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Autore: Sarah M Gloomy    13/12/2016    0 recensioni
Terzo libro della serie The Exorcist. Amabel e gli altri esorcisti hanno appena esorcizzato uno spirito di ottavo livello e, ancora spossati, sono costretti a confrontarsi con una persona che ha avuto un ruolo fondamentale nel loro passato. Johannes, o una persona che gli somiglia molto, si trova davanti a loro e sembra intenzionato a ripristinare il vecchio Ordine. Altro sta succedendo e Bel non sa a chi chiedere aiuto, perché oltre a salvare gli spiriti, la città e le persone che ama, deve salvare anche se stessa da un passato che tenta di ucciderla.
Genere: Commedia, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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            Sono immobile, in attesa. Vicino a me ci sono delle persone che camminano e parlano. Chi mi tiene stretta a sé non sembra aver cattive intenzioni. Per lo meno mi sta proteggendo ed evita che me ne esca dal mio nascondiglio, urlando terrorizzata. La sua mano attira l’anta dell’armadio, socchiudendola e proteggendoci dai cattivi che sono fuori. E dei cattivi che sono dentro, non se ne parla?
Chiunque sia lì fuori, si sta allontanando. «Ehi, Bel. Io lascio la mano, quindi non urlare.»
Warren! Non sono mai stata così tanto felice di sentire la sua voce. Mi abbandono in un sospiro liberatorio, mentre lui si rannicchia a controllare l’esterno. Già Warren è un cosino niente male, il buco che ha scelto come protezione sembra farlo diventare un gigante. Mi trovo presto schiacciata alla parete, tra il suo grosso sedere e dei documenti dall’aspetto molto rigido e antico. Spero che non soffra di meteorismo perché, nemici o amici, alla prima zaffata me ne esco. «La via sembra libera.»
   «Mm.» È il massimo dell’espressione che posso dare.
Warren esce, ammetto di aver esultato dentro di me, e mi trascino dietro di lui. Rimaniamo acquattati nell’oscurità. In attesa. Forse non siamo in pericolo, ma non è detto. Prendo i documenti con cui ho condiviso la mia protezione, sbirciando quel tanto da notare che il caro e vecchio Marco si è firmato con il nome di Johannes. Non credo nei lapsus, soprattutto se suoi.
Prendo dei fogli dall’aspetto ufficiale, visto che sono scritti in latino, e li infilo nelle tasche interne. Warren sta ancora osservando il corridoio. Tutti i suoi muscoli sono pronti allo scatto. Gli picchietto con un dito sulla spalla, facendo cenno di ritirarci. Fine. È troppo lunga da spiegare che arrivo proprio dal suo obiettivo.
Annuisce, girando il capo e scrutando l’altra parte del corridoio. Non sento passi ma, se Warren è così concentrato, significa che non avremo nessun tipo di protezione. Molto bene. Mi mancava giusto un po’ di pepe nella mia vita.
Mi fa cenno di seguirlo. Procedo dietro di lui. Si muove furtivo come in passato. Forse abbiamo mantenuto più di quello che immaginiamo. Si avvicina a una bocca di sfiato, poco più grande delle sue spalle. Muovo le labbra, ma è chiaro quello che gli ho detto. «Stai scherzando?»
Mi solleva con una mano, facendomi entrare in quel tubo da risonanza magnetica. Per incitarmi, mi mette una mano sul sedere. Mi irrigidisco, pensando che un colpetto significa “vai”, una palpata è solo da porco. Striscio, sentendo lui alle spalle che si chiude lo sfiato. Molto bene. Ora siamo chiusi dentro a una gabbia di … non so neppure di cosa è fatto, se non che mi passa aria da tutte le parti. Sono tipo in una corrente ascensionale, pronta per spiccare il volo contro il soffitto stretto. Guardo alle mie spalle. Warren è piegato nel tentativo di passare. Insomma, un’enorme talpa che non sa come procedere.
Guardo attraverso una fenditura, trovandomi a fissare un’enorme stanza. Mi fermo, sentendo alle mie spalle Warren che mi incita a camminare. No. La stanza deve essere la dimora di qualcuno. Un po’ per il letto appoggiato il muro, un po’ per quell’aria di intimità che lasciavano sempre le stanze del convento. Di tutti e allo stesso tempo solo tua. «Bel!»
Da lì, vedo dei fogli appoggiati allo scrittoio. Fogli che chiedono solo di essere letti, perché ci sono poche persone che acconsentirebbero a dormire nell’Ordine, con la consapevolezza che le tue membra riposano sulle ossa dei vecchi esorcisti. Sono poche. E io ho un buon motivo per avere quei fogli. Mi sposto appena e con una serie di torsioni da circense, riesco ad appoggiare i piedi nella grata. Puntello, ma ho la forza di un bruco.
Warren corruccia la fronte poi scosta i miei piedi. Con due manate vigorose la grata scivola oltre, lui la tiene con la mano in modo che non faccia troppo rumore. Allunga una mano, io la prendo e scivolo lungo la parete. Scendo a terra come un gatto, alzo una mano e sollevo due dita. Il tempo è relativo: può occorrermi due minuti come venti.
Il mio primo obiettivo sono i fogli. Sembrano conti e bollette inerenti all’Ordine. Trasferimenti di oggetti, materiali e quant’altro da … Italia. Noi veniamo dall’Italia, o per lo meno l’Ordine ha quelle origini. Prendo il foglio inerente ai trasferimenti. Chase imbastirà su qualcosa.
Trovo un foglio con lo stemma della polizia. Essendo stata un’indagata per aggressione, quello stemma è stato il mio peggior nemico. Sfortunatamente, la lingua usata è sconosciuta. Prendo anche quello.
Tutto il resto sembra essere inutile per la mia causa.
Guardo la porta, ma con calma mi dirigo verso il comodino vicino al letto. Apro il cassetto. La stanza di una persona dice un sacco di lei: io capisco che ha la mania di doversi soffiare il naso di notte, perché ci saranno almeno dieci pacchetti di fazzoletti. Infilo la mano e, presa da un’ispirazione, invece di grattare con le unghie la base del cassetto controllo la parte sopra. Quella che nessuno guarda, la parte che se non fossi stata costretta a nascondermi sotto il tavolo non avrei mai scoperto. Sorrido. Prevedibile? È stato attaccato qualcosa, della stessa grandezza di un taccuino. Lo prendo, infilandomelo in tasca. Basta, devo andarmene.
Tutti i miei sensi me lo dicono, quindi corro da Warren, allungo la mano e mi faccio sollevare. Mi appoggio con il fiatone alla parete claustrofobica, Warren chiude la grata e come me attende. Aspetta qualcuno che non arriva, ma che i nostri sensi hanno previsto. E quando il tempo sembra essersi dilatato fino a essere insopportabile, inizio a strisciare.
Da dietro Warren mi guida, pizzicando il polpaccio destro o sinistro a seconda della direzione da prendere. Mi manca il fiato, ho bisogno di aria e solo quando inizio a non poterne più sento l’aria esterna. Mi acquatto, pronta a sgusciare con la testa per controllare la zona. Warren mi tranquillizza alle spalle. «Fuori c’è Chase.»
Ecco, questo non è quello che chiamo rassicurare una persona. È come se mi avesse detto che fuori c’è un serial killer che prende di mira solo le ragazze bionde di sedici anni, il cui nome inizia per A. Sono la prima della lista.
Prima di poter pensare di ritirarmi, sono spinta fuori da Warren con un’altra palpata nel sedere e, allo stesso tempo, due mani mi attirano all’esterno. Vorrei dire “luce”, ma non so quanto tempo è passato, se non che il cielo è nero quanto la notte e dei fulmini stanno devastando la serata. Chase non è felice di vedermi.
   «Che diavolo.»
   «Dobbiamo tirare fuori Warren.»
Julia mi sta guardando, fa un leggero cenno con il capo e io capisco che gli ha detto tutto. Molto bene. Aiuto Chase a fare uscire Warren. Se non fosse così pompato di muscoli, quel ragazzo, uscire da una grata non sarebbe un grande problema. Chase si gira a fissarmi, stringe le labbra e poi guarda Warren. «Dobbiamo andarcene da qui. Ora.»
Mi prende per mano, trascinandomi dietro la scia di Warren. Julia arranca piano, trasportando anche il mio zaino troppo gonfio. Saliamo in un’auto, presa in prestito ovviamente, con Warren alla guida e Julia al posto del passeggero. La fiducia di Chase nei miei confronti è allarmante: non mi ha ancora lasciato la mano. Niente romanticismo. Solo che non si fida che io rimarrò in auto.
Mi tira verso di lui. «Come diavolo ti è saltato in mente?»
   «Avevo delle supposizioni.»
   «Sì, su Johannes. Julia me lo ha riferito. Dovevi chiamare me.»
Con la mano libera riesco a prendere tutta la mia refurtiva. Vedo gli occhi di Warren osservarmi dallo specchietto retrovisore, Julia abbandona lo sguardo dalla strada per fissare il nostro piccolo tesoro. «Non avevo prove. Sono andata dentro per trovare qualcosa a mio favore.»
Chase mi lascia finalmente la mano, prendendo per primo il taccuino di Johannes. Corruccia la fronte, fissando le pagine. «Questo non è quello che mi ha dato Marco.»
Julia allunga una mano, per prenderlo. Chase la lascia fare. Lartia ha avuto modo di avere, anche se per poco, tra le sue mani il quaderno degli appunti di Johannes. Se c’è una persona che può dirci se quello è veramente suo, quella è proprio lei. «Sì. È il suo diario. Guarda … questa nota l’ho scritta io.»
A bordo pagina, quasi invisibile a causa dell’orecchia, una mano diversa aveva scritto “perché?”. È la mia stessa domanda. Riprendo il taccuino, mentre Chase osserva i fogli che ho sgraffignato. Osserva per primo quello in cui si parla dei trasferimenti del materiale da una qualche zona dell’Italia. Ci rimugina su più di quanto ho fatto io. Li ho presi solo perché confermava la nostra sensazione di essere nel vecchio Ordine. Lui vede qualcos’altro. Forse vedrà altro anche nella perversione. «Sono riuscita ad andare in una specie di sotterraneo. Lì ho trovato delle tombe.» Nessuna reazione. Apparentemente sta cercando di decifrare le scritte in italiano. Deglutisco. «Le nostre tombe.»
Warren sterza bruscamente, trovandomi distesa tra le gambe di Chase prima che il ragazzo ritrovi il controllo dell’auto. Mi alzo, la mano di Chase appoggiata alla mia spalla, la voce di Warren scandalizzata. «Cosa?»
   «Sì.» Scosto dolcemente la mano di Chase. Con Warren al volante, sempre meglio mettersi la cintura di sicurezza. Me la faccio passare, agganciandola stretta. «Ho trovato delle lapidi con i nostri nomi.»
   «Ci sono anche le nostre ossa?»
Ora sono io a fissare Julia, sollevando un sopracciglio. Per chi mi ha preso? Non vado a scavare nelle tombe! Neppure in quella di mia proprietà. È rivoltante scavare e pensare che se si trovano delle ossa sono le tue! Chase mi fissa cauto. «Sicura che siano le nostre?»
   «Ho letto solo la lapide di Damide, ma sono otto … e i calcoli sono facili da fare.»
   «Troppo facili.» Ammette con voce arrendevole.
   «In più c’è dell’altro.» Continuo cauta.
Warren mi scruta dallo specchietto. «È il caso che mi ferma?»
   «No.» Dice Chase. «Voglio mettere più spazio possibile tra noi e l’Ordine.»
Usciamo dalla strada sterrata, ci introduciamo nella via non ancora trafficata per ritornare alla città. Un groppo mi sale in gola, ma non è ancora il momento di pensare, di abbandonare al dolore. Devo solo stringere un altro po’ i denti. «Sotto al nostro tavolo, quello dell’Ordine, ci sono degli strani simboli. Sembrano … non so … ho subito pensato a un rituale per creare un immortale. Sul tuo nome, Chase, c’era scritto …»
   «Laceratio.» Mi precede cauto. Lo sa. Lo aveva intuito già da sé, forse lo aveva letto già il giorno che ci siamo seduti intorno al tavolo. Forse. Oppure quel giorno Marco ha continuato a parlare proprio per non farci vedere il visibile. È molto probabile che vicino ai nostri nomi, poco visibili se non lo si cerca, ci sia scritto il modo in cui siamo morti. Aggiunto alla scritta “immortalitas”, tutto porta a un rituale.
Un rituale che richiama all’immortalità.
Un rituale che chiede delle vite per essere portato a termine.
Un rituale che, stranamente, ha avuto bisogno delle nostre vite per essere portato a termine.
   
 
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