Capitolo
29
(NECROMANZIA
PORTAMI VIA!)
Il
quartiere che corrispondeva all’antico ghetto ebraico di Tairans
si riassumeva in una manciata di stradine non particolarmente lunghe e tra loro
vicine, scoprì Danny quel pomeriggio inoltrato, sul far della sera; e appurò
anche che quel luogo non aveva ancora del tutto perso il suo antico fascino,
mentre vi si inoltrava di buon passo insieme ad Uther. Al punto che, se solo
non fossero stati sospinti dalla fretta di togliersi dalla strada rapidamente,
in modo da lasciare il meno possibile un’eventuale traccia odorosa che potesse
rivelarsi utile per i due mezzi lupi che avevano seminato poco più di un’ora
prima, Danny avrebbe volentieri rallentato il passo e ridotto il ritmo della
sua andatura fino a quello più adatto ad una vera e propria passeggiata
contemplativa.
La
struttura di base delle case era rimasta quella originale: pareva come se si
stringessero tutte assieme per proteggersi dall’eventuale arrivo di venti
gelidi e forti, avevano la moderata altezza di due piani bassi che ricalcava
l’uso di riservare il piano terra al negozio e quello superiore all’abitazione,
e in ogni loro aspetto esprimevano una riservatezza dignitosamente rigorosa, in
bilico tra l’eleganza modesta e un pizzico di mistero esoterico che affondava
le radici in chissà quali credenze di biblica antichità. Nemmeno l’odore, per
quello che poteva ricavarne Danny – e non era poco grazie al suo poderoso fiuto
da mezzo lupo -, era da meno: un sentore di polvere e di carta vecchia, come un
incartapecorimento generale, aleggiava nell’aria che
sembrava infilarsi in quelle viuzze strette e ancora pavimentate a pietra
sconnessa per poi immobilizzarvicisi trattenendo il
respiro, mischiandosi ad un lieve sentore di muffa e di cibi che sembravano
contenere generosi dosi di cavolo e formaggio nel menù.
Non
da meno, Danny notò anche che mantenere il riserbo assoluto in un quartiere
semi-spopolato non doveva essere cosa ardua: sembrava che diverse di quelle
case fossero perlomeno disabitate, se non proprio abbandonate, o che i loro
abitanti e proprietari facessero del loro meglio per farlo credere. Sebbene
avesse viaggiato più tra i boschi che tra gli agglomerati umani nel corso della
sua vita, Danny aveva girato abbastanza posti con i ‘4 di picche’
e aveva sentito Kumals dipingere abbastanza scenari
pescando dalle sue memorie ed elargendo pittorici quadri con le sue descrizioni
e tramite i suoi arguti commenti, da riconoscere quella generale sensazione di
dove il tempo sembra essersi fermato. E per quanto riguardava un ghetto
ebraico, nonostante tutto il tempo che era passato dalla seconda guerra
mondiale, sapeva che non era difficile sentirvi aleggiare, forse anche per
auto-indotta suggestione, una specie di clima cauto e severamente preoccupato,
come ingobbito su un rancore inestinguibile nel suo essere perfettamente ben
motivato e sull’insinuante sospetto che fosse sempre bene passare il resto
della vita delle generazioni future a non abbassare mai troppo la guardia e a
dedicare una saggia occhiata di sospetto a qualsiasi cosa mettesse piede in un
quartiere come quello senza appartenervi.
Il
‘nemici o amici…? In ogni caso, pur sempre stranieri a questo mondo in cui vi
state immergendo. Passate pure, perché in ogni caso non potrete capire del
tutto…’ sembrava un fantasma impalpabile che circolava strisciando lungo i
muri, con aria dignitosamente distante e guardingamente indifferente, quanto
acutamente penetrante e vivacemente intelligente.
«È
questo, no?» domandò Uther, sottraendo Danny ai suoi pensieri contemplativi e
divaganti mentre realizzava nel contempo di essersi fermato di fianco all’altro
senza quasi accorgersene, semplicemente assecondandone in automatico il
movimento.
Si
ritrovò a fissare una delle tante case di quella via, come le altre così
stretta e incassate tra le sue vicine che, a starle davanti, sembrava che
stesse cercando di mimetizzarsi fra le sue consimili; un effetto che
complessivamente sembrava una specie di voluto gioco di prospettiva, in modo
che tutte le case sembrava cercassero di mimetizzarsi reciprocamente tra di
loro. Un concetto inafferrabile e ambiguo anche solo a cercare di
immaginarselo, forse esattamente il concetto base di un labirinto di specchi,
anche se a differenza di quello, lì le cose avevano un aspetto così concreto e
solido e antico che sembrava rimandarsi alla terra stessa.
Niente
in particolare, sospettò Danny, avrebbe mai indotto lui o Uther a fermarsi
proprio davanti a quella casa, se non fosse stato per il numero civico
corrispondente a quello indicato loro da Kumals. Il
numero era scritto nelle consuete cifre arabe, ma al di sotto di esse c’era
anche una scritta in lettere abjad*, che Danny poteva
supporre che fosse la trascrizione in parole del numero, così come poteva
essere tutt’altro.
«Sì,
è questo.» confermò, aggrottando pensosamente la fronte. Fu tentato di chiedere
ad Uther se stavano davvero per entrare nella casa di un necromante
ebreo (di etnia e non di religione), e se per caso l’altro fosse a conoscenza
di qualche modo di fare che era meglio adottare a quel proposito, ma aveva la
netta sensazione che Uther non fosse affatto più edotto di lui in materia. Per
un momento rimpianse di non aver fatto più domande a Kumals,
ma sperava di potersi affidare completamente al fatto che, semmai ci fosse
stato qualcosa di importante che lui e Uther avrebbero dovuto sapere, Kumals l’avrebbe detto loro senza alcun bisogno di
domandarlo. D’altro canto, lui non gli aveva rivolto la precisa domanda ‘Kumals, c’è qualcosa che io e Uther dovremmo sapere prima
di mettere piede nella casa del tuo amico necromante
ebreo?’.
«Beh,
allora…» disse Uther, con un’alzata di spalle e il tono di chi parla tanto per
dire qualcosa, alzando la mano per bussare alla porta, visto che non c’era
traccia di campanelli o batacchi o altri strumenti per chiedere il permesso di
entrare.
Con
gesto rapido e istintivamente riflesso Danny gli afferrò il polso con una mano
fermandolo, poi glielo lasciò precipitosamente andare rendendosi conto
dell’eccessività del suo gesto quando avrebbe semplicemente potuto dirgli di
aspettare per fermarlo.
Sotto
lo sguardo interrogativo, e leggermente sul chi va là in caso di guai in
arrivo, con cui Uther lo stava fissando, Danny borbottò con la faccia rivolta
alla porta «Forse dovremmo darci una ripulita prima…?»
Uther
considerò le sue parole e dedicò una lenta occhiata ad ognuno di loro. Danny
non aveva bisogno di farlo per ricordare esattamente com’erano conciati, ed
anzi preferiva evitare, nel caso un’ulteriore occhiata potesse anche peggiorare
l’idea già fin troppo chiara di come si presentavano alla vista, nonché ad un
olfatto anche molto meno sviluppato del suo.
Nel
tentativo di rendersi ancora meno rintracciabili dai due mezzi lupi che sicuramente
avevano tentato di seguire la loro traccia odorosa, e per confondere quindi il
più possibile il loro odore, lungo la strada si erano di tanto in tanto fermati
brevemente per provvedere con qualche rapido stratagemma di fortuna al loro
“camuffamento odoroso”. E dopo essersi rotolati in un canale di scolo di acqua
a lato di una delle strade più antiche della parte vecchia di Tairans, essersi strusciati contro svariate cose come
lenzuoli stesi ad asciugare nel retro di un cortile dal muro rapidamente
scavalcabile e sommariamente immersi nel mucchio di foglie e altri detriti
arborei prima ordinatamente ammucchiato in un altro giardino, e per finire in
bellezza e soprattutto dopo essersi infilati direttamente dentro dei cassetti
dell’immondizia e aver un poco sguazzato in una piccola fontana in una via in
quel momento deserta, il loro aspetto generale era a dir poco impresentabile.
Persino per i loro usuali standard di presentazione, cioè.
Se
non altro, per la prima volta da che aveva messo piede a Tairans,
Danny era addirittura felice che Kumals non fosse lì,
a vedere in quali condizioni stavano per bussare alla porta del suo conoscente
serio e fidato e loro unico contatto di valido appoggio. D’altro canto, qualche
frase come ‘mi scusi, ho le scarpe un po’ infangate, ha una pedana o uno
straccio sulle quali potrei lasciarle prima di entrare?’ era assolutamente
insufficiente considerando com’erano ridotti in quel momento lui e Uther.
Quest’ultimo
lo stava guardando tra il complicemente divertito e
l’ironicamente perplesso, un’espressione che Danny trovò assomigliasse
singolarmente a quella di un ragazzino colmo di impudica fierezza per l’essere
riuscito a ridursi in uno stato pietoso alla fine di una giornata di scorazzamento giocoso in tutti i luoghi più sporchi che è
riuscito a trovare. Trattenne un sorrisetto solo grazie ad un repentino spostare
lo sguardo da quell’espressione e ad uno sforzo di concentrazione seria.
Non
c’era bisogno che Uther gli dicesse qualcosa per esplicitare meglio la sua
espressione, che gli ricordava ad un tempo tanto il fatto che non avevano modo
di ‘darsi una ripulita’ lì nel bel mezzo della strada, quanto il sospetto che a
quel punto cercare di ridarsi un minimo di aspetto decente era un’impresa
semi-disperata.
Danny
sospirò. «Come prima cosa, almeno, spieghiamogli che abbiamo dovuto seminare
dei mezzi lupi.»
Uther
annuì, senza tuttavia fare alcuno sforzo per togliersi dalla faccia
quell’espressione divertita che dava chiaramente ad intendere quanto ritenesse
che quell’improvviso bisogno di Danny di ‘non fare una pessima prima
impressione’ era inadatto a lui al punto che sembrava stesse facendo
dell’auto-ironia, e rialzò la mano e bussò alla porta con un allegro risuonare
delle nocche sul legno massiccio e vecchio, dalla vernice scrostata.
A
Danny non rimase altro da fare che sperare con tutte le sue forze che perlomeno
Kumals gli avesse dato il numero civico giusto,
mentre attendevano risposta.
Poco
dopo la porta si aprì con uno scatto fibrillante, eppure si schiuse solo di
poco più di una spanna, facendoli quasi sussultare di sorpresa e stupore,
mentre una voce da dentro domandava con tono neutro eppure in qualche modo
appena minaccioso un «Sì?» che non faceva alcun mistero del fatto che avrebbero
fatto meglio ad avere un ottimo motivo per disturbare.
«Hem… il signor Mordecai…?» riuscì a chiedere Danny,
infastidito nell’udire il suo tono uscirgli un poco roco e decisamente nervoso
e incerto.
Seguì
un breve silenzio, prima che la voce risuonasse di nuovo. «Può darsi. Chi lo
cerca?»
Danny
e Uther si scambiarono solo un breve sguardo, col quale tuttavia si ritrovarono
semplicemente a rimandarsi a specchio un’espressione molto simile di
perplessità, poi Danny si avvicinò un poco e molto cautamente alla stretta
apertura della porta appena dischiusa chinandosi un po’ in avanti.
«Ci
manda Kumals.» disse, riscontrando che se non altro
la sua voce era un po’ più decisa ora.
In
risposta ricevette un silenzio che gli fece perdere buona parte delle sue
migliori speranze, e che suonava fin troppo riflessivo alle sue orecchie tese.
«Oh,
e siamo ridotti in questo stato perché abbiamo dovuto seminare dei mezzi lupi.»
cinguettò con fare tra l’accattivante e l’ironico Uther, Danny sospettò più a
beneficio suo che per quello del signor Mordecai che sembrava esitare ad aprire
più di così la porta.
Nemmeno
Uther avesse appena inconsciamente pronunciato la corretta formula di ‘Apriti
sesamo!’, la porta si spalancò di colpo, facendo un poco sussultare di riflesso
Danny e facendogli riportare immediatamente lo sguardo con cui stava cercando
di rivolgere un’occhiataccia a Uther direttamente su di essa.
Si
ritrovò a fissare un uomo che aveva tutto l’aspetto di uno scalcagnato e
allampanato profeta folle, alto e magro, vestito di quella che sembrava una
specie di tunica nera a primo sguardo (e ad uno sguardo più approfondito Danny
realizzò trattarsi di una specie di grembiule nero simile a quello usato da
fabbri et similia un tempo, che gli stava troppo
corto), sopra ad un paio di pantaloni lunghi di tela e ad una maglietta sempre
di tela, entrambi scoloriti dall’uso, con lo sguardo spiritato di due occhi
spalancati su di loro ai lati di un lungo naso e un poco celati dalla
capigliatura costituita da capelli ricci castani.
«Avete
detto mezzi lupi?» domandò loro l’uomo, guardandoli dall’alto in basso con il
capo proteso verso l’alto, come se stesse parlando con delle voci nella sua
testa piuttosto che con due persone in carne ed ossa, osservandoli con
quell’angolatura in un modo che sembrava pieno di dubbio ma pazzamente attento
e vispo.
Danny
richiuse la bocca di colpo, cancellando qualsiasi intenzione di tentare di dire
qualcosa che stava cercando di farsi venire in mente senza troppo risultato, e
quindi la riaprì per rispondere un incerto «Sì…»
Di
fianco a lui, Uther contemplava quell’apparizione con un’espressione tra il
sorpreso e il cinicamente perplesso, e molti altri commenti inespressi che
sicuramente gli stavano puntualmente attraversando la testa. Danny si interrogò
se tra quei commenti potesse esserci qualcosa a riguardo di qualche sostanza
allucinogena che i necromanti usavano d’abitudine.
«Bene…
molto molto bene…» commentò a quel punto il necromante
in questione, mentre li squadrava da capo a piedi con quella che sembrava
un’occhiata un po’ più terrena.
«Davvero?»
chiese con sincero stupore Uther, alzando un sopracciglio.
L’uomo
sembrò riscuotersi maggiormente, e lo guardò come se avesse notato solo in quel
momento la sua presenza, lanciandogli per la precisione un’occhiata piuttosto
stizzita, come se ritenesse che Uther si stesse soffermando su delle
quisquiglie.
«Avanti,
venite dentro.» disse, con un tentativo di pomposo invito imperioso che suonò
più che altro frettolosamente e nervosamente affaccendato, spostandosi in modo
da permettere loro di entrare, e gesticolando ampiamente col braccio per
esortarli maggiormente, mentre gettava nervose occhiate da una parte e
dall’altra lungo la strada, con fare furtivo.
«E
ci siamo anche riusciti, a seminarli.» puntualizzò Uther, mentre lui e Danny
entravano, come tentativo di rendere meno agitato l’uomo.
«Oh,
sì, certo, certo.» disse quello per tutta risposta, distrattamente e come se
ritenesse anche quello un particolare del tutto marginale, sbattendo la porta immediatamente
dopo il loro ingresso, e subito iniziando a chiudere una impressionantemente
numerosa e varia gamma di lucchetti, serrature, sbarre di ferro e altri solidi
chiavistelli e lucchetti dall’aria pesante. Danny invidiò per un momento un
tale arsenale da barricamento; solo chi era appartenuto ai ‘4 di picche’ poteva immaginare in quante occasioni sarebbe stato
prezioso potersi assicurare con tanta abbondanza che qualsiasi cosa li stesse
inseguendo potesse essere perlomeno rallentata da una porta ben chiusa.
L’istante
successivo, tuttavia, Danny era tutto teso nell’esplorazione del nuovo
ambiente.
Fin
da quando la porta era stata spalancata, era stato investito da un poderoso
insieme di odori a dir poco nuovi e bizzarri per lui, nel quale era riuscito a
distinguere con qualche difficoltà qualche elemento che poteva riconoscere,
perlopiù sentori di polveri metalliche, di terra bruciacchiata o fertilmente
umida, di radici seccate e di pergamena muffita e inchiostro incrostato, cera
di candela, e forse qualcosa che assomigliava vagamente a qualcuno di quegli
acidi usati per trattare i cadaveri per imbalsamarli.
‘Necromante’** ricordò a sé stesso, per cercare di frenare o
almeno arginare con la ragionevolezza il perché di quel sentore di morte
conservata e sistemata con meticoloso ordine analitico e sperimentale, che gli
faceva non solo storcere il naso, ma anche desiderare di non doversi cacciare
dentro una stanza saturata di quegli odori. A dirla tutta, credeva che i necromanti si limitassero a cercare di dialogare con i
morti, più che dedicarsi all’imbalsamazione.
Sospinti
da un più che mai frenetico Mordecai, Danny e Uther si ritrovarono ad
attraversare molto rapidamente un brevissimo e strettissimo corridoietto
d’ingresso, evitando come meglio riuscì loro di inciampare in una serie di
pesanti tappeti polverosi che coprivano il pavimento, di sbattere contro un
attaccapanni reso invisibile dalla moltitudine di abiti pesanti e dai colori
cupi che non oltrepassavano le gamme del marrone, del grigio scuro e del nero,
mischiate insieme in una sovrapposizione in cui il singolo indumento diventava
pressoché indistinguibile, di attardarsi ad osservare le immagini dei quadretti
ad olio e dai colori anche lì cupi e bui e perciò difficilmente distinguibili
allineati in ordine caotico sulle pareti laterali e arcuate in una piccola
volte a botte sulla loro testa (e persino lì sembrava che vi fossero appesi
quei quadretti), e finirono per ritrovarsi in una stanzetta dove finalmente
l’uomo li aggirò e superò smettendo di incitarli da dietro come se fosse
posseduto da una fretta del diavolo.
A
quel punto Danny e Uther si fermarono sulla soglia della stanza, percorrendola
interamente con lo sguardo, e facendosi almeno un’impressione generale, perché
soffermarsi con precisione su ogni singolo elemento sarebbe stato impossibile,
non solo perché l’ambiente era saturo di un’incredibile quantità e varietà di
oggetti, ma anche perché vi regnava un notevole caos.
Nel
guazzabuglio confuso di ogni sorta di cose in quell’ambiente avvolto in una
pesante penombra, in cui non entrava nemmeno un’oncia della luce esterna,
bloccata interamente dalle pesanti tende color verde scurissimo che coprivano
le due strette finestrelle scavate nelle spesse pareti, Danny riuscì a
distinguere che la stanza era sommariamente divisa in quattro ambienti. Al
centro c’era un curioso tavolinetto rotondo e dalle lunghe gambe che sembrava
uscito da una sala da tè di un salotto inglese della prima decade del ventesimo
secolo, con intorno quattro poltrone tozze e piccole e vecchie. Due intere
pareti erano interamente coperte da due ampie librerie di legno antico,
talmente ricolme di volumi dal formato massiccio e pesantemente rilegati che
era indecifrabile se le scaffalature stessero in piedi per la forza dei chiodi
oppure per l’inserrata sovrapposizione alternata tra
file di libri e ripiano di scaffale. Un’altra parete e uno degli angoli che la
limitavano erano per buona parte occupati da un ripiano di marmo e un grande
lavandino in pietra, e ogni centimetro d’essi era ricoperto da svariati
oggetti, tra i quali recipienti in vetro e plastica e terracotta di ogni foggia
e dimensione si potesse immaginare, da semplici ciotole con mortai fino ad
alambicchi dotati di sottili colli arabescamente
ritorti e convoluti, fogli scribacchiati, libri di ogni formato impilati aperti
o chiusi, strumenti da lavoro e posate mischiate insieme e perlopiù incrostate
di qualche sostanza semi-raggrumata o densamente semi-liquida e di aspetto più
o meno colloso e sciropposo, pezzi di stoffa o di quella che sembrava pelle,
strofinacci luridi o semplicemente consunti dall’uso ma puliti e ben ripiegati,
piccoli pezzi di sasso o pietra che mostravano segni di incisioni o grattuggiatura, e qui e là rimasugli polverosi sparsi,
becchi bunsen e porta-strumenti metallici o treppiedi
per contenitori abbinati a vecchi e piccoli generatori di fiamma di vario tipo.
C’erano anche cose che sembravano semplicemente avanzi di precedenti pasti, e
che davano a quel banco un generale e singolare aspetto di una specie di
miscuglio confuso e fin troppo intimo tra una cucina e un laboratorio. In un
angolo c’era un piccolo camino, la cui cappa in pietra integrata nel muro della
casa si perdeva sparendo in alto nel soffitto, e verso quest’ultimo angolo
l’uomo si diresse immediatamente, ignorandoli per affrettarsi ad andare a
rimescolare il contenuto di un liquido che stava sobbollendo leggermente sulla fiamma
di un sommario accatastamento di pezzi di legna che bruciavano producendo più
fumo che calore, sospettò Danny.
Quest’ultimo
rimase ancora fermo accanto ad Uther, mentre entrambi riscontravano che lì
dentro faceva decisamente troppo caldo e l’aria sembrava non venisse cambiata
da parecchio, risultando perciò pesante, polverosa e con un sentore di muffa e
umidità surriscaldata di sottofondo, come se si fosse stratificata pesantemente
per giorni e giorni, forse settimane.
«Sedetevi
pure.» disse loro l’uomo, come se si fosse ricordato di loro solo in quel
momento, senza voltarsi nemmeno a guardarli e rimanendo concentrato a rimestare
con un cucchiaio di legno nel piccolo paiolo sospeso sopra la bassa fiamma nel
camino. Per l’ennesima volta da che erano entrati, allungò un braccio per
afferrare uno dei piccoli contenitori disposti fittamente su una delle mensole
in marmo scuro disposte accanto al camino e sopra il banco da lavoro, pescò con
le dita lunghe e sottili un pizzico di quelle che sembravano foglie essiccate e
lo gettò nel paiolo, prima di liberarsi del contenitore abbandonandolo sul
ripiano, pulirsi le dita sfregandosele sul grembiule da lavoro troppo corto, e
sporgere il braccio all’indietro, indicando loro senza nemmeno voltarsi il
tavolinetto al centro della stanza.
Danny
e Uther finirono per avvicinarsi al tavolino indicato loro e scegliersi due
poltrone vicine, nelle quale si accomodarono con aria tutt’altro che rilassata,
sedendo sul ciglio della seduta e continuando a guardarsi intorno. Era difficile
smettere di cercare di assorbire ogni particolare possibile di quel luogo, per
quanto riguardava Danny se non altro perché quella era la prima volta che
metteva piede nello studio di un necromante.
Una
volta seduto, lasciò vagare lo sguardo su pareti e soffitto, e fu allora che
ebbe il sospetto stesse guardando il particolare effettivamente più
caratteristico della stanza. Ogni superficie verticale libera delle pareti e il
soffitto erano interamente coperti da quei piccoli ritratti ad olio che aveva già
intravisto nell’ingresso, tutti di piccolo formato e incassati in cornicette di
legno semplici o complicate da decorazioni, ma persino racchiuse in piccoli
medaglioni o quadretti di quel tipo che le famiglie si fanno confezionare per
ricordare i loro avi. Persino al lampadario, di foggia antica e di piccole
dimensioni, e che Danny notò era dotato di otto bracci e non sette***, erano
stati appesi ad ogni braccio con dei laccetti di pelle o di spessa stoffa quei
quadretti. In quella penombra, e per via del fatto che la stragrande
maggioranza di quei piccoli ritratti era stata dipinta con colori dalle
tonalità scure, Danny non riusciva a distinguere un granché dei tratti dei
singoli volti, anche se da quello che intravedeva poteva desumere che si
trattava di ritratti di persone di ogni età, genere, vestiario, estrazione
sociale ed epoca, senza alcuna regola generale. L’unica cosa che tutti
possedevano ugualmente era che davanti ad ognuno di essi c’era una piccola
lampadina: quelli appesi in verticale alle pareti o penzolanti dal lampadario
avevano ognuno davanti a sé un piccolo sostegno – di quelli più comuni da
cimitero, oppure ricavati in qualche maniera più o meno arrangiata con pezzi di
metallo o argento o rame o altro metallo lavorati sommariamente e saldati o
piegati per fungere da sostegno –, mentre quelli appesi orizzontalmente al
soffitto avevano delle piccole architetture nastri di stoffa o pelle che si
attaccavano ai loro bordi e scendevano penzolanti per ricongiungersi al centro
davanti al ritratto. Ognuno di quei sostegni reggeva o aveva incastonata una
piccola lampadina elettrica, e le tipologie di quelle lampadine erano
svariatissime, da quelle della tipica forma di candela elettrica di chiesa o
cimitero fino a piccoli globi di vetro colorato che sembravano essere quelli
delle luminarie natalizie. Tutte le lampadine erano ugualmente spente, e per
quello che si poteva vedere in quelle che non erano incastonate direttamente
dentro al sostegno che le teneva davanti ai piccoli ritratti, nessuna mostrava
alcun segno di essere collegata a fili elettrici di alcuna sorta.
Per
un momento, Danny soppesò quanto fosse possibile che tutte quelle persone
ritratte fossero in qualche modo appartenenti ad un’incredibilmente varia
schiera di antenati del signor Mordecai; poi, un insinuante e leggermente
inquietante sospetto gli strisciò nella mente, e di nuovo gli sovvenne quella
parola come se il suo subconscio stesse cercando di ricordargliela come indizio
alla comprensione. ‘Necromante’.
«Tè?»
giunse la voce dell’uomo, e Danny sussultò suo malgrado.
«Come?»
domandò, con voce piuttosto flebile, voltandosi a guardarlo.
L’uomo
sembrava aver finalmente un poco abbandonato l’intera dedizione al suo paiolo,
e li stava guardando, impugnando saldamente il mestolo con cui aveva rimestato
incessantemente fino ad un attimo prima. Aggrottò le folte sopracciglia,
rivolgendo un’occhiata scorbutica ad entrambi, come se Danny non avesse dato la
risposta che voleva sentire, e borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé e
sé, mentre tornava ad agitarsi per la stanza, qua e là incespicando o urtando
qualcuno di quegli oggetti e mobiliatura che la riempivano senza lasciare a
tutti gli effetti un vero e proprio spazio sufficiente per muovercisi con agio.
«Credo
che ci abbia appena offerto del tè bollente in piena estate.» osservò Uther,
rivolgendosi a Danny, mentre guardava l’uomo armeggiare per trovare in mezzo a
quel caos tre recipienti che assomigliassero vagamente a delle tazze, e
iniziava a riempirli con mestolate del liquido che aveva scaldato nel paiolo.
«È
tè alla menta iraniano****. Viene bevuto nel deserto, dove la temperatura è ben
più elevata di questa in pieno giorno. Per effetto di reazione contraria, il
vostro corpo potenzierà la sua capacità di raffreddarsi bevendolo, così che
sentirete meno caldo.» spiegò scorbuticamente l’uomo, mentre sbatteva senza
tante cerimonie le loro “tazze” davanti ad Uther e Danny, e si sedeva in una
delle poltrone libere appoggiando davanti a sé sul tavolino la sua “tazza
fumante”.
Danny
fissò per un momento perplesso il suo bicchiere di terracotta e dall’aria
impolverata che doveva essere la sua “tazza”, ma alla fine, dal momento che
l’uomo li stava fissando con il suo sguardo penetrante da falco come se stesse
aspettando, si decise a prenderla in mano e sorseggiare il tè. Se non altro,
aveva un ottimo sapore.
«Hem, grazie.» esordì alla fine, dopo qualche sorsata.
Uther
stava soffiando sulla sua tazza prima di ogni sorsata, per raffreddare la
bevanda, come se la spiegazione di Mordecai non l’avesse affatto persuaso.
«Dunque,
avete detto mezzi lupi?» li interrogò Mordecai, assumendo un tono colloquiale.
Uther
lanciò una breve occhiata a Danny, che afferrò perfettamente cosa volesse dire:
sembrava che quel Mordecai avesse una certa tendenza a ripetersi retoricamente.
Danny fece del suo meglio per ignorare quell’osservazione. Dopotutto, quella
era la persona che secondo Kumals poteva aiutarli, e
per quanto sembrasse non avere un aspetto né un modo di fare da qualcuno che ha
almeno buona parte delle rotelle al posto giusto o che girano per il giusto
verso, il fatto che stesse parlando di ‘mezzi lupi’ come se per lui non fosse
niente di nuovo o bizzarro o incomprensibile era un buon segno.
Danny
prese dunque fiato, ed iniziò a raccontare. Kumals
aveva detto di dire a Mordecai come stavano le cose in maniera precisa, così
lui si concentrò sul suo riassunto essenziale cercando di esporre chiaramente
tutto ciò che poteva sapere e che poteva servire. In fondo, però, essendo
dopotutto quel contatto fidato di Kumals uno
sconosciuto dai modi bizzarri e che non aveva esattamente già catturato la sua
fiducia o simpatia, Danny sorvolò accuratamente su alcuni particolari, come
quelli del suo passato con Mara, anche se ne descrisse la personalità a grandi
linee per quello che la conosceva e perché non si poteva evitare di dire tutto
ciò che si potesse a riguardo della leader del gruppo di mezzi lupi impazziti
che erano il centro del problema, o come il fatto che al suo arrivo avesse
trovato Uther all’attendamento.
Per
tutta la durata del suo racconto, Uther si limitò ad ascoltare con fare
tranquillo e distratto, ancora in buona parte intento a guardarsi attorno con
curiosità; Danny abbandonò ben presto ogni speranza di un suo intervento che
potesse finalmente gettare un po’ di luce sul perché diavolo esattamente la
storia completa ed esaustiva iniziava con lui intento a partecipare ad una
serata presso un falò nel bel mezzo dell’accampamento dei mezzi lupi ed in
compagnia di Mara e dei suoi accoliti.
Per
quanto riguardava Mordecai, non interruppe nemmeno una volta e ascoltò tutto il
racconto con vivida attenzione, tenendo sempre quello sguardo fin troppo
penetrante e allucinato, per quanto riguardava il gusto di Danny, puntato
dritto su di lui.
«E
questo è tutto…» Danny fu costretto ad aggiungere quando ebbe finito di
raccontare. A quanto pareva, non solo Mordecai sembrava essersi immerso in
pensieri tutti suoi e, pur continuando ad osservarlo con quell’attenzione
maniacale, aveva lasciato passare diversi secondi di silenzio senza proferire
parola, ma persino Uther sembrava essersi così distratto nel guardarsi intorno
da non accorgersi che aveva smesso di parlare già da un poco.
Se
non altro, il tè sembrava aver ottenuto l’effetto prodotto dal loro ospite,
notò Danny, perché si sentiva decisamente meno accaldato, e anzi ora aveva
quasi freddo. Il che era assurdo visto che era certo che in quella stanza
stesse facendo un caldo infernale. Inoltre, dal momento che il debole fuoco nel
camino sembrava essere stato gestito da un dilettante, l’ambiente era
abbastanza affumicato già da quando erano entrati, e se non altro dunque la
bevanda gli aveva dato un notevole sollievo alla gola, secca anche per il suo
lungo soliloquio.
«Affascinante…»
mormorò allora Mordecai, e Danny lo guardò meglio e con perplessità, cercando
invano una nota di pungente sarcasmo in quel tono che, a tutti gli effetti,
sembrava invece sinceramente affascinato «Non avevo mai sentito di mezzi lupi
che si comportino in tal modo.»
Danny
si imbronciò e incupì, anche se tentò di non darlo troppo a vedere. «In
effetti, di solito non ci comportiamo affatto in questo modo.» specificò.
«Dunque
tu sei un mezzo lupo.» osservò Mordecai, guardandolo con ancora maggiore
interesse e un sorriso che iniziava a dipingerglisi in volto; un sorriso che
aveva qualcosa di troppo storto per mostrare una vera e propria gioia o
simpatia, e che mise Danny ancora più a disagio.
«Beh,
sì. Credevo che Kumals gliel’avesse detto…» replicò,
confuso.
«Oh,
ad essere onesti…» rispose l’uomo, appoggiandosi allo schienale della piccola
poltroncina su cui sedeva, e fissandolo attraverso le palpebre leggermente
socchiuse in un’espressione contemplativa «Questo Kumals
non mi ha detto proprio niente.»
Nel
tempo sufficiente affinché quelle parole venissero rielaborate in una qualche
maniera interpretativa dal suo cervello improvvisamente stranamente troppo poco
reattivo rispetto al solito, Danny sentì una delle mani di Uther appoggiarglisi
pesantemente su un braccio e aggrapparvicisi. Il suo
sguardo si spostò subito verso l’altro, e si trovò a fissare un’espressione
decisamente tesa e feroce, congestionata da uno sforzo immenso, che Uther stava
rivolgendo con rabbia a Mordecai.
L’istante
successivo, il corpo di Uther perse improvvisamente tutta la sua tensione e si
afflosciò come se avesse perso ogni energia, e Danny lo vide crollare sopra il
tavolo di tutto peso, mandando a cadere per terra diversi oggetti che
ingombravano il ripiano tondo.
«Uther!»
gridò, afferrandogli il braccio ormai privo di ogni forza a sua volta, e
sporgendosi per un momento verso di lui, prima di realizzare che cosa non
andava esattamente. Allora balzò in piedi, pur rimanendo accanto a Uther, e
mentre con una mano cercava con fretta febbrile il punto del collo in cui
potergli sentire il battito cardiaco, i suoi occhi pieni di furia si
concentrarono di nuovo su Mordecai.
Quest’ultimo
si era alzato in piedi di scatto nello stesso istante di Danny, ed aveva
guadagnato in fretta la maggior distanza possibile, arretrando fino a toccare
con la schiena il camino. Mentre Danny iniziava ad urlargli contro, cercò con
la mano l’attizzatoio appeso alla mensola del camino e lo prese, pur tenendolo
tranquillamente penzolante contro il suo fianco.
«Cosa
diavolo gli sta succedendo?!» gridò Danny, la voce ringhiante tra i denti
stretti, l’occhiata di fuoco diretta verso l’uomo, e le sue dita che finalmente
intanto trovavano il punto giusto sul collo dell’esanime Uther, permettendogli
di sentire il suo battito cardiaco ancora presente.
«Oh,
beh, penso che dormirà per un po’. Non devi preoccuparti, mezzo lupo. A
proposito, è davvero una fortuna che io abbia indovinato fin dall’inizio che
sei un mezzo lupo, sai?» gli rispose quello, con fredda calma e un sorrisetto
decisamente storto che gli incurvava le sottili labbra.
Danny
lasciò perdere Uther e avanzò a grandi passi verso di lui, sicuro che in men
che non si dica gli avrebbe strappato di mano l’attizzatoio e lo avrebbe
inchiodato al muro per il collo con una mano sola, per fargli sputare
immediatamente che cosa aveva fatto bere esattamente ad Uther e convinto a
dargli subito qualcosa per farlo riprendere. Dopotutto, lui aveva la forza di
un mezzo lupo, e quello era solo un essere umano necromante
da strapazzo che dava del sonnifero ai suoi ospiti, e, amico o no di Kumals, Danny gli avrebbe poi anche fatto dire per filo e
per segno che cosa diamine si era messo in testa di fare ad Uther e perché.
Ma
i suoi passi risultarono tutt’altro che sicuri e fermamente e rapidamente
intenzionati come si era aspettato; le sue gambe sembravano improvvisamente
decise a piegarsi come se il suo corpo stesse aumentando di peso
all’inverosimile, e il suo procedere divenne ondeggiante e incontrollabile, al
pari della sua vista che si andava annebbiando fin troppo, persino per quella
stanza con troppo fumo proveniente dal camino.
Solo
allora, mentre perdeva l’equilibrio e si trovava costretto ad aggrapparsi con
un braccio di lato al bancone da lavoro per non cadere, cercando comunque di
avvicinarsi a Mordecai, realizzò il particolare fondamentale: se Uther era
appena stato narcotizzato, era molto probabile che lo fosse stato tramite quel
tè che lui stesso aveva bevuto.
Mordecai
lo osservava con perfetta calma, senza muoversi, senza nemmeno tentare di
fuggire o brandire con più intenzione intimidatoria l’attizzatoio che
impugnava; una tranquillità decisamente eccessiva per qualcuno che sa cosa sia
un mezzo lupo tanto quanto sa di aver appena fatto qualcosa per attirare su di
sé la rabbia di uno di essi, che sta avanzando verso di lui.
Danny
realizzò solo allora con rinnovato interesse le parole che l’uomo aveva appena
detto.
«Cosa
intendi dire?» domandò tra i denti stretti. Sentì la sua stessa voce come se
provenisse da qualche altra parte, affaticata, ma si sforzò di scandire
comprensibilmente ogni parola, mentre cercava con tutte le sue forze di vincere
contro la gravità che lo stava attirando verso terra una battaglia che sembrava
persa in partenza.
Per
un momento, ebbe il desiderio di non trovarsi in quel punto preciso, di non
aver tentato di scagliarsi contro Mordecai. Dal momento che ormai gli diventava
sempre più chiaro, nonostante continuasse in ogni modo a resistervi con tutte
le sue forze, che il suo corpo si stava afflosciando sempre più verso il
pavimento e che la sua testa si andava addensando di una nebbia che non aveva
niente a che fare con l’affumicatura da camino di quella stanza, per un momento
desiderò essere rimasto accanto ad Uther privo di sensi, anche se razionalmente
non aveva nessun senso: stava perdendo i sensi anche lui, e quando fosse stato
incosciente, che fosse o meno fisicamente vicino all’altro, non avrebbe avuto
nessuna possibilità di proteggerlo.
Udì
improvvisamente un fracasso di alcuni oggetti che cadevano a terra e un tonfo
sordo, e anche se i rumori sembravano lontani, quasi contemporaneamente vide
appena delle figure dai contorni confusi di oggetti che rimbalzavano intorno
alla sua faccia, e mentre sentiva un vago senso di quello che avrebbe potuto
definire un urto doloroso contro tutto un lato del suo corpo, realizzò anche
che il suo campo visivo era diventato orizzontale.
Tutti
i suoi sensi si stavano lentamente spegnendo, per quanto lui lottasse, e il
tamburo del suo cuore accelerato gli risuonava nel timpano quasi dolorosamente,
ma comprese che doveva essere un’illusione, perché la sensazione di
intorpidimento delle sue membra gli segnalava invece che il suo battito
cardiaco stava rallentando. Continuò a lottare con tutte le sue forze, per
mantenere gli occhi aperti e per cercare di convincere i suoi muscoli a
rispondere alla sua volontà appannata, a venirgli in aiuto per permettergli di
rialzarsi in piedi, piuttosto che giacere in quella stupida posizione, riverso
sul fianco sul pavimento, alla mercé del pericolo.
Poi,
udì la voce dell’uomo vicino a lui, che lo sovrastava dall’alto, e si irritò
terribilmente perché i suoi sensi erano ormai così ottusi da non avergli
segnalato quell’avvicinamento pericoloso dell’avversario.
«Intendevo
quello che ho detto.» disse semplicemente la voce al di sopra di lui «Che sei
fortunato ad essere un mezzo lupo come sospettavo. Altrimenti la dose che ho
dato a te a quest’ora ti avrebbe già ucciso, invece che solamente
addormentato.»
«Se
osi far qualcosa ad Uther…» iniziò a ringhiare Danny tra i denti, sebbene non
avesse idea di come gli stessero uscendo quelle parole, se era ancora in grado
di parlare in modo comprensibile, perché ora le sue orecchie sembravano piene
di ovatta, e il suono della sua stessa voce era solo una specie di soffocato
ronzio lontano e confuso.
Ma
sentì il rumore dei passi dell’uomo che si allontanavano come se avesse deciso
che non gli interessava affatto ciò che stava cercando di dire. E quella fu
l’ultima cosa che udì.
Soundtrack: All the right moves (One
Republic)
Note per la comprensione:
*
ABJAD: è l’alfabeto usato per le lingue ebraica e yiddish (e non solo). Non
chiedetemi altro, perché sono tutt’altro che un linguista (purtroppo).
**
NECROMANTE: la parola ha tra le sue radici il termine greco ‘necro’ (morto), per l'appunto. Ovvero, letteralmente e
pressappoco per quel che ne so (come dicevo, non sono un ‘esperto’ in materia),
necromante = evocatore di spiriti di defunti.
***
SETTE BRACCI: questa è sostanzialmente una battuta, perché a Danny viene da
contare i bracci del lampadario e non riesce ad evitare di notare che non sono
sette, sette come i bracci della classica Menorah (la lampada ad olio a sette
bracci tipica della religione ebraica)
****
TE’ ALLA MENTA IRANIANO: esiste veramente, e davvero i suoi “benefici” se
bevuto caldo quando ci sono alte temperature sono quelli spiegati da questo
personaggio. Me lo fece scoprire qualche anno fa un amico, e devo dire che è
buonissimo, e non assomiglia per niente al tè alla menta nostrano. Il perché
sia diverso, confesso non l’ho ancora appurato, anche se ho un valido sospetto
che sia per via della menta che viene usata, una qualità di menta che
dev’essere tipica di certe regioni desertiche del Medio Oriente. Una volta ho
sentito l’odore di una pianta di menta marocchina che mi ha ricordato l’odore e
il gusto di quel tè, ma non so se sia effettivamente la stessa menta che viene utilizzata.
Lo definisco ‘iraniano’ perché il mio amico che mi ha fatto conoscere questo
tipo di tè è appunto di origini iraniane, e altre volte l’ho sentito definire
così, ma credo che i confini di stato o di cultura abbiano ben poco a vedere
con quelli della diffusione e dell’uso di questo tè. Ad esempio una mia parente
lo ha bevuto proprio così, caldo in pieno deserto, offertole da beduini in
Giordania.
Note
dello scribacchiatore:
a voi che seguite la storia, mi dispiace:
per il ritardo e per il fatto che questo capitolo avrei voluto risistemarlo per
rendere più digeribili certe parti (a volte quando scrivo di getto viene fuori
piuttosto concentrato). La cruda verità è che ho appurato, tanto per cambiare,
di non aver abbastanza tempo, perciò mi tocca rifilarvelo così sennò si fanno
le calende greche. Dovrei proprio prendermi un(a) beta-reader.
Ma poi non avrei tempo di avvalermi della preziosa collaborazione. Quindi, per
ora desisto e uso il tempo che ho piuttosto per continuare a scrivere altri
capitoli.
Spero che comunque il risultato attuale
sia decentemente leggibile.
Saluti, al prossimo capitolo!