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Autore: VeganWanderingWolf    23/12/2016    0 recensioni
questa è la seconda storia della serie '4 di picche' - Vero che Danny si aspettava di poter rivedere qualcuno dei “colleghi” dei 4 di picche, ma forse non così presto e in una situazione tanto potenzialmente grave. Non solo. Dal suo passato rispunta una vecchia conoscenza che sa essere tutt’altro che innocua. E per finire, sembra che la sua vecchia conoscenza abbia individuato con precisione uno dei suoi punti deboli per eccellenza… e che sia ad un passo dall’affondarci le zanne…
Genere: Comico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '4 di picche'
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Capitolo 29

(NECROMANZIA PORTAMI VIA!)

 

Il quartiere che corrispondeva all’antico ghetto ebraico di Tairans si riassumeva in una manciata di stradine non particolarmente lunghe e tra loro vicine, scoprì Danny quel pomeriggio inoltrato, sul far della sera; e appurò anche che quel luogo non aveva ancora del tutto perso il suo antico fascino, mentre vi si inoltrava di buon passo insieme ad Uther. Al punto che, se solo non fossero stati sospinti dalla fretta di togliersi dalla strada rapidamente, in modo da lasciare il meno possibile un’eventuale traccia odorosa che potesse rivelarsi utile per i due mezzi lupi che avevano seminato poco più di un’ora prima, Danny avrebbe volentieri rallentato il passo e ridotto il ritmo della sua andatura fino a quello più adatto ad una vera e propria passeggiata contemplativa.

La struttura di base delle case era rimasta quella originale: pareva come se si stringessero tutte assieme per proteggersi dall’eventuale arrivo di venti gelidi e forti, avevano la moderata altezza di due piani bassi che ricalcava l’uso di riservare il piano terra al negozio e quello superiore all’abitazione, e in ogni loro aspetto esprimevano una riservatezza dignitosamente rigorosa, in bilico tra l’eleganza modesta e un pizzico di mistero esoterico che affondava le radici in chissà quali credenze di biblica antichità. Nemmeno l’odore, per quello che poteva ricavarne Danny – e non era poco grazie al suo poderoso fiuto da mezzo lupo -, era da meno: un sentore di polvere e di carta vecchia, come un incartapecorimento generale, aleggiava nell’aria che sembrava infilarsi in quelle viuzze strette e ancora pavimentate a pietra sconnessa per poi immobilizzarvicisi trattenendo il respiro, mischiandosi ad un lieve sentore di muffa e di cibi che sembravano contenere generosi dosi di cavolo e formaggio nel menù.

Non da meno, Danny notò anche che mantenere il riserbo assoluto in un quartiere semi-spopolato non doveva essere cosa ardua: sembrava che diverse di quelle case fossero perlomeno disabitate, se non proprio abbandonate, o che i loro abitanti e proprietari facessero del loro meglio per farlo credere. Sebbene avesse viaggiato più tra i boschi che tra gli agglomerati umani nel corso della sua vita, Danny aveva girato abbastanza posti con i ‘4 di picche’ e aveva sentito Kumals dipingere abbastanza scenari pescando dalle sue memorie ed elargendo pittorici quadri con le sue descrizioni e tramite i suoi arguti commenti, da riconoscere quella generale sensazione di dove il tempo sembra essersi fermato. E per quanto riguardava un ghetto ebraico, nonostante tutto il tempo che era passato dalla seconda guerra mondiale, sapeva che non era difficile sentirvi aleggiare, forse anche per auto-indotta suggestione, una specie di clima cauto e severamente preoccupato, come ingobbito su un rancore inestinguibile nel suo essere perfettamente ben motivato e sull’insinuante sospetto che fosse sempre bene passare il resto della vita delle generazioni future a non abbassare mai troppo la guardia e a dedicare una saggia occhiata di sospetto a qualsiasi cosa mettesse piede in un quartiere come quello senza appartenervi.

Il ‘nemici o amici…? In ogni caso, pur sempre stranieri a questo mondo in cui vi state immergendo. Passate pure, perché in ogni caso non potrete capire del tutto…’ sembrava un fantasma impalpabile che circolava strisciando lungo i muri, con aria dignitosamente distante e guardingamente indifferente, quanto acutamente penetrante e vivacemente intelligente.

«È questo, no?» domandò Uther, sottraendo Danny ai suoi pensieri contemplativi e divaganti mentre realizzava nel contempo di essersi fermato di fianco all’altro senza quasi accorgersene, semplicemente assecondandone in automatico il movimento.

Si ritrovò a fissare una delle tante case di quella via, come le altre così stretta e incassate tra le sue vicine che, a starle davanti, sembrava che stesse cercando di mimetizzarsi fra le sue consimili; un effetto che complessivamente sembrava una specie di voluto gioco di prospettiva, in modo che tutte le case sembrava cercassero di mimetizzarsi reciprocamente tra di loro. Un concetto inafferrabile e ambiguo anche solo a cercare di immaginarselo, forse esattamente il concetto base di un labirinto di specchi, anche se a differenza di quello, lì le cose avevano un aspetto così concreto e solido e antico che sembrava rimandarsi alla terra stessa.

Niente in particolare, sospettò Danny, avrebbe mai indotto lui o Uther a fermarsi proprio davanti a quella casa, se non fosse stato per il numero civico corrispondente a quello indicato loro da Kumals. Il numero era scritto nelle consuete cifre arabe, ma al di sotto di esse c’era anche una scritta in lettere abjad*, che Danny poteva supporre che fosse la trascrizione in parole del numero, così come poteva essere tutt’altro.

«Sì, è questo.» confermò, aggrottando pensosamente la fronte. Fu tentato di chiedere ad Uther se stavano davvero per entrare nella casa di un necromante ebreo (di etnia e non di religione), e se per caso l’altro fosse a conoscenza di qualche modo di fare che era meglio adottare a quel proposito, ma aveva la netta sensazione che Uther non fosse affatto più edotto di lui in materia. Per un momento rimpianse di non aver fatto più domande a Kumals, ma sperava di potersi affidare completamente al fatto che, semmai ci fosse stato qualcosa di importante che lui e Uther avrebbero dovuto sapere, Kumals l’avrebbe detto loro senza alcun bisogno di domandarlo. D’altro canto, lui non gli aveva rivolto la precisa domanda ‘Kumals, c’è qualcosa che io e Uther dovremmo sapere prima di mettere piede nella casa del tuo amico necromante ebreo?’.

«Beh, allora…» disse Uther, con un’alzata di spalle e il tono di chi parla tanto per dire qualcosa, alzando la mano per bussare alla porta, visto che non c’era traccia di campanelli o batacchi o altri strumenti per chiedere il permesso di entrare.

Con gesto rapido e istintivamente riflesso Danny gli afferrò il polso con una mano fermandolo, poi glielo lasciò precipitosamente andare rendendosi conto dell’eccessività del suo gesto quando avrebbe semplicemente potuto dirgli di aspettare per fermarlo.

Sotto lo sguardo interrogativo, e leggermente sul chi va là in caso di guai in arrivo, con cui Uther lo stava fissando, Danny borbottò con la faccia rivolta alla porta «Forse dovremmo darci una ripulita prima…?»

Uther considerò le sue parole e dedicò una lenta occhiata ad ognuno di loro. Danny non aveva bisogno di farlo per ricordare esattamente com’erano conciati, ed anzi preferiva evitare, nel caso un’ulteriore occhiata potesse anche peggiorare l’idea già fin troppo chiara di come si presentavano alla vista, nonché ad un olfatto anche molto meno sviluppato del suo.

Nel tentativo di rendersi ancora meno rintracciabili dai due mezzi lupi che sicuramente avevano tentato di seguire la loro traccia odorosa, e per confondere quindi il più possibile il loro odore, lungo la strada si erano di tanto in tanto fermati brevemente per provvedere con qualche rapido stratagemma di fortuna al loro “camuffamento odoroso”. E dopo essersi rotolati in un canale di scolo di acqua a lato di una delle strade più antiche della parte vecchia di Tairans, essersi strusciati contro svariate cose come lenzuoli stesi ad asciugare nel retro di un cortile dal muro rapidamente scavalcabile e sommariamente immersi nel mucchio di foglie e altri detriti arborei prima ordinatamente ammucchiato in un altro giardino, e per finire in bellezza e soprattutto dopo essersi infilati direttamente dentro dei cassetti dell’immondizia e aver un poco sguazzato in una piccola fontana in una via in quel momento deserta, il loro aspetto generale era a dir poco impresentabile. Persino per i loro usuali standard di presentazione, cioè.

Se non altro, per la prima volta da che aveva messo piede a Tairans, Danny era addirittura felice che Kumals non fosse lì, a vedere in quali condizioni stavano per bussare alla porta del suo conoscente serio e fidato e loro unico contatto di valido appoggio. D’altro canto, qualche frase come ‘mi scusi, ho le scarpe un po’ infangate, ha una pedana o uno straccio sulle quali potrei lasciarle prima di entrare?’ era assolutamente insufficiente considerando com’erano ridotti in quel momento lui e Uther.

Quest’ultimo lo stava guardando tra il complicemente divertito e l’ironicamente perplesso, un’espressione che Danny trovò assomigliasse singolarmente a quella di un ragazzino colmo di impudica fierezza per l’essere riuscito a ridursi in uno stato pietoso alla fine di una giornata di scorazzamento giocoso in tutti i luoghi più sporchi che è riuscito a trovare. Trattenne un sorrisetto solo grazie ad un repentino spostare lo sguardo da quell’espressione e ad uno sforzo di concentrazione seria.

Non c’era bisogno che Uther gli dicesse qualcosa per esplicitare meglio la sua espressione, che gli ricordava ad un tempo tanto il fatto che non avevano modo di ‘darsi una ripulita’ lì nel bel mezzo della strada, quanto il sospetto che a quel punto cercare di ridarsi un minimo di aspetto decente era un’impresa semi-disperata.

Danny sospirò. «Come prima cosa, almeno, spieghiamogli che abbiamo dovuto seminare dei mezzi lupi.»

Uther annuì, senza tuttavia fare alcuno sforzo per togliersi dalla faccia quell’espressione divertita che dava chiaramente ad intendere quanto ritenesse che quell’improvviso bisogno di Danny di ‘non fare una pessima prima impressione’ era inadatto a lui al punto che sembrava stesse facendo dell’auto-ironia, e rialzò la mano e bussò alla porta con un allegro risuonare delle nocche sul legno massiccio e vecchio, dalla vernice scrostata.

A Danny non rimase altro da fare che sperare con tutte le sue forze che perlomeno Kumals gli avesse dato il numero civico giusto, mentre attendevano risposta.

Poco dopo la porta si aprì con uno scatto fibrillante, eppure si schiuse solo di poco più di una spanna, facendoli quasi sussultare di sorpresa e stupore, mentre una voce da dentro domandava con tono neutro eppure in qualche modo appena minaccioso un «Sì?» che non faceva alcun mistero del fatto che avrebbero fatto meglio ad avere un ottimo motivo per disturbare.

«Hem… il signor Mordecai…?» riuscì a chiedere Danny, infastidito nell’udire il suo tono uscirgli un poco roco e decisamente nervoso e incerto.

Seguì un breve silenzio, prima che la voce risuonasse di nuovo. «Può darsi. Chi lo cerca?»

Danny e Uther si scambiarono solo un breve sguardo, col quale tuttavia si ritrovarono semplicemente a rimandarsi a specchio un’espressione molto simile di perplessità, poi Danny si avvicinò un poco e molto cautamente alla stretta apertura della porta appena dischiusa chinandosi un po’ in avanti.

«Ci manda Kumals.» disse, riscontrando che se non altro la sua voce era un po’ più decisa ora.

In risposta ricevette un silenzio che gli fece perdere buona parte delle sue migliori speranze, e che suonava fin troppo riflessivo alle sue orecchie tese.

«Oh, e siamo ridotti in questo stato perché abbiamo dovuto seminare dei mezzi lupi.» cinguettò con fare tra l’accattivante e l’ironico Uther, Danny sospettò più a beneficio suo che per quello del signor Mordecai che sembrava esitare ad aprire più di così la porta.

Nemmeno Uther avesse appena inconsciamente pronunciato la corretta formula di ‘Apriti sesamo!’, la porta si spalancò di colpo, facendo un poco sussultare di riflesso Danny e facendogli riportare immediatamente lo sguardo con cui stava cercando di rivolgere un’occhiataccia a Uther direttamente su di essa.

Si ritrovò a fissare un uomo che aveva tutto l’aspetto di uno scalcagnato e allampanato profeta folle, alto e magro, vestito di quella che sembrava una specie di tunica nera a primo sguardo (e ad uno sguardo più approfondito Danny realizzò trattarsi di una specie di grembiule nero simile a quello usato da fabbri et similia un tempo, che gli stava troppo corto), sopra ad un paio di pantaloni lunghi di tela e ad una maglietta sempre di tela, entrambi scoloriti dall’uso, con lo sguardo spiritato di due occhi spalancati su di loro ai lati di un lungo naso e un poco celati dalla capigliatura costituita da capelli ricci castani.

«Avete detto mezzi lupi?» domandò loro l’uomo, guardandoli dall’alto in basso con il capo proteso verso l’alto, come se stesse parlando con delle voci nella sua testa piuttosto che con due persone in carne ed ossa, osservandoli con quell’angolatura in un modo che sembrava pieno di dubbio ma pazzamente attento e vispo.

Danny richiuse la bocca di colpo, cancellando qualsiasi intenzione di tentare di dire qualcosa che stava cercando di farsi venire in mente senza troppo risultato, e quindi la riaprì per rispondere un incerto «Sì…»

Di fianco a lui, Uther contemplava quell’apparizione con un’espressione tra il sorpreso e il cinicamente perplesso, e molti altri commenti inespressi che sicuramente gli stavano puntualmente attraversando la testa. Danny si interrogò se tra quei commenti potesse esserci qualcosa a riguardo di qualche sostanza allucinogena che i necromanti usavano d’abitudine.

«Bene… molto molto bene…» commentò a quel punto il necromante in questione, mentre li squadrava da capo a piedi con quella che sembrava un’occhiata un po’ più terrena.

«Davvero?» chiese con sincero stupore Uther, alzando un sopracciglio.

L’uomo sembrò riscuotersi maggiormente, e lo guardò come se avesse notato solo in quel momento la sua presenza, lanciandogli per la precisione un’occhiata piuttosto stizzita, come se ritenesse che Uther si stesse soffermando su delle quisquiglie.

«Avanti, venite dentro.» disse, con un tentativo di pomposo invito imperioso che suonò più che altro frettolosamente e nervosamente affaccendato, spostandosi in modo da permettere loro di entrare, e gesticolando ampiamente col braccio per esortarli maggiormente, mentre gettava nervose occhiate da una parte e dall’altra lungo la strada, con fare furtivo.

«E ci siamo anche riusciti, a seminarli.» puntualizzò Uther, mentre lui e Danny entravano, come tentativo di rendere meno agitato l’uomo.

«Oh, sì, certo, certo.» disse quello per tutta risposta, distrattamente e come se ritenesse anche quello un particolare del tutto marginale, sbattendo la porta immediatamente dopo il loro ingresso, e subito iniziando a chiudere una impressionantemente numerosa e varia gamma di lucchetti, serrature, sbarre di ferro e altri solidi chiavistelli e lucchetti dall’aria pesante. Danny invidiò per un momento un tale arsenale da barricamento; solo chi era appartenuto ai ‘4 di picche’ poteva immaginare in quante occasioni sarebbe stato prezioso potersi assicurare con tanta abbondanza che qualsiasi cosa li stesse inseguendo potesse essere perlomeno rallentata da una porta ben chiusa.

L’istante successivo, tuttavia, Danny era tutto teso nell’esplorazione del nuovo ambiente.

Fin da quando la porta era stata spalancata, era stato investito da un poderoso insieme di odori a dir poco nuovi e bizzarri per lui, nel quale era riuscito a distinguere con qualche difficoltà qualche elemento che poteva riconoscere, perlopiù sentori di polveri metalliche, di terra bruciacchiata o fertilmente umida, di radici seccate e di pergamena muffita e inchiostro incrostato, cera di candela, e forse qualcosa che assomigliava vagamente a qualcuno di quegli acidi usati per trattare i cadaveri per imbalsamarli.

Necromante’** ricordò a sé stesso, per cercare di frenare o almeno arginare con la ragionevolezza il perché di quel sentore di morte conservata e sistemata con meticoloso ordine analitico e sperimentale, che gli faceva non solo storcere il naso, ma anche desiderare di non doversi cacciare dentro una stanza saturata di quegli odori. A dirla tutta, credeva che i necromanti si limitassero a cercare di dialogare con i morti, più che dedicarsi all’imbalsamazione.

Sospinti da un più che mai frenetico Mordecai, Danny e Uther si ritrovarono ad attraversare molto rapidamente un brevissimo e strettissimo corridoietto d’ingresso, evitando come meglio riuscì loro di inciampare in una serie di pesanti tappeti polverosi che coprivano il pavimento, di sbattere contro un attaccapanni reso invisibile dalla moltitudine di abiti pesanti e dai colori cupi che non oltrepassavano le gamme del marrone, del grigio scuro e del nero, mischiate insieme in una sovrapposizione in cui il singolo indumento diventava pressoché indistinguibile, di attardarsi ad osservare le immagini dei quadretti ad olio e dai colori anche lì cupi e bui e perciò difficilmente distinguibili allineati in ordine caotico sulle pareti laterali e arcuate in una piccola volte a botte sulla loro testa (e persino lì sembrava che vi fossero appesi quei quadretti), e finirono per ritrovarsi in una stanzetta dove finalmente l’uomo li aggirò e superò smettendo di incitarli da dietro come se fosse posseduto da una fretta del diavolo.

A quel punto Danny e Uther si fermarono sulla soglia della stanza, percorrendola interamente con lo sguardo, e facendosi almeno un’impressione generale, perché soffermarsi con precisione su ogni singolo elemento sarebbe stato impossibile, non solo perché l’ambiente era saturo di un’incredibile quantità e varietà di oggetti, ma anche perché vi regnava un notevole caos.

Nel guazzabuglio confuso di ogni sorta di cose in quell’ambiente avvolto in una pesante penombra, in cui non entrava nemmeno un’oncia della luce esterna, bloccata interamente dalle pesanti tende color verde scurissimo che coprivano le due strette finestrelle scavate nelle spesse pareti, Danny riuscì a distinguere che la stanza era sommariamente divisa in quattro ambienti. Al centro c’era un curioso tavolinetto rotondo e dalle lunghe gambe che sembrava uscito da una sala da tè di un salotto inglese della prima decade del ventesimo secolo, con intorno quattro poltrone tozze e piccole e vecchie. Due intere pareti erano interamente coperte da due ampie librerie di legno antico, talmente ricolme di volumi dal formato massiccio e pesantemente rilegati che era indecifrabile se le scaffalature stessero in piedi per la forza dei chiodi oppure per l’inserrata sovrapposizione alternata tra file di libri e ripiano di scaffale. Un’altra parete e uno degli angoli che la limitavano erano per buona parte occupati da un ripiano di marmo e un grande lavandino in pietra, e ogni centimetro d’essi era ricoperto da svariati oggetti, tra i quali recipienti in vetro e plastica e terracotta di ogni foggia e dimensione si potesse immaginare, da semplici ciotole con mortai fino ad alambicchi dotati di sottili colli arabescamente ritorti e convoluti, fogli scribacchiati, libri di ogni formato impilati aperti o chiusi, strumenti da lavoro e posate mischiate insieme e perlopiù incrostate di qualche sostanza semi-raggrumata o densamente semi-liquida e di aspetto più o meno colloso e sciropposo, pezzi di stoffa o di quella che sembrava pelle, strofinacci luridi o semplicemente consunti dall’uso ma puliti e ben ripiegati, piccoli pezzi di sasso o pietra che mostravano segni di incisioni o grattuggiatura, e qui e là rimasugli polverosi sparsi, becchi bunsen e porta-strumenti metallici o treppiedi per contenitori abbinati a vecchi e piccoli generatori di fiamma di vario tipo. C’erano anche cose che sembravano semplicemente avanzi di precedenti pasti, e che davano a quel banco un generale e singolare aspetto di una specie di miscuglio confuso e fin troppo intimo tra una cucina e un laboratorio. In un angolo c’era un piccolo camino, la cui cappa in pietra integrata nel muro della casa si perdeva sparendo in alto nel soffitto, e verso quest’ultimo angolo l’uomo si diresse immediatamente, ignorandoli per affrettarsi ad andare a rimescolare il contenuto di un liquido che stava sobbollendo leggermente sulla fiamma di un sommario accatastamento di pezzi di legna che bruciavano producendo più fumo che calore, sospettò Danny.

Quest’ultimo rimase ancora fermo accanto ad Uther, mentre entrambi riscontravano che lì dentro faceva decisamente troppo caldo e l’aria sembrava non venisse cambiata da parecchio, risultando perciò pesante, polverosa e con un sentore di muffa e umidità surriscaldata di sottofondo, come se si fosse stratificata pesantemente per giorni e giorni, forse settimane.

«Sedetevi pure.» disse loro l’uomo, come se si fosse ricordato di loro solo in quel momento, senza voltarsi nemmeno a guardarli e rimanendo concentrato a rimestare con un cucchiaio di legno nel piccolo paiolo sospeso sopra la bassa fiamma nel camino. Per l’ennesima volta da che erano entrati, allungò un braccio per afferrare uno dei piccoli contenitori disposti fittamente su una delle mensole in marmo scuro disposte accanto al camino e sopra il banco da lavoro, pescò con le dita lunghe e sottili un pizzico di quelle che sembravano foglie essiccate e lo gettò nel paiolo, prima di liberarsi del contenitore abbandonandolo sul ripiano, pulirsi le dita sfregandosele sul grembiule da lavoro troppo corto, e sporgere il braccio all’indietro, indicando loro senza nemmeno voltarsi il tavolinetto al centro della stanza.

Danny e Uther finirono per avvicinarsi al tavolino indicato loro e scegliersi due poltrone vicine, nelle quale si accomodarono con aria tutt’altro che rilassata, sedendo sul ciglio della seduta e continuando a guardarsi intorno. Era difficile smettere di cercare di assorbire ogni particolare possibile di quel luogo, per quanto riguardava Danny se non altro perché quella era la prima volta che metteva piede nello studio di un necromante.

Una volta seduto, lasciò vagare lo sguardo su pareti e soffitto, e fu allora che ebbe il sospetto stesse guardando il particolare effettivamente più caratteristico della stanza. Ogni superficie verticale libera delle pareti e il soffitto erano interamente coperti da quei piccoli ritratti ad olio che aveva già intravisto nell’ingresso, tutti di piccolo formato e incassati in cornicette di legno semplici o complicate da decorazioni, ma persino racchiuse in piccoli medaglioni o quadretti di quel tipo che le famiglie si fanno confezionare per ricordare i loro avi. Persino al lampadario, di foggia antica e di piccole dimensioni, e che Danny notò era dotato di otto bracci e non sette***, erano stati appesi ad ogni braccio con dei laccetti di pelle o di spessa stoffa quei quadretti. In quella penombra, e per via del fatto che la stragrande maggioranza di quei piccoli ritratti era stata dipinta con colori dalle tonalità scure, Danny non riusciva a distinguere un granché dei tratti dei singoli volti, anche se da quello che intravedeva poteva desumere che si trattava di ritratti di persone di ogni età, genere, vestiario, estrazione sociale ed epoca, senza alcuna regola generale. L’unica cosa che tutti possedevano ugualmente era che davanti ad ognuno di essi c’era una piccola lampadina: quelli appesi in verticale alle pareti o penzolanti dal lampadario avevano ognuno davanti a sé un piccolo sostegno – di quelli più comuni da cimitero, oppure ricavati in qualche maniera più o meno arrangiata con pezzi di metallo o argento o rame o altro metallo lavorati sommariamente e saldati o piegati per fungere da sostegno –, mentre quelli appesi orizzontalmente al soffitto avevano delle piccole architetture nastri di stoffa o pelle che si attaccavano ai loro bordi e scendevano penzolanti per ricongiungersi al centro davanti al ritratto. Ognuno di quei sostegni reggeva o aveva incastonata una piccola lampadina elettrica, e le tipologie di quelle lampadine erano svariatissime, da quelle della tipica forma di candela elettrica di chiesa o cimitero fino a piccoli globi di vetro colorato che sembravano essere quelli delle luminarie natalizie. Tutte le lampadine erano ugualmente spente, e per quello che si poteva vedere in quelle che non erano incastonate direttamente dentro al sostegno che le teneva davanti ai piccoli ritratti, nessuna mostrava alcun segno di essere collegata a fili elettrici di alcuna sorta.

Per un momento, Danny soppesò quanto fosse possibile che tutte quelle persone ritratte fossero in qualche modo appartenenti ad un’incredibilmente varia schiera di antenati del signor Mordecai; poi, un insinuante e leggermente inquietante sospetto gli strisciò nella mente, e di nuovo gli sovvenne quella parola come se il suo subconscio stesse cercando di ricordargliela come indizio alla comprensione. ‘Necromante’.

«Tè?» giunse la voce dell’uomo, e Danny sussultò suo malgrado.

«Come?» domandò, con voce piuttosto flebile, voltandosi a guardarlo.

L’uomo sembrava aver finalmente un poco abbandonato l’intera dedizione al suo paiolo, e li stava guardando, impugnando saldamente il mestolo con cui aveva rimestato incessantemente fino ad un attimo prima. Aggrottò le folte sopracciglia, rivolgendo un’occhiata scorbutica ad entrambi, come se Danny non avesse dato la risposta che voleva sentire, e borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé e sé, mentre tornava ad agitarsi per la stanza, qua e là incespicando o urtando qualcuno di quegli oggetti e mobiliatura che la riempivano senza lasciare a tutti gli effetti un vero e proprio spazio sufficiente per muovercisi con agio.

«Credo che ci abbia appena offerto del tè bollente in piena estate.» osservò Uther, rivolgendosi a Danny, mentre guardava l’uomo armeggiare per trovare in mezzo a quel caos tre recipienti che assomigliassero vagamente a delle tazze, e iniziava a riempirli con mestolate del liquido che aveva scaldato nel paiolo.

«È tè alla menta iraniano****. Viene bevuto nel deserto, dove la temperatura è ben più elevata di questa in pieno giorno. Per effetto di reazione contraria, il vostro corpo potenzierà la sua capacità di raffreddarsi bevendolo, così che sentirete meno caldo.» spiegò scorbuticamente l’uomo, mentre sbatteva senza tante cerimonie le loro “tazze” davanti ad Uther e Danny, e si sedeva in una delle poltrone libere appoggiando davanti a sé sul tavolino la sua “tazza fumante”.

Danny fissò per un momento perplesso il suo bicchiere di terracotta e dall’aria impolverata che doveva essere la sua “tazza”, ma alla fine, dal momento che l’uomo li stava fissando con il suo sguardo penetrante da falco come se stesse aspettando, si decise a prenderla in mano e sorseggiare il tè. Se non altro, aveva un ottimo sapore.

«Hem, grazie.» esordì alla fine, dopo qualche sorsata.

Uther stava soffiando sulla sua tazza prima di ogni sorsata, per raffreddare la bevanda, come se la spiegazione di Mordecai non l’avesse affatto persuaso.

«Dunque, avete detto mezzi lupi?» li interrogò Mordecai, assumendo un tono colloquiale.

Uther lanciò una breve occhiata a Danny, che afferrò perfettamente cosa volesse dire: sembrava che quel Mordecai avesse una certa tendenza a ripetersi retoricamente. Danny fece del suo meglio per ignorare quell’osservazione. Dopotutto, quella era la persona che secondo Kumals poteva aiutarli, e per quanto sembrasse non avere un aspetto né un modo di fare da qualcuno che ha almeno buona parte delle rotelle al posto giusto o che girano per il giusto verso, il fatto che stesse parlando di ‘mezzi lupi’ come se per lui non fosse niente di nuovo o bizzarro o incomprensibile era un buon segno.

Danny prese dunque fiato, ed iniziò a raccontare. Kumals aveva detto di dire a Mordecai come stavano le cose in maniera precisa, così lui si concentrò sul suo riassunto essenziale cercando di esporre chiaramente tutto ciò che poteva sapere e che poteva servire. In fondo, però, essendo dopotutto quel contatto fidato di Kumals uno sconosciuto dai modi bizzarri e che non aveva esattamente già catturato la sua fiducia o simpatia, Danny sorvolò accuratamente su alcuni particolari, come quelli del suo passato con Mara, anche se ne descrisse la personalità a grandi linee per quello che la conosceva e perché non si poteva evitare di dire tutto ciò che si potesse a riguardo della leader del gruppo di mezzi lupi impazziti che erano il centro del problema, o come il fatto che al suo arrivo avesse trovato Uther all’attendamento.

Per tutta la durata del suo racconto, Uther si limitò ad ascoltare con fare tranquillo e distratto, ancora in buona parte intento a guardarsi attorno con curiosità; Danny abbandonò ben presto ogni speranza di un suo intervento che potesse finalmente gettare un po’ di luce sul perché diavolo esattamente la storia completa ed esaustiva iniziava con lui intento a partecipare ad una serata presso un falò nel bel mezzo dell’accampamento dei mezzi lupi ed in compagnia di Mara e dei suoi accoliti.

Per quanto riguardava Mordecai, non interruppe nemmeno una volta e ascoltò tutto il racconto con vivida attenzione, tenendo sempre quello sguardo fin troppo penetrante e allucinato, per quanto riguardava il gusto di Danny, puntato dritto su di lui.

«E questo è tutto…» Danny fu costretto ad aggiungere quando ebbe finito di raccontare. A quanto pareva, non solo Mordecai sembrava essersi immerso in pensieri tutti suoi e, pur continuando ad osservarlo con quell’attenzione maniacale, aveva lasciato passare diversi secondi di silenzio senza proferire parola, ma persino Uther sembrava essersi così distratto nel guardarsi intorno da non accorgersi che aveva smesso di parlare già da un poco.

Se non altro, il tè sembrava aver ottenuto l’effetto prodotto dal loro ospite, notò Danny, perché si sentiva decisamente meno accaldato, e anzi ora aveva quasi freddo. Il che era assurdo visto che era certo che in quella stanza stesse facendo un caldo infernale. Inoltre, dal momento che il debole fuoco nel camino sembrava essere stato gestito da un dilettante, l’ambiente era abbastanza affumicato già da quando erano entrati, e se non altro dunque la bevanda gli aveva dato un notevole sollievo alla gola, secca anche per il suo lungo soliloquio.

«Affascinante…» mormorò allora Mordecai, e Danny lo guardò meglio e con perplessità, cercando invano una nota di pungente sarcasmo in quel tono che, a tutti gli effetti, sembrava invece sinceramente affascinato «Non avevo mai sentito di mezzi lupi che si comportino in tal modo.»

Danny si imbronciò e incupì, anche se tentò di non darlo troppo a vedere. «In effetti, di solito non ci comportiamo affatto in questo modo.» specificò.

«Dunque tu sei un mezzo lupo.» osservò Mordecai, guardandolo con ancora maggiore interesse e un sorriso che iniziava a dipingerglisi in volto; un sorriso che aveva qualcosa di troppo storto per mostrare una vera e propria gioia o simpatia, e che mise Danny ancora più a disagio.

«Beh, sì. Credevo che Kumals gliel’avesse detto…» replicò, confuso.

«Oh, ad essere onesti…» rispose l’uomo, appoggiandosi allo schienale della piccola poltroncina su cui sedeva, e fissandolo attraverso le palpebre leggermente socchiuse in un’espressione contemplativa «Questo Kumals non mi ha detto proprio niente.»

Nel tempo sufficiente affinché quelle parole venissero rielaborate in una qualche maniera interpretativa dal suo cervello improvvisamente stranamente troppo poco reattivo rispetto al solito, Danny sentì una delle mani di Uther appoggiarglisi pesantemente su un braccio e aggrapparvicisi. Il suo sguardo si spostò subito verso l’altro, e si trovò a fissare un’espressione decisamente tesa e feroce, congestionata da uno sforzo immenso, che Uther stava rivolgendo con rabbia a Mordecai.

L’istante successivo, il corpo di Uther perse improvvisamente tutta la sua tensione e si afflosciò come se avesse perso ogni energia, e Danny lo vide crollare sopra il tavolo di tutto peso, mandando a cadere per terra diversi oggetti che ingombravano il ripiano tondo.

«Uther!» gridò, afferrandogli il braccio ormai privo di ogni forza a sua volta, e sporgendosi per un momento verso di lui, prima di realizzare che cosa non andava esattamente. Allora balzò in piedi, pur rimanendo accanto a Uther, e mentre con una mano cercava con fretta febbrile il punto del collo in cui potergli sentire il battito cardiaco, i suoi occhi pieni di furia si concentrarono di nuovo su Mordecai.

Quest’ultimo si era alzato in piedi di scatto nello stesso istante di Danny, ed aveva guadagnato in fretta la maggior distanza possibile, arretrando fino a toccare con la schiena il camino. Mentre Danny iniziava ad urlargli contro, cercò con la mano l’attizzatoio appeso alla mensola del camino e lo prese, pur tenendolo tranquillamente penzolante contro il suo fianco.

«Cosa diavolo gli sta succedendo?!» gridò Danny, la voce ringhiante tra i denti stretti, l’occhiata di fuoco diretta verso l’uomo, e le sue dita che finalmente intanto trovavano il punto giusto sul collo dell’esanime Uther, permettendogli di sentire il suo battito cardiaco ancora presente.

«Oh, beh, penso che dormirà per un po’. Non devi preoccuparti, mezzo lupo. A proposito, è davvero una fortuna che io abbia indovinato fin dall’inizio che sei un mezzo lupo, sai?» gli rispose quello, con fredda calma e un sorrisetto decisamente storto che gli incurvava le sottili labbra.

Danny lasciò perdere Uther e avanzò a grandi passi verso di lui, sicuro che in men che non si dica gli avrebbe strappato di mano l’attizzatoio e lo avrebbe inchiodato al muro per il collo con una mano sola, per fargli sputare immediatamente che cosa aveva fatto bere esattamente ad Uther e convinto a dargli subito qualcosa per farlo riprendere. Dopotutto, lui aveva la forza di un mezzo lupo, e quello era solo un essere umano necromante da strapazzo che dava del sonnifero ai suoi ospiti, e, amico o no di Kumals, Danny gli avrebbe poi anche fatto dire per filo e per segno che cosa diamine si era messo in testa di fare ad Uther e perché.

Ma i suoi passi risultarono tutt’altro che sicuri e fermamente e rapidamente intenzionati come si era aspettato; le sue gambe sembravano improvvisamente decise a piegarsi come se il suo corpo stesse aumentando di peso all’inverosimile, e il suo procedere divenne ondeggiante e incontrollabile, al pari della sua vista che si andava annebbiando fin troppo, persino per quella stanza con troppo fumo proveniente dal camino.

Solo allora, mentre perdeva l’equilibrio e si trovava costretto ad aggrapparsi con un braccio di lato al bancone da lavoro per non cadere, cercando comunque di avvicinarsi a Mordecai, realizzò il particolare fondamentale: se Uther era appena stato narcotizzato, era molto probabile che lo fosse stato tramite quel tè che lui stesso aveva bevuto.

Mordecai lo osservava con perfetta calma, senza muoversi, senza nemmeno tentare di fuggire o brandire con più intenzione intimidatoria l’attizzatoio che impugnava; una tranquillità decisamente eccessiva per qualcuno che sa cosa sia un mezzo lupo tanto quanto sa di aver appena fatto qualcosa per attirare su di sé la rabbia di uno di essi, che sta avanzando verso di lui.

Danny realizzò solo allora con rinnovato interesse le parole che l’uomo aveva appena detto.

«Cosa intendi dire?» domandò tra i denti stretti. Sentì la sua stessa voce come se provenisse da qualche altra parte, affaticata, ma si sforzò di scandire comprensibilmente ogni parola, mentre cercava con tutte le sue forze di vincere contro la gravità che lo stava attirando verso terra una battaglia che sembrava persa in partenza.

Per un momento, ebbe il desiderio di non trovarsi in quel punto preciso, di non aver tentato di scagliarsi contro Mordecai. Dal momento che ormai gli diventava sempre più chiaro, nonostante continuasse in ogni modo a resistervi con tutte le sue forze, che il suo corpo si stava afflosciando sempre più verso il pavimento e che la sua testa si andava addensando di una nebbia che non aveva niente a che fare con l’affumicatura da camino di quella stanza, per un momento desiderò essere rimasto accanto ad Uther privo di sensi, anche se razionalmente non aveva nessun senso: stava perdendo i sensi anche lui, e quando fosse stato incosciente, che fosse o meno fisicamente vicino all’altro, non avrebbe avuto nessuna possibilità di proteggerlo.

Udì improvvisamente un fracasso di alcuni oggetti che cadevano a terra e un tonfo sordo, e anche se i rumori sembravano lontani, quasi contemporaneamente vide appena delle figure dai contorni confusi di oggetti che rimbalzavano intorno alla sua faccia, e mentre sentiva un vago senso di quello che avrebbe potuto definire un urto doloroso contro tutto un lato del suo corpo, realizzò anche che il suo campo visivo era diventato orizzontale.

Tutti i suoi sensi si stavano lentamente spegnendo, per quanto lui lottasse, e il tamburo del suo cuore accelerato gli risuonava nel timpano quasi dolorosamente, ma comprese che doveva essere un’illusione, perché la sensazione di intorpidimento delle sue membra gli segnalava invece che il suo battito cardiaco stava rallentando. Continuò a lottare con tutte le sue forze, per mantenere gli occhi aperti e per cercare di convincere i suoi muscoli a rispondere alla sua volontà appannata, a venirgli in aiuto per permettergli di rialzarsi in piedi, piuttosto che giacere in quella stupida posizione, riverso sul fianco sul pavimento, alla mercé del pericolo.

Poi, udì la voce dell’uomo vicino a lui, che lo sovrastava dall’alto, e si irritò terribilmente perché i suoi sensi erano ormai così ottusi da non avergli segnalato quell’avvicinamento pericoloso dell’avversario.

«Intendevo quello che ho detto.» disse semplicemente la voce al di sopra di lui «Che sei fortunato ad essere un mezzo lupo come sospettavo. Altrimenti la dose che ho dato a te a quest’ora ti avrebbe già ucciso, invece che solamente addormentato.»

«Se osi far qualcosa ad Uther…» iniziò a ringhiare Danny tra i denti, sebbene non avesse idea di come gli stessero uscendo quelle parole, se era ancora in grado di parlare in modo comprensibile, perché ora le sue orecchie sembravano piene di ovatta, e il suono della sua stessa voce era solo una specie di soffocato ronzio lontano e confuso.

Ma sentì il rumore dei passi dell’uomo che si allontanavano come se avesse deciso che non gli interessava affatto ciò che stava cercando di dire. E quella fu l’ultima cosa che udì.

 

Soundtrack: All the right moves (One Republic)

 

Note per la comprensione:

* ABJAD: è l’alfabeto usato per le lingue ebraica e yiddish (e non solo). Non chiedetemi altro, perché sono tutt’altro che un linguista (purtroppo).

** NECROMANTE: la parola ha tra le sue radici il termine greco ‘necro’ (morto), per l'appunto. Ovvero, letteralmente e pressappoco per quel che ne so (come dicevo, non sono un ‘esperto’ in materia), necromante = evocatore di spiriti di defunti.

*** SETTE BRACCI: questa è sostanzialmente una battuta, perché a Danny viene da contare i bracci del lampadario e non riesce ad evitare di notare che non sono sette, sette come i bracci della classica Menorah (la lampada ad olio a sette bracci tipica della religione ebraica)

**** TE’ ALLA MENTA IRANIANO: esiste veramente, e davvero i suoi “benefici” se bevuto caldo quando ci sono alte temperature sono quelli spiegati da questo personaggio. Me lo fece scoprire qualche anno fa un amico, e devo dire che è buonissimo, e non assomiglia per niente al tè alla menta nostrano. Il perché sia diverso, confesso non l’ho ancora appurato, anche se ho un valido sospetto che sia per via della menta che viene usata, una qualità di menta che dev’essere tipica di certe regioni desertiche del Medio Oriente. Una volta ho sentito l’odore di una pianta di menta marocchina che mi ha ricordato l’odore e il gusto di quel tè, ma non so se sia effettivamente la stessa menta che viene utilizzata. Lo definisco ‘iraniano’ perché il mio amico che mi ha fatto conoscere questo tipo di tè è appunto di origini iraniane, e altre volte l’ho sentito definire così, ma credo che i confini di stato o di cultura abbiano ben poco a vedere con quelli della diffusione e dell’uso di questo tè. Ad esempio una mia parente lo ha bevuto proprio così, caldo in pieno deserto, offertole da beduini in Giordania.

 

Note dello scribacchiatore:

a voi che seguite la storia, mi dispiace: per il ritardo e per il fatto che questo capitolo avrei voluto risistemarlo per rendere più digeribili certe parti (a volte quando scrivo di getto viene fuori piuttosto concentrato). La cruda verità è che ho appurato, tanto per cambiare, di non aver abbastanza tempo, perciò mi tocca rifilarvelo così sennò si fanno le calende greche. Dovrei proprio prendermi un(a) beta-reader. Ma poi non avrei tempo di avvalermi della preziosa collaborazione. Quindi, per ora desisto e uso il tempo che ho piuttosto per continuare a scrivere altri capitoli.

Spero che comunque il risultato attuale sia decentemente leggibile.

Saluti, al prossimo capitolo!

 

  
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