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Autore: ScrumptiousChaosKing    25/12/2016    1 recensioni
"Posso offrirti da bere, Lauren?"
Sembra quasi speranzosa.
E' strano sentirmi fare questa domanda da una così. Sono abituata a tampinatori seriali con l'aria dell'uomo che non deve chiedere mai che ti si avvicinano di soppiatto e si aspettano di comprare i tuoi favori con un drink, invece lei... Lei sembra una fatina capitata per sbaglio nel regno dei troll. Un angelo inciampato all'inferno.
Per questo accetto.
La vita di Lauren non è nulla di più che un lento scivolare verso una meta inesistente. Ovviamente tutto questo cambierà quando Camila, non invitata ma immediatamente accolta, entrerà a fare parte della sua vita.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Camila Cabello, Lauren Jauregui, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buon Natale a tutti e grazie a tutti quelli che seguono la storia o che hanno semplicemente letto il primo capitolo! :)
 
Capitolo 2

Sono cresciuta in una famiglia numerosa, rumorosa. Per questo apprezzo il valore del silenzio, credo. Mentre i miei genitori non erano in grado di trascorrere più di cinque minuti zitti, io passavo interi pomeriggi immersa in una calma quasi irreale.
Mi piacciono l’immobilità della notte, la freddezza della solitudine. Mi piace quando, la mattina presto, nei giorni di pioggia, non si sente altro che il picchiettare delle gocce sulle finestre, o il soffiare del vento sulle tapparelle. La luce azzurra della radiosveglia che tengo sul comodino è una delle mie cose preferite. Dà un volto nuovo alla mia stanza, misterioso.

Ora sono sveglia nel letto di Camila ed è già mattina. Anche qui il mondo sembra immobile. Probabilmente siamo molto in alto. Non so che ore siano e non mi voglio muovere. Ho un suo braccio stretto attorno alla vita. In flash ordinati tutta la notte appena trascorsa si manifesta davanti ai miei occhi. Ogni carezza, ogni tocco, mi bruciano sulla pelle come se li stessi sentendo ora.

Camila dorme col volto disteso e quel braccio che mi abbraccia e non mi sembra quasi più una sconosciuta qualsiasi, e vorrei non scappare senza salutare, vorrei intrattenermi in questa stanza bianca in cui il sole filtra attraverso tapparelle non completamente abbassate e tende sottili.

E’ questo pensiero che mi fa trovare la forza d’alzarmi.

Se non me ne voglio andare, è necessario che me ne vada. C’è qualcosa in me che credo si romperebbe se rimanessi qui con Camila.

Una strana paura che non riesco a classificare che si avvolge come edera attorno al mio cuore. Fatico a respirare.

Raccolgo vestiti borsa e scarpe e esco scrivendo un messaggio a Normani. “Sono ancora viva, tu?”

Le emoticon di Whatsapp mi sorridono amichevoli e le trovo vagamente sinistre, scappo a casa senza più controllare senza più controllare se Normani mi abbia risposto.

Quello che vorrei sono giorni di letargo in cui non dovermi sentire una formica ossessiva e terrorizzata che s’affretta per le strade del mondo. Mi chiedo come si percepisca il mondo quando si vive solo d’estate. Se si attenda di più quest’ultima o l’inverno.

Chissà se Normani è sopravvissuta. Chissà se rivedrò Camila. Se si ricorderà di me domani, o tra una settimana, tra un mese. Sento riaffiorare il suo nome dal mare dei miei pensieri confusi.

Vorrei aprire la porta di casa e trovarla dietro di essa, in attesa. Chissà se si è risvegliata. Se pensava sarei rimasta. Non le ho lasciato nemmeno il biglietto. Nemmeno il mio numero.

Il senso di colpa che provo quasi m’infastidisce. Non sembrava il genere di ragazza da storie di una notte. Mi sembra di averla usata per ottenere la mia dose di oblio.

Chissenefrega.

La televisione vuole rifilarmi sederi volanti e Bronson, l’amico che non avevo. Io voglio vedere uno di quei programmi per i feticisti dell’orrore mediatico, uno di quelli in cui si parla di omicidi reali. La morte mi distoglie dai problemi della mia vita, dai miei complessi, dalle mie ossessioni. Perché è tutto così triste.

Il telefono vibra e tiro un sospiro di sollievo sapendo che Normani non è stata rapita da un folle maniaco.

Chissà come sta Camila.

Non leggo il messaggio e continuo a fissare pubblicità orrende nella finestra lobotomizzatrice della tv.

Il telefono comincia a vibrare insistentemente e io seguito a ignorarlo. Sono in stato semi catatonico incollata al tubo catodico. E’ solo alla settima chiamata che afferro il cellulare svogliatamente e rispondo.

“Dove sei andata ieri?”

“A casa di una.”

Normani sembra quasi agitata. “Sei andata via presto.”

“Sono andata via al momento opportuno. Tu cosa hai fatto?”

Lei inizia a raccontarmi e io la ascolto in silenzio. Uno dei miei pochi talenti è ascoltare. Non provo alcun fastidio nello stare zitta per ore mentre qualcun altro parla, anche se ammetto che a volte mi perdo nel mio mondo e dimentico di star avendo una conversazione.

Appurato dopo due ore che Normani non rivedrà il tizio di stanotte, chiudiamo la chiamata.

Vivere nel mio cervello è un’afflizione continua senza ragioni. Qualsiasi cazzata mi evoca una pena incontenibile. Alla televisione insulsi dibattiti sulla chirurgia plastica mi distraggono dalla ricerca di serial killer.

Pensando a mia madre che mi teme il prequel di una gattara zitella, rifletto sul fatto che mi piacerebbe prendere un gatto. Avrei compagnia in casa. Qualcuno che dorma nel mio letto, magari.
Non affettuoso quanto Camila ma comunque carino.

Cosa c’entra Camila.

Tremo al pensiero che cominci ad apparire come un fungo nel giardino dei miei pensieri. Già lo fa.

Vorrei indurmi il coma e dormire per anni.

Un tempo avevo cassetti di pensieri ordinati. Alle superiori imparavo senza sforzi. Poi ho iniziato a scivolare lentamente nell’atrofia cerebrale. I miei pensieri sono diventati lenti e pigri, e per quanto conservi in me qualche sporadico moto intellettuale e qualche fugace momento di arguzia, provo un sentimento generalizzato di noia che mi impedisce di godermi qualsiasi cosa, dai libri, agli amici, all’amore.

Per questo non mi fermo mai. O meglio, per questo non inizio nulla.

La monotonia e la ripetizione uccidono la mia volontà di far funzionare le cose.

Forse per questo sono scappata da casa di Camila.

Per non rovinare momenti perfetti con le luci dell’alba che delinea profili e traccia contorni e mostra dettagli che tra le ombre notturne rimangono invisibili.

Non mi accorgo nemmeno del tempo che passa nelle giornate così, in cui rimango chiusa in casa aspettando che arrivi la notte e poi il giorno e la notte e poi l’ennesimo lunedì in cui ritornare alla vita. A rilento.

Lento. Lento. Lento.

Come il ticchettio della lancetta dei secondi appeso al muro. Non so nemmeno leggere le ore così, cosa me ne faccio. Lo tengo gelosamente perché era di mia nonna, è
decorato e mi ricorda del tempo che passa. Mi ricorda che l’esistenza è scandita dalla convenzione del calcolare le ore e non dai respiri che faccio.
 


Ho trascorso le ultime angoscianti ore della vita a fare fotocopie con la peggior fotocopiatrice del mondo. Se avessi voluto fare il tecnico delle stampanti non avrei intrapreso la non poi così luminosa carriera che ho intrapreso, avrei fatto altro e il mio sedere avrebbe evitato di appiattirsi sulla sedia scomoda davanti alla mia scrivania.

Ogni volta che appare la luce rossa che segnala l’errore di sistema l’istinto di polverizzare la macchina a calci si fa più forte.

Perché non possono farla riparare.

Anche io dovrei farmi riparare. Perché non esiste un tecnico per esseri umani. Non un medico o uno psichiatra. Un vero e proprio aggiustatutto che ripari cuori infranti e occhi stanchi. Che raddrizzi i pensieri sbagliati prima del corto circuito.

Dicono che il tempo curi qualsiasi ferita, ma non è vero.
E’ solo una convinzione consolatoria per rassegnati. A volte il tempo non fa altro che lasciare incancrenire il dolore. Lo fa diventare più grosso, più brutto. Dà al dolore un potere che non avrebbe altrimenti.

La mia sofferenza è statica ma continua. Non cresce e non decresce. E’ invadente, fastidiosa.
Ci tiene a ricordarmi che quello che ho detto, fatto e sbagliato non verrà mai lavato via. Anche le cose che mi sono lasciata alle spalle hanno lasciato i loro segni.

Ci è voluto così tanto per crescere, così tanta fatica. Mi ha corrosa. Tutto non è altro che un infinito, incessante avvicendarsi di disgrazie che avvengono solo nella mia testa.

Anche questa fotocopiatrice.

So che è esagerato, che ho un problema. Ogni evento ha la sua carica drammatica. Ogni secondo sulla terra mi dà solo afflizione.

Preferirei non vivere.

Scappo fuori dal palazzo all’ora di pranzo con l’intenzione di prendere un caffè, entro nel solito bar. Fa caldo e vorrei andare a dormire. Invece Normani è lì che mi aspetta, sorridente.

“Lauren!”

Replico stancamente salutandola.

“Allora, com’è stato venerdì sera?”

“Folle!” Esclamo, senza entusiasmo. “Ho conosciuto questa ragazza carina. Ci sono andata a letto. Me ne sono andata.”

“Una cosa nuova insomma” Mi sorride, ignara della sensazione bruciante che sento allo stomaco. Un orrendo ribollire di sensi di colpa. Vorrei davvero incontrare Camila ora. Non so cosa farei esattamente, ma mi basterebbe guardarla.

“Come sempre” Sorrido anche io, facendo finta di niente.

“Per il resto, va tutto bene?”

“Ho passato la mattina ha litigare con la fotocopiatrice.”

“Coinvolgente.”

“Molto.”

Le nostre conversazioni sono sempre così. Poche parole, a meno che Normani non abbia qualcosa di interessante da raccontare. Io parlo troppo solo se sono ubriaca.

Oggi faccio fatica a trattenermi però. Un vomito di frasi romantiche riguardo la notte con Camila minaccia di esplodere incontenibilmente dalla mia bocca. Come si fa a provare nostalgia di qualcuno che nemmeno si conosce, con cui praticamente non si ha parlato.

Mi consolo pensando che deve essere il desiderio di provare nuovamente le stesse sensazioni. Se Camila si fosse chiamata Genoveffa e fosse stata bionda non sarebbe cambiato nulla.

Non avrebbe avuto quelle mani, quegli occhi e quelle labbra, certo. Ma non sarebbe cambiato nulla, perché nonho conosciuto nulla di più del corpo di Camila. E di ragazze belle ce ne sono tante, lei non è l’unica sulla faccia della terra.

Io, per esempio, sono fichissima.

In ogni caso, la mia pausa pranzo finisce piacevolmente, perdendomi nelle pacate conversazioni con la mia migliore amica. Le tonnellate di paranoie che mi schiacciano si alleggeriscono momentaneamente.

E’ sempre bello quando succede.

Un evento sensazionale e piacevole.

 
   
 
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