Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: Giuu13    14/12/2016    2 recensioni
Una scommessa porterà una piccola nazione scorbutica a conoscere una dolce e solare ragazza (molto umana) e a scontrarsi con la vita che gli uomini sono costretti a vivere, nel bene e nel male.
Dal testo:
«Vi troverò un italiano che preferisca l’Italia a voi, che non vi ami proprio, che vi detesti. Poi dovrete baciarmi il culo, idioti!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Fu lo squillo del cellulare a svegliarlo, sentirsi quella dannata suoneria preimpostata nelle orecchie non era affatto un bel risveglio. Allungò una mano verso il comodino. Sul display lampeggiava il nome di suo fratello.
«Cosa c’è» rispose borbottando.
«Ciao, Lovi! Come stai? Tutto bene? Ma sei ancora a letto? Sono le undici passate, dovresti vivere la vita e alzarti presto come faccio io» Romano dovette allontanare il telefono dall’orecchio per non farsi bucare i timpani dalla voce acuta e squillante di Veneziano. Dopo aver parlato a lungo del più e del meno – Romano aveva solo ascoltato, Veneziano era l’unico a parlare, come sempre – Veneziano fece una piccola pausa, forse per prendere fiato.
«Come va la ricerca dell’italiano?» chiese cautamente. Sapeva che per il fratello quella era una questione di principio.
Romano si irrigidì, la testa sprofondata nel cuscino, il pugno chiuso, ancora arrabbiato per il giorno prima.
«Non voglio parlarne» disse solo.
«Ma Lovi, non devi tenerti dentro le cose»
«Feli, sono stanco, devo far colazione e ho un sacco di lavoro arretrato» attaccò il telefono senza sentire le lamentele del fratello. Aveva abbastanza fastidi.
Vide la cartelletta dei messaggi illuminata, l’aprì e trovò un messaggio da parte di Chiara.
Non so se ci sarò la settimana del vostro incontro tra amici.
Cosa voleva dire? Non ci sarebbe stata, perché? Lei doveva esserci, non poteva prendersela perché lui se ne era andato arrabbiato da casa sua, non poteva. Era stata lei ad essersi comportata male, a dire di dimenticarsi del loro patto e quindi della loro amicizia nata, appunto, da quel patto. Romano aveva sperato che anche se lei non voleva come amico, sarebbe andata con lui al meeting. Quel messaggio cambiava tutto. Le rispose chiedendole il perché, lasciò passare cinque minuti di orologio, rimase seduto sul bordo del letto a fissare le lancette dell’orologio e poi il telefono. Non gli rispose. Le inviò lo stesso messaggio e nel frattempo si lavò, si vestì e fece una veloce colazione; tornato in camera non trovò nessun messaggio, così decise di chiamarla, ma lei non gli rispose.
«Cazzo, rispondi, Chiara» disse mentre scendeva le scale, il telefono all’orecchio per un ultimo tentativo.
Si ritrovò per l’ennesima volta davanti a quella villetta, davanti a quel prato curatissimo; suonò ancora a quel campanello e vide, ancora, la testa rossa di Chiara aprire la porta.
«Adesso mi spieghi due cose: cosa significa quel cazzo di messaggio e perché cazzo non hai risposto ai messaggi e alle telefonate» Romano stava urlando e pensò che non era il modo esatto per farsi rispondere, soprattutto quando l’apertura di un cancello dipendeva dalla persona a cui si stava urlando.
Chiara uscì di casa e si avvicinò al cancello. Era più pallida dal giorno prima e due occhiaie le circondavano gli occhi scuri.
«Non so se ci sarò, niente di più. E non ti ho risposto perché sapevo mi avresti parlato in questo modo» disse lei facendo la linguaccia.
«Me lo avevi promesso, avevi detto che ci saresti stata. Ho fatto anche l’amichetto, come volevi tu» si stava proprio umiliando davanti a quella ragazza. «E avrei continuato a farlo se solo me lo avessi permesso, ma non per via del patto, ma perché sarei stato felice di esserti amico»
Cosa diavolo sto dicendo. Non credeva possibile di averlo detto ad alta voce, i suoi pensieri erano arrivati alla bocca senza filtri, senza blocchi; aveva detto quello a cui aveva pensato per tutta la notte in un soffio, senza rendersene conto e senza potersi fermare.
«Lo dici solo per dire, non lo pensi davvero» disse Chiara, un po’ di speranza negli occhi.
Romano si morse la lingua. Ormai aveva cominciato, non poteva tirarsi indietro.
«Non lo dico tanto per dire, mi piaceva esserti amico, mi piaceva che tu mi fossi amica. Pensavo piacesse anche a te» disse mentre le guance cominciavano a colorarsi.
«Ma a me piaceva»
«Allora perché mi hai detto di andarmene?» chiese senza capire.
«Perché non so se ci sarò quella settimana» sussurrò Chiara abbassando la testa, teneva le mani sulle sbarre di ferro che li dividevano. Romano sospirò.
«Non importa, magari ti libererai dell’impegno. Chissà?»
Chiara scosse la testa in modo così impercettibile che il ragazzo non notò il movimento.
«Ora posso mostrarti quanto sono imbattibile a scacchi?» chiese Romano spostando il peso da una gamba all’altra. Si sentiva a disagio, non era da lui comportarsi così. Quando si ha a che fare con una persona più fragile, si tende a essere forti, più forti, per compensare l’altro; si tende a essere forti per due, per entrambi.
«Hai portato il re nero?» chiese Chiara alzando lo sguardo illuminato.
«Oh»
Ci vollero venti minuti prima di trovare il pezzo nero, lo cercarono ovunque in giardino; Romano aveva indicato il punto esatto dove lo aveva visto cadere quando lo aveva lanciato – cosa che procurò al ragazzo una ramanzina –, ma quando guardarono il pezzo non c’era. Alla fine lo trovarono in una buca fatta dal cane di Chiara, una specie di topo allungato, che si divertiva a rubare le cose dei padroni per sotterrarle da qualche parte.
 
«Scacco matto»
Era la terza partita che Romano vinceva, ed era la terza rivincita che Chiara chiedeva, non credeva possibile di aver perso ancora.
Il moro scosse la testa e si sdraiò sulla moquette, le braccia tese verso l’alto; Chiara sistemò i pezzi, il re nero era un po’ morsicato, si vedevano i segni dei denti del cagnolino.
Sarà un ottimo ricordo. Pensò.
Romano stava osservando Chiara sistemare i pezzi al loro posto, quando vide un sorriso immensamente triste comparirle sul volto per poi scomparire non appena lei si accorse di essere osservata. Gli fece la linguaccia e saltò sul letto, prese da una mensola un libro.
«È il mio preferito» disse sfogliando alcune pagine.
Romano si avvicinò per leggere il titolo.
«Ti piace Il Piccolo Principe? Ma non è per bambini?»
Lei gli tirò un pugno sulla spalla.
«No, non è per bambini. Lo hai mai letto? No? Be’, dovresti» disse Chiara facendo l’offesa.
Mentre Chiara parlava della vita dello scrittore de Il Piccolo Principe entrò in camera la madre, una donna sulla cinquantina con occhiaie e borse sotto gli occhi.
«Tesoro, sono tornata a casa prima così possiamo stare un po’ insieme, ti va se-» la donna si fermò sulla soglia, guardò la figlia sorridente vicino al ragazzo sconosciuto, forse quello di cui parlava a tavola. Aveva gli occhi buoni come aveva detto Chiara, il sorriso era al contrario e le sopracciglia aggrottate. La donna sorrise, era esattamente come glielo aveva descritto la figlia.
Romano vide la donna ferma sulla soglia sorridere, non capiva se stesse guardando lui o la figlia. Si alzò e si passò una mano tra i capelli.
«Allora io vado, ci vediamo un altro-»
«NO!»
Sia Chiara che Romano si voltarono spaventati verso la porta, la madre aveva urlato e ora si copriva la bocca pentita.
«Volevo dire che puoi restare, non devi andartene. Io e lei staremo insieme più tardi, resta pure» la donna parlava trattenendo la felicità e la paura che il ragazzo se ne potesse andare.
«Mamma…» Chiara lanciò un’occhiata alla donna che alzò le mani, un sorriso strano in faccia.
«Scusa, hai ragione. Allora io vado, Romano, è stato bello incontrarti. Spero che tornerai presto» uscì dalla stanza quasi correndo, si sentirono i suoi passi veloci sulle scale e la porta della cucina chiudersi.
«Come fa a sapere il mio nome»
«Potrei aver parlato un po’ di te qualche volta. Sai, non ho avuto molti amici ed è per questo che si è comportata in quel modo» distolse lo sguardo dalla porta da cui era scappata la madre e tornò a parlare di De Saint-Exupéry.
 
Romano non riuscì ad andare a trovare Chiara per una settimana intera: ci furono riunioni e incontri continui, uno dopo l’altro un po’ in tutt’Italia; lui e suo fratello seguirono i loro superiori, assistettero ad alcune riunioni in cui non potevano intervenire e rimasero ad ascoltare i problemi nazionali da risolvere.
«Veh, Lovi, non ne posso più. Voglio tornare a casa» Veneziano era sdraiato sul tavolo della caffetteria, aveva tra le mani una brioche al cioccolato che pucciava nel cappuccino ormai freddo.
«Smettila di lamentarti, anche io vorrei essere da un’altra parte» disse l’altro dando un morso al suo bombolone alla crema.
«Io me ne vado. È stato bello rivederti, fratellone» Veneziano si alzò tutto contento e Romano dovette trattenerlo dal lembo della camicia.
«Se io devo sorbirmi quegli inutili discorsi lo farai anche tu» disse mettendo la camicia del fratello nei pantaloni.
Veneziano si sedette con un rumoroso sospiro, si agitò un po’ sulla sedia e poi crollò nuovamente sul tavolo; Romano credette che si fosse calmato, così da poter finire il suo bombolone in pace e, nel caso quello non lo avesse saziato, finire la brioche del fratello.
«È che stasera devo vedermi con Kiku: ha detto che sarebbe venuto a trovarmi e che mi avrebbe cucinato qualcosa, che mi avrebbe fatto vedere un suo nuovo videogioco»
«Stai tranquillo, stasera sarai a casa tua»
Le parole del fratello riuscirono a calmarlo e durante le due successive ore interminabili di chiacchiere e documenti e grafici, Veneziano non si mosse inquieto sulla sedia neanche una volta, sicuro che la sera avrebbe visto l’amico. Romano invidiava un po’ il fratello, era tanto bravo a farsi degli amici come lui lo era a tenere la gente a distanza. Aveva dovuto fare un patto per ottenere la sua prima amica. Un giorno forse, mettendo da parte orgoglio e dignità, gli avrebbe chiesto qualche consiglio in materia.
 
Mancavano tredici giorni al meeting mondiale e Romano sperava che Chiara riuscisse a liberarsi da quell’impegno; non ne avevano ancora parlato apertamente, ma lo avrebbe fatto, magari il giorno prima.
Quel giorno trovò il cancello aperto e quando suonò vide la porta socchiudersi e la testa di Chiara fare capolino ed invitarlo ad entrare.
La casa non era più tanto luminosa e Chiara era avvolta in un pigiama lungo e pesante, aveva il viso scavato e le occhiaie scure.
«Ciao, Romano» la madre della ragazza non era messa tanto meglio, era solo più colorata in viso e manteneva la robustezza che la contraddiceva.
Dalla cucina uscì un uomo alto e possente, aveva i capelli bianchi e la barba di qualche giorno; anche lui sembrava provato. Le occhiaie erano per caso il marchio distintivo di quella famiglia?
«Sono Giorgio, il padre di Chiara» si presentò lui allungando una mano. Romano la strinse, aveva una presa debole, nonostante gli strati di muscoli che vedeva sotto la sottile camicia.
«Non hai ricevuto il messaggio?» chiese sottovoce Chiara.
Quale messaggio? Lui non aveva ricevuto niente. Il ragazzo tirò fuori il telefono per controllare ancora, ma nella casella non c’era nessun nuovo messaggio.
La ragazza annuì e prese Romano per una mano e lo portò di sopra. I suoi genitori dissero che sarebbero rimasti in cucina, per qualsiasi cosa loro erano lì.
In camera Chiara si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi; Romano si sedette alla scrivania a guardarla. Respirava rumorosamente, il petto si alzava e si abbassava sotto quella maglia pesante.
Sentiva qualcosa dentro dirgli di andarsene, di scappare immediatamente, qualcos’altro di rimanere e parlare.
«Stai bene?»
Bell’inizio, tu si che sei un grande oratore. Si schernì da solo.
Vide Chiara annuire debolmente nel letto.
«Perché mi riesce difficile crederci?»
«Non credo di poter venire alla tua riunione» disse voltandosi a guardare il soffitto. «Sono malata»
«Stai tranquilla, magari ti riprendi, mancano tredici giorni» disse lui facendo l’indifferente, guardando le persiane socchiuse.
«No. Sono malata a termine»
Romano inclinò la testa a destra, prese a tirarsi dei pizzicotti alla gamba. «Che vuol dire?»
«Voglio dire che mi sarebbe sempre piaciuto essere rossa, che questi non sono i miei capelli, che i miei sono corti e scuri. Che tra tredici giorni io non ci sarò più»
Si sentivano gli uccellini cantare, il rumore delle rare macchine che passavano per la via e le voci di alcuni bambini in lontananza.
Cominciava sempre con un lieve pizzicore agli occhi che pian piano aumentava d’intensità, con il vuoto improvviso nella testa come se la capacità di ragionamento e di pensiero sparissero momentaneamente, con il cuore che si stringeva lentamente, con qualcosa di duro e forte che stritolava il cuore e i polmoni facendo mancare l’aria; era da tanto che non sentiva gli occhi prudere, che non sentiva il cuore fermarsi per qualche istante, istanti che sembravano minuti, ore, giorni. Era da tanto che non gli si appannava la vista impedendogli di vedere la punta del naso. Da tanto tempo non provava quel tuffo al cuore che durava un’eternità, un tuffo negativo, un tuffo nel dolore e nello strazio; si sentiva più leggero, si sentiva senza più il cuore, come se si fosse perso nella caduta, come se si fosse finalmente liberato da quei 300 grammi fastidiosi e fragili. Provò a trattenere le lacrime. Se ne trattieni una le trattieni tutte, ma se te ne scappa una, per quanto piccola sia, un’altra la seguirà e poi un’altra ancora e una quarta, fino a quando non avrai più liquidi in corpo. Il pianto scuote tutto di te: dal cuore che batte irregolare e forte, ai polmoni che cercano aria, che creano i singhiozzi e si comprimono e si rilassano in modo spasmodico; le mani che si aprono e chiudono, che non sanno dove stare, cosa stringere e cosa picchiare; le gambe che si avvicinano al petto, che ti trasformano in un riccio chiuso nel suo dolore, che si mettono a protezione di quell’organo piccolo e leggero così fragile, che tentano di limitarne le crepe e i tagli inutilmente.
Romano aveva imparato a piangere in silenzio, senza emettere alcun suono, nessun singhiozzo sarebbe mai uscito dalla sua bocca. Pianse un quarto d’ora, seduto alla scrivania ad osservare Chiara stesa, bianca e fragile. Pianse con dei sussulti impercettibili, con le lacrime che bagnavano maglia e pantaloni; piangeva senza far rumore, senza disturbare. Le mani si torturavano, si stringevano forti per impedire qualsiasi movimento violento, per arginare la voglia di distruggere; le gambe chiamavano per salire al petto per impedire che il cuore si crepasse, chiedevano di fare da muro, da protezione.
In quel quarto d’ora Romano chiese di poter tornare indietro, di cancellare la scommessa che aveva fatto con Alfred e Arthur e la successiva conoscenza con Chiara; avrebbe preferito cancellare tutto, avrebbe preferito rimanere fuori da tutto quello strazio, avrebbe preferito non sapere come Veneziano si sentisse ogni volta.
Avrebbe preferito morire.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Giuu13