. Il tutto amplificato di suoi occhi in versione cucciolo abbandonato bisognose di coccole, in questo caso di un “si”.
Come potevo rifiutare?
Accettai meccanicamente, gli strappai l’anello dalle mani e me lo infilai. Tutto nell’arco di un suo battito di ciglia.
Avevamo solo ventuno anni, eravamo giovani, è vero…ma cosa ce ne importava?
La reazione dei mie fu indimenticabile.
Come ogni pomeriggio ero al ristornante ad aiutare, mio padre stava cucinando alcuni ordini, mia madre era alla cassa e mia sorella stava servendo dei tavoli.
Sfoderai il mio miglior sorriso, quello da campagna pubblicitaria che avevo ottenuto solo grazie a tre anni di apparecchio ai denti ed esclamai tutta giuliva:
-Mamma, io e Andy ci sposiamo. Fra due settimane. Papà vedi di essere puntuale in chiesa, che mi devi accompagnare all’altre. Oh…Claudia, - mia sorella allora sedicenne –sei la mia damigella d’onore.- ed ero tornata a ripulire il bancone.
La pizza margherita che mio padre stava modellando schizzò come un fulmine contro il muro, mentre mia madre rischiò una frattura della mandibola, tanto aveva aperto la bocca.
Nel dirlo ai suoi fummo un po’ più…ehm…moderati.
Il che vuol dire che lo scoprirono solo quando gli arrivò l’invito di partecipazione.
Fosse stato per Andrew, avrebbe fatto anche a meno di invitarli, ma non volevo rischiare di mettermi contro ancora di più la mia futura suocera e perché, nonostante lui lo credesse inconcepibile, suo padre, mi stava davvero simpatico.
Senza considerare che mi sembrava troppo sfacciato andare da loro, mostrare le fedi ed esclamare “Ci siamo sposati. Ora non potete fare nulla per impedirlo. Tiè!”.
Stranamente sua madre non disse nulla incontrario…in verità non parlò e basta, per tutta la cerimonia.
Credevo che sotto ci fosse lo zampino del Dottor Allen, e quando mi fece l’occhiolino mentre mi dava gli auguri, ne ebbi la conferma.
Il Dottor Allen accettò il matrimonio senza problemi, ma ci chiese un compromesso: avrebbe dato la sua benedizione (e anche se Andy diceva che non gliene importava, io sapevo che era il contrario) solo se Andrew avesse accettato di diventare il successore del suo ufficio e se avesse incominciato a lavorare lì part-time il pomeriggio, senza naturalmente tralasciare gli studi.
Lui accettò a patto che avrebbe dovuto incominciato da zero; niente preferenze o comportamenti di privilegio solo perché era il figlio del capo.
Andrew era fatto così, ed io lo amavo più di qualsiasi altra cosa.
La cerimonia fu semplice, fu celebrata in una piccola chiesa nel Greenwich Village. Non invitammo molte persone; solo famiglia e qualche amico stretto. Per l’occasione arrivarono mia nonna e mia zia dall’Italia.
I sui genitori ci regalarono casa, non senza proteste del mio neo-marito, evitandoci così le spese di un eventuale mutuo. Era dislocata su due livelli più la soffitta, completamente di mattoni rossi, tra la quindici King Street e 13 Chartlon Street, nel distretto storico di Chartlon-King, sempre nel Greenwich Village; Andrew adorava quella zona e quello che stava bene a lui stava bene anche a me.
Adoravo quella casa; per me, che ero nata e cresciuta in un appartamento comunicante col ristorante, dove dovevo dividere la stanza con le mie due sorelle e i miei due fratelli, quello era il paradiso.
Appena entravi c’era l’ingresso, piccolo e accogliente, dipingemmo le pareti di un lilla chiaro e posizionammo un tavolo rotondo al centro; poi c’era la cucina, che era abbastanza grande da accogliere anche un divano a tre posti e il pianoforte di Andrew, quindi divenne cucinasoggiornosala da pranzo; al secondo piano c’era, poi, un breve corridoio con l’unico bagno e due camere, quella più grande divenne la camera da letto, mentre nell’altra ammassammo un po’ di roba inutile, fendendo per diventare una sottospecie di stanzino; poi c’era la soffitta, quello divenne il mo regno.
Andrew ed io la ripulimmo completamente trovando roba stranissima, da bamboline woodoo con tanto di aghi a una ventina di gufi impagliati…ci chiedemmo che razza di persona aveva vissuto in quella casa prima di noi. La soffitta divenne il mio laboratorio, con tanto di tele, cavaletti e il familiare odore di colore acrilico e tempera che mi faceva stare bene col mondo.
In fine c’era un piccolissimo giardino nel retro, dove Andrew dispose due sdraio e un tavolino da giardino bianco.
Ero così felice che sarei potuta morire in quel momento e non avere nessun rimpianto.
Da allora erano passati due anni ed io e Andy avevamo trovato la nostra quotidianità che ci faceva stare così bene.
La mattina prendevamo insieme la metro e andavamo all’università, poi ognuno si recava verso la propria facoltà; io quella d’arte, lui quella di legge, a entrambi mancava lo stesso numero d’esami per la laurea.
Ci concordavamo appuntamento nel campus della scuola alle tre e mezzo e andavamo a mangiare nel ristorante dei miei; dopodiché lui andava da suo padre, come sancito nell’accordo, ed io restavo ad aiutare i miei fino alle sette.
Io ero la prima a tornare a casa, cucinavo e mi mettevo a studiare. Andrew rientrava verso le nove, cenavamo e guardavamo un po’ di tv; lui appoggiava il capo sulle mie gambe ed io gli carezzavo distrattamente i capelli biondi e spettinati che tanto adoravo…a parte quando c’erano degli esami in vista, in quel caso non cenavamo nemmeno... ma passavamo tutta la serata chini sui libri. Poi andavamo a letto e a quel punto…beh…a quel punto luci rosse per i minorenni. Durante i weekend organizzavamo sempre gite a Central Park; ci sceglievamo un bel posto vinco a lago e ci passavamo tutta la domenica, tra libri e coccole varie; oppure visitavamo qualche museo o galleria d’arte interessante.
Adoravo profondamente la nostra quotidianità e le nostre abitudini.
Avevamo una vita frenetica e piena d’impegni…e un posto per un bambino proprio non lo trovavo.
Per non parlare del fatto che, molto probabilmente, non sarei risuscita a sostenere un esame di laurea con un pancione di nove mesi o un neonato in braccio. E anche Andrew avrebbe dovuto rinunciare ai viaggi che tanto amava fare ogni due o tre mesi…e poi non mi ci vedevo proprio genitori.
In conclusione…stavo da schifo.
Cercavo di non guardare tutte quelle donne panciute e incintissime che mi stavano attorno. Quando vidi la ragazza di prima uscire dallo studio medico iniziai a sudare freddo.
L’infermiera cinguettò allegramente il mio nome –Signora Allen, è il suo turno!-.
Io considerai l’idea di scappare a gambe levate, ma poiché i miei ventitré anni mi avevano dato un po’ di giudizio, mi alzai con difficoltà dalla poltroncina verde e mi diressi versa la porta dietro alla quale mi aspettava la ginecologa e il suo verdetto ormai scontato.
Entrai nella stanza e la ginecologa, la Dottoressa Wilder, bassina e sulla cinquantina, con espressione gentile, mi sorrise.
Si alzò dalla sua sedia e mi raggiunse.
-Allora, - disse sempre sorridendo, -cosa ti porta qui?-
Io deglutii e risposi al suo sorriso con uno stentato, -Credo di essere…ehm…incinta…- wow, ero riuscita a dirlo, non credo di esserne capace al primo colpo!
-Oh…davvero?- il sorriso della ginecologa si moltiplicò –bene…di quando sei in ritardo?
-Ehm…quattro settimane.- e abbassai lo sguardo, avevo tentennato prima di costringermi ad andare da un medico.
-Hai aspettato parecchio, eh? Sempre meglio tardi che mai! Allora hai gia fatto un test?-
Io annui meccanicamente e scavai nella mia borsa a tracolla, ci misi un po’ per trovare quello che cercavo.
Estrassi tutti e quattro i test e li appoggiai sulla scrivania. La dottoressa sollevò un sopracciglio divertita, poi prese un foglio da un cassetto –Sono tutti positivi…bene. Hai avuto dolori simili a quelli mestruali?-.
-Si.- mormorai e scrisse qualcosa con la penna.
-Gonfiore al seno?-
Annui.
-Perdita di appetito? Nausea? Stanchezza?-
La risposta era “si”, a tutte le domande.
La ginecologa finì di compilare la sua scheda e poi si alzò di nuovo, -Bene…ora vieni con me, faremo un’ecografia, così saremo sicuri al cento per cento.-e mi fece segno di seguirla nella stanza adiacente.
Al centro di quella c’era posta la macchina per l’ecografia, la dottoressa stese sul lettino un lenzuolino di carta e mi fece segno di stendermi –Su, avanti! Non aver paura!- m’incoraggiò, ma non ebbe risultati.
Mi stesi sul lettino e mi alzi la maglia, lei mi spruzzò del liquido blu, freddo e gelatinoso sul basso ventre e inizio a stenderlo con uno strano aggeggio.
Io tenevo gli occhi chiusi e l’unica cosa che riuscivo a sentire era il ronzio prodotto dai macchinari.
Questo fin quando la dottoressa non esclamò con voce alta e allegra –Eccolo!-.
Girai la testa verso il monitor così in fretta che senti uno strano scricchiolio nel collo.
Trattenni il respiro rumorosamente.
-Ecco qui!- continuò la dottoressa, -E’ questo puntino!- anche se non c’è ne era bisogno me lo indicò con il dito.
In monitor trasmetteva un’immagine nera e bianca, al centro di questa, piccola, quasi invisibile una macchiolina conteneva qualcosa.
Il mio bambino.
Mio e di Andrew.
Non sapevo come mi sentivo in quel momento… avevo tanta voglia di piangere e ride assieme e non sapevo se era per felicità, incredulità, confusione e chissà cos’altro.
La dottoressa guardò comprensiva il mio volto, probabilmente era abituata a quel tipo di espressione a pluri sentimenti.
Continuò a muovere l’aggeggio sul mio ventre e iniziò a segnare delle cose con il mouse.
-Vediamo un po’…6 mm…è di un mese e pochi giorni, cara. Circa 26.- mi disse –Sembra tutto apposto…ora sentiamo il battito, ok?-.
Anche senza ricevere nessuna risposta la ginecologa continuò e premette un tasto sulla tastiera.
Tum-tum-tum-tum…
-Lo senti?- mi disse –Questo è il battito del tuo bambino!Ahhh…il miracolo della vita!-
Io non la ascoltavo, tutta me stessa seguiva quel rumore regolare e perpetuo.
-Bene! Abbiamo finito! Puoi ripulirti ora…- e mentre stampava le ecografie mi passò dello Scottex.
Tentai di togliere la gelatina dalla pancia e seguii la dottoressa nella stanza di prima.
Questa si sedette e mi fece segno di sedermi a mia volta.
-Bene…so che ora può sembrare tutto inverosimile e ti starai ponendo tutte le domande del mondo…ma avere un bambino è la cosa più fantastica che possa capitare, credimi! Ora tieni questa…- e mi passò una specie di cartellina rossa -…dentro ci sono le ecografie, il mio numero di telefono e di cellulare e il giorno della prossima visita, ok? Non esitare a chiamarmi per qualsiasi cosa…e mi raccomando…dirlo al più presto a tuo marito!-.
Sbattei le palpebre un paio di volte e guardai la dottoressa son sguardo interrogativo.
-C…come fa lei a sapere…che non…- ma non mi fece finire.
-Tesoro…dammi del tu, figurati!...faccio questo lavoro da così tanti anni che tutte le pazienti sono per me di libri aperti!-
Mi alzai dalla sedia e mi avviai verso l’uscita, non prima di ringraziarla, però.
Lei mi rispose gioviale e mi fece gli auguri.
Uscii dall’ambulatorio di ginecologia con i pensieri azzerati del tutto.
Venti minuti più tardi ero sulla metropolitana, che come sempre era super affollata, e tutto iniziò a diventare più limpido.
Stavo per avere un bambino.
Io…madre. Certo, avrei dovuto aspettare nove mesi…anzi otto…ma il concetto era quello.
Oddio, avrei dovuto partorire! Deglutii due volte cercando di non andare nel panico.
Andrew…mi serviva Andrew al più presto. Mi sentivo sul bilico delle lacrime, e sapevo che se avessi iniziato difficilmente avrei smesso.
Guardi l’orologio sul cellulare…erano ancora le undici di mattina. Non avevo né la voglia né la capacità mentale di andare in facoltà, anche se ero ancora in orario per la lezione del professor Gregory sull’arte rinascimentale.
Sempre sull’orlo di una crisi di lacrime arrivai fino a Greenwich Village e in pochi minuti arrivai a casa.
Con mano tremante misi la chiave nella toppa ed entrai. Mi appoggiai alla porta alle mie spalle fino ad arrivare a sedermi per terra.
Sapevo di essere incinta, me lo sentivo da quattro settimane…da quando ero in ritardo, anche se non ero mai stata particolarmente puntuale con il ciclo.
Avevo fatto quattro test di gravidanza uno dietro l’altro, e tutti dai risultati positivi, ma avere la conferma da un medico…vederlo e sentirlo…beh… era tutto un altro paio di maniche.
Afferrai il telefono dalla tracolla e cercai tra la rubrica il suo numero, lo conoscevo a memoria ma non avevo la coscienza di mettermi a ricordare numeri.
Trovai subito il nome, era il primo dell’elenco.
Andy.
Schiacciai il tasto di chiamata e attesi.
Lo sapevo…era egoistico da parte mia chiamarlo in quel momento ma cos’altro potevo fare?
-Pronto?-
Tirai su col naso, appena sentita la sua voce sentii le lacrime iniziare a scorrere.
-A…Andy…-
-Ju…che succede? Stai piangendo?- la voce dall’altra parte del telefono assunse sfumature preoccupate.
-Andy…t..ti..p…preg…o..shh…vieni!-
-Dove sei? Ju, cos’è successo?-
-No..n…per…telefono…-
-Dove sei? Sto arrivando!-
-S…so…sono a…casa…- mormorai distrutta.
-Corro!-
Sapevo che ci avrebbe messo un po’ per arrivare, così mi feci forza e mi alzai, diretta verso il bagno.
Mi sciacqua il viso con acqua fredda, gelida, e mi fissai allo specchio.
Non avevo precisamente una bella cera. Ero abbastanza scura di pelle, con occhi castani abbastanza grandi e corti capelli neri tagliati in modo sfilato sul viso ovale. Fisicamente non ero molto alta né particolarmente formosa, con la mia seconda scarsa, come ci si aspettava da una di origini mediterranee, tutt’altro.
Mi ero sempre considerata banale, specialmente confrontata con Andrew, che era la personificazione dell’essere prefetto, e non solo ai miei occhi.
Ora ero pallida e spossata, con gli occhi leggermente arrossati, di certo non ero nel mio splendore ottimale.
Mi trascinai verso la stanza da letto e non accesi neanche la luce, mi buttai sul letto matrimoniale e mi ci abbandonai aspettando Andrew.
Arrivò circa quaranta minuti dopo; sentii la porta aprirsi frettolosamente e i suoi passi urgenti.
Probabilmente aveva visto la mia borsa gettata a casaccio sul pavimento.
-Judith!- urlò con una strana voce.
-Sono qui!- gracchiai invece io, cercando di alzare al massimo il volume della mia voce.
Riuscii a percepire i suoi passi sulla scala e in men che non si dica spalancò la porta della stanza da letto.
-Cos’è successo?- mi chiese subito avvicinandosi al letto e a me.
Appena fu abbastanza vicino mi ci gettai addosso, rifugiandomi in un abbraccio che avevo atteso per tutta la mattinata e ricominciai a singhiozzare.
-Ehi…- sussurrò dolcemente, accarezzandomi i capelli, -Mi vuoi dire cos’è successo, prima che mi venga una attacco di cuore?-
Io mi strinsi ancora di più a lui, nascondendo il visto nell’incavo del suo collo, profumava di dopobarba e di caffè.
Come stavo bene fra le sue braccia!
Dio, quanto lo amavo!
Singhiozzai nuovamente e gli allungai la cartellina, per far questo purtroppo mi dovetti staccare dal suo abraccio.
Mi sentii di nuovo piccola e indifesa con il peso di tutto sulle spalle.
Gli occhi che tanto adoravo mi guardarono confusi quando gli misi la cartellina tra le mani.
-A…aprila…- gli dissi.
-Non è una richiesta di divorzio, vero?- mi chiese sorridendo un po’ nervoso.
Agitai il capo in senso negativo.
-Beh…meno male! Non sarà nulla che non potrò sopportare allora!- e incominciò ad aprire.
Afferrò curioso e preoccupato l’ecografia e la squadrò, vidi chiaramente il segno interrogativo materializzarsi sulla sua testa.
-Ehm…amore…cos’è?-
Me lo chiese con un’espressione così candida che mi sentii sciogliere.
-E’…u…n’ ecografi…a.- spiegai.
-Ah.-
-Andy…- respirai profondamente -…sono incinta.-
Il sorriso che aveva sul volto gli scivolo dalla bocca, e pose lo sguardo sull’ecografia come se gli fosse stato aperto un nuovo mondo sotto agli occhi.
-Questo è…è…- mi chiese tentennando. Cattivo segno, Andrew non tentennava mai, era sempre sicuro di se.
-Si.- annui.
Dopodiché rimase in silenzio per alcuni minuti, che a me arrivarono come ore.
-Da quando tempo lo sai?- era serio.
-Da…ehm…un po’…ma stamattina ne ho avuto…la conferma dalla ginecologa.-
-E cosa aspettavi a dirmelo?!-
Pregai che non fosse arrabbiato.
-Io…volevo esserne…sicura, ecco! Mi dispiace, dispiac…- ma con un segno m’intimò il silenzio e riprese a fissare l’ecografia con sguardo serio.
-Non è uno scherzo, vero?-
-Come puoi pensare che sia uno scherzo?! Come puoi pensare che…che sti... a scherzando su una cosa del genere?!- sentivo le lacrime salire di nuovo.
Io attendevo in silenzio, poi all’improvviso mi sentii travolgere e le sue labbra si posarono sulle mie, nel bacio più dolce che avevo mai ricevuto.
Rimasi interdetta.
Aveva un sorriso a cento e più denti e sembrava brillare di luce propria. Mi abbracciò altrettanto dolcemente e posò lo sguardo sull’ecografia per l’ennesima volta.
-Mio dio è…è fantastico!- esclamò poi, all’improvviso, riabbracciandomi.
Io boccheggiai stretta tra le sue braccia.
Mi staccai, a malincuore, e lo guardai negli occhi.
-Tu…tu non sei arrabbiato?-
Mi guardò come se avessi detto un’eresia.
-Il motivo per il quale stavi piangendo era questo? Pensavi…davvero pensavi che non volessi nostro figlio?- era deluso, lo sentivo, forse avevo fatto qualche errore di calcolo…probabilmente più di qualche errore.
Non sapevo cosa rispondergli.
-Si…cioè no…non lo so!- mi arresi, infine –E’tutto così strano! Ho paura.- ammisi mordendomi il labro inferiore.
-Amore…è una cosa che abbiamo fatto in due, ok? Io sono qui, non devi aver paura!- era bellissimo e felice.
Cercai di nuovo il suo abbraccio, che non tardò ad arrivare. Mi strinsi a lui il più forte possibile, desideravo non lasciarlo mai.
-Ti ho mai detto che ti amo?- mi soffiò nell’orecchio dolcemente.
Io sorrisi sotto i baffi e mormorai un distratto, -Si…qualche volta…-.
-Beh, - riprese lui –lasciatelo ridire: ti amo!-
-Anche io.- gli risposi fra la lacrime; e per la prima volta in quel giorno potevo dare un senso a quelle goccioline d’acqua che fuoriuscivano dai miei occhi castani: ero felice, dannazione! Ero dannatamente felice!
Non potevo dire di non avere più paura, sarebbe stata una bugia, ma fin quanto avrei avuto Andrew con me, avrei superato tutto.
Anche la mia, la nostra, gravidanza.
 













Ed eccomi che mi ributto in una fanfict più grande di me!
Ditemi cosa ne pensate, mi raccomando!


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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