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Autore: EmilyW14A    28/12/2016    3 recensioni
Succede spesso di convincerci che le persone ci guardano e critichino ogni singola cosa che facciamo, ma non è così. La verità è che gli esseri umani sono tutti perfettamente egoisti e non hanno tempo da dedicare agli altri, anche se si tratta di uno sconosciuto seduto nel sedile davanti sul treno. Noi ci convinciamo che gli altri passino il loro tempo a commentare i nostri abiti, i nostri capelli, i piercings, i tatuaggi, i nostri lineamenti, il nostro fisico; in realtà nessuno si sofferma veramente a giudicare cosa fanno gli altri. Nonostante ciò, in questo momento non riesco a togliermi di dosso la sensazione che tutti i passeggeri della metropolitana si siano accorti di quello che ho appena fatto e mi stiano fissando con sguardo indagatore. Cerco di darmi velocemente un contegno, sistemo la camicia e la giacca, e proseguo nel mio cammino. Controllo l'orologio e mi accorgo che tra meno di due ore devo iniziare il turno a lavoro. Decido di fermarmi qualche fermata prima per pranzare in un posto tranquillo. Ho bisogno di riflettere da solo su tutto quello che è appena successo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Reita, Ruki, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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(è obbligatorio l'ascolto di Without You I'm Nothing - Placebo per tutta la durata del capitolo)

XIX.

























Non ho mai amato particolarmente la mobilia della mia cucina. In fondo quando comprai questa casa mia madre volle aiutarmi in tutto, non solo economicamente, ma anche nell’arredamento e nella scelta dei colori. Avevo detto a mia madre che non sopportavo avere troppi mobili in casa, ma niente da fare. Ho una cucina piena di armadietti, ripiani, mensole, porta oggetti, cassetti e sportelli. La tipica madre di una commedia americana mi invidierebbe sicuramente. Vivendo da solo non riesco mai a riempire completamente tutti gli spazi. Ho tantissime scorte di cibo perché ehi, guai a me se non mangio abbastanza. Tuttavia ci sono tantissimi sportelli completamente vuoti o dove ho riposto qualche confezione di salsa di soia scaduta. Apro uno sportello nell’angolo del piano cottura alla ricerca di una confezione di caffè solubile. Ovviamente le mie mani non trovano nulla se non una vecchia confezione di tè verde in bustine incartato singolarmente. Scaravento l'intera confezione nel cestino. Odio il tè verde. E odio pure la mia cucina che è sempre troppo vuota. 
Rinuncio alla mia terribile voglia di caffè e apro il frigorifero optando per un po’ di latte freddo. Lo bevo direttamente dalla confezione senza avere troppa cura nel non sporcarmi la barba e la maglia del pigiama. Mi asciugo rozzamente la bocca con il dorso della mano e fisso il vuoto davanti a me. Osservo la quantità spropositata di medicinali posti disordinatamente sul tavolo. Non mi era mai successo di passare una notte così terribile. Ancora non ci credo. Sono stato costretto a farmi un’iniezione di morfina per calmare il dolore. Se mia madre lo sapesse accorrerebbe immediatamente. Odio mostrarmi così debole ma ho superato il limite. Mi sento come se avessi fatto un salto in un burrone e stia precipitando nel nulla. Arriverò mai a toccare il fondo? Forse l’ho già toccato. Mi sento così solo. Sono sempre stato un bambino, un ragazzo e poi un uomo solitario. Ho sempre amato stare in compagnia di me stesso. Mi piaceva passare il tempo ad ascoltare i miei pensieri. Ero così orgoglioso di essere un solitario. 
Ora invece sono solo. Sono chiuso in una prigione di incubi e di oscurità. Sono fuori dal mondo e nessuno può vedermi. Non mi è rimasto più niente se non me stesso. Non mi sopporto. Sono costretto a passare il resto della mia vita in compagnia dell’uomo che odio più di ogni altra cosa. Me. Akira Suzuki.
Vorrei potermi annullare definitivamente; diventare polvere e poi essere disperso per sempre dal vento. Odio il mio corpo, il mio volto, i miei capelli, le mie mani, le mie bugie, le mie parole. 
Rovescio il latte rimanente nel lavabo della cucina. Scaravento la carta della confezione da qualche parte in terra. Non mi interessa dove va a finire. Non pulisco la casa da una settimana e non lavo i piatti da altrettanto tempo. Mi accorgo che sono più di ventiquattro ore che non ingerisco qualcosa se non caffè o birra. La cucina puzza di cibo andato a male e io non sono ridotto tanto meglio. Qualche giorno fa ho persino vomitato in qualche angolo della casa. Non rifaccio il letto da giorni nè tantomeno mi sono preoccupato di lavare i vestiti. Ho chiamato a lavoro e mi sono spacciato per malato. Non ha senso continuare a fingere e mostrarmi ai miei colleghi come se tutto andasse per il meglio. Basta non posso più farlo. Sono stato un bugiardo per troppo tempo e ora ne pago le conseguenze. Fin da piccolo ho sempre pensato che la cosa più spaventosa del mondo fosse la verità: quella vera, cruda e tagliente. La verità non piace mai a nessuno. La società ci ha insegnato a vivere nelle nostre piccole menzogne: fingiamo di apprezzare il regalo di natale della nostra zia, amiamo per finta il nuovo taglio di capelli della nostra amica, fingiamo di conoscere a memoria tutti i libri di un noto scrittore per impressionare i nostri amici. E poi? Cosa riceviamo indietro? Solo altre bugie. E ancora altre bugie; e così via. Fino a che non veniamo inghiottite da esse. La nostra società è una grande bugia. Ci promettono la libertà in un mondo in cui ogni singola nostra azione è controllata da qualcun altro. Cosa sono io in questa società? Sono l’ennesimo bugiardo. Eppure ne ho pagato le conseguenze. Le bugie che ho inventato si sono ritorte contro di me come un boomerang; sono tornate indietro e mi hanno colpito in piena faccia facendomi cadere a terra. 
Mi avvicino alla gabbietta di Keiji e Oscar assicurandomi che almeno loro stiano bene. Offro loro qualche semino e mi soffermo ad accarezzare le loro testoline. Mi concedo una debolezza, una sola. Inizio a piangere silenziosamente. Le mie lacrime sono pesanti. Sono lacrime di piombo. Mi sento sprofondare nel pavimento e raggiungere la strada. Voglio scomparire sotto terra. Accendo la televisione per cercare di evitare di pensare al fatto che sto piangendo. Scorro velocemente i programmi. Non c’è niente di interessante. Mi accorgo che il vetro dello schermo è polveroso, forse dovrei pulire. Dovrei proprio fare le pulizie. Il solo pensiero di rimettere tutto a posto mi fa salire la nausea. Mi faccio largo tra una marea di bottiglie di Asahi completamente vuote sparse sul pavimento mentre cerco di raggiungere un dépliant disteso goffamente sul mio divano. Nel farlo ne butto in terra una che rotola rovinosamente fino ad arrestare la sua corsa ai piedi dell’appendiabiti. Mi cade l'occhio su qualcosa. È il grembiule bianco con la faccia di Sid Vicious stampata sopra. Sento una fissa intercostale colpirmi e obbligarmi a sedermi sul divano per pochi secondi. Mi alzo e raggiungo il pezzo di stoffa. Lo stringo tra le mani. È tutto quello che mi rimane di lui. 
Scaccio immediatamente via il pensiero ma ormai è troppo tardi. Senza nemmeno connettere il cervello appare la sua immagine davanti a me. Indossa la sua solita divisa da bibliotecario, ha i capelli sciolti e stringe dei libri al petto guardandomi con i suoi occhi grandi e luminosi. Mi sorride e sembra volermi dire qualcosa. Lo chiamo ma appena tendo verso di lui la sua immagine scompare. Piombo di nuovo nel silenzio e nella penombra del mio appartamento. È tutto così grigio. Solo quando ho conosciuto Takanori ho iniziato a vedere i colori delle cose. E ora sono tornato a vedere nuovamente la realtà intorno a me in bianco e nero. Che crudeltà. È paragonabile al mostrare un piatto di cibo succulento ad un carcerato che muore di fame. Come posso tornare nel mio mondo grigio dopo che i miei occhi hanno potuto ammirare l’arcobaleno? Sento il respiro mozzato.
Torno in camera da letto evitando di specchiarmi; non penso proprio di essere in buone condizioni in questo momento. Mi tolgo la t-shirt e la scaravento in terra. Mi butto sul lenzuolo che puzza di lacrime, sudore e paura e provo a chiudere gli occhi. Appena lo faccio vento tormentato dalle solite visioni. Quelle immagini mi infestato l'anima come un fantasma infesta un vecchio castello. Sento gli spiriti prendere il sopravvento su di me. Apro gli occhi per poi chiuderli nuovamente. Vedo ancora le stesse cose. Diapositive di momenti felici. Vedo il suo viso che mi sorride tra gli scaffali, la sua mano che stringe la mia, la sua bocca morbida e profumata.

"Tanti auguri Akira.” 
“Allora festeggiato? Dove andiamo?” 
 
“Io avevo pensato di andare al cinema. Tu che dici?”


Trattengo a stento un singhiozzo. 

“Questo è il mio numero di cellulare. Molto più facile non credi?”
“Aspetto un tuo messaggio.”



Ingoio nervosamente la saliva. 
Rivedo nella mia mente il suo sorriso. Il suo tono di voce. Le sue mani delicate come i movimenti di un cigno. Il suo volto pallido e tenero. I suoi capelli morbidi e profumati. Darei via ogni cosa che possiedo per averlo qui accanto a me. Darei via tutto per poter tornare indietro e non sbagliare. 
Mi torna in mente una scena di quando ero piccolo. 


Quando ero un bambino adoravo disegnare i personaggi dei miei fumetti preferiti ma, ammetto, di non essere mai stato molto portato con la matita e i pennarelli. Quel giorno pioveva e non potevo uscire a giocare a palla con Kouyou e Yoshinori così decisi di restare a casa a guardare gli anime in tv e disegnare. La nonna mi aveva regalato dei pennarelli nuovi e così colsi l’occasione per usarli. Mi sedetti in terra sul pavimento di legno e iniziai a disegnare tutto quello che mi passava per la testa: supereroi, alieni, soldati, mostri. Il mio personaggio preferito è sempre stato Goku, il protagonista di Dragon Ball. Mia madre mi comprò addirittura il pigiama con il logo del manga e un grosso peluche a forma di nuvola speedy, fedele compagna di avventura del mio beniamino. Disegnai tutto il pomeriggio ma ad un certo punto mi accorsi di aver sbagliato a disegnare i capelli del mio eroe. Avevo 7 anni. Mi misi a piangere a dirotto costringendo mia madre a precipitarsi in camera mia.
“Amore mio che succede?” chiese lei mettendosi in ginocchio.
“H-ho sbagliato mamma guarda. Goku è brutto!” dissi tirando su con il naso. 
“Ma è bellissimo amore” sussurrò lei abbracciandomi forte.
“Non mi piace! È brutto!” continuai battendo le manine sul tavolo. 
Mia madre mi diede un bacio sulla fronte accarezzandomi i capelli. 
“Allora se è brutto sai cosa facciamo? Cancelliamo e lo rifacciamo da capo!”
La guardai con un’area interrogativa. Ero molto stupito.
“Cancellare?”
“Ma sì Aki-chan…fammi solo trovare la gomma” affermò tastando con la mano i numerosi fogli sparsi sul pavimento. Recuperò il piccolo oggetto bianco gommoso e prese il foglio in mano appoggiandolo sul piccolo tavolino accanto a me.
“Vedi? Con la gomma si cancella tutto.” Disse mentre muoveva la mano su e giù sul pezzo di carta. La figura del mio eroe preferito iniziò ad apparire sempre meno nitida scomparendo piano piano sotto il tocco gentile di mia madre. Poco dopo mi sorrise stringendomi a sé. Le lacrime erano ormai un ricordo lontano. 
“Ecco amore mio. Con la gomma cancelli e riinizi da capo. Si può cancellare ogni errore.”




Ogni errore. Si può cancellare ogni errore. Ogni errore. Mi ripeto queste parole nella testa figurandomi nuovamente quel momento. Come vorrei poter avere una gomma da cancellare sotto mano ed eliminare ogni mio sbaglio. Cancellare e riiniziare da capo. Come il disegno di Goku. Vorrei poter cancellare ogni mio sbaglio con Takanori e ripartire dall’inizio. Dirgli tutta la verità, confessargli tutto quello che provo. Perché non ci sono riuscito? Perché sono un idiota. Un perfetto deficiente. Ho perso l’unica vera cosa che contava nella mia vita. In fondo posso dare ragione a me stesso su questo. La vita è una merda. Tutto le cose belle che possono capitarti o non succedono o svaniscono ancora prima che tu te ne renda conto. È terribile. Mi sento intrappolato in un corpo e in una vita che non ho scelto. Non ho scelto io di essere un malato di leucemia. E in un certo senso non ho scelto io nemmeno di essere salvato. 
Takanori perché mi hai salvato?’ 
Se fossi morto a quest’ora non sarei qui. Non lo avrei mai conosciuto e non mi sentirei così. Non ho mai provato questa sensazione. Non sono triste, nè depresso. Sono stanco. Stanco del peso delle mie bugie. Sento la bocca impastata dal veleno e dalla rabbia. Ho i conati di vomito. Mi alzo cercando di evitare di rigurgitare sul pavimento. Raggiungo a stenti il bagno e rovescio nel water tutto il disprezzo nei confronti della mia vita. Mi fa tutto schifo. Tiro lo sciacquone restando in silenzio ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorre. Tasto con la lingua le pareti della mia bocca trovando un profondo taglio sulla guancia interna e sul labbro inferiore interno. Lo tocco numerose volte assaporando il sapore corposo del sangue che scende lentamente sul mio palato. Cazzo la ferita si è riaperta. Per fortuna non fa più male come ieri pomeriggio. Premo la mano sulla guancia barbuta sperando ingenuamente che il dolore passi con un solo tocco. Recupero la boccetta di collutorio nel piccolo mobile posto sopra il lavandino e bevo lunghi sorsi disinfettandomi la bocca. Faccio dei piccoli gorgheggi e poi sputo il liquido bluastro nel lavandino insieme a tutta la mia tristezza. Mi guardo nello specchio e non mi riconosco. I miei occhi squadrano un uomo di quasi quarant’anni con i capelli troppo biondi e sfibrati, la barba lunga e poco curata, gli occhi spenti come una lampadina rotta, le labbra viola che ricordano un cadavere in decomposizione e due profonde occhiaie che intagliano il volto come due orme nere lasciate sulla neve candida appena caduta. Due orme che infestano il mio volto rendendolo ridicolosamente brutto. Sono un oggetto rotto e malfunzionante. Non si può aggiustare qualcosa che è stato rotto troppe volte. Si butta e si ricompra. Sono un pezzo inutile di un macchinario spaccato abbandonato da tempo. Ho solo bisogno di godermi la mia inutilità prima di esserne scaraventato via in un luogo dimenticato persino da Dio. Osservo le mie mani, queste falangi che lavorano e impastano farina e uova ogni giorno illudendomi di essere riuscito a trovare un posto nel mondo. Osservo il mio corpo, una bellezza costruita e artificiale che nasconde con la sua armonia un animo oscuro e dilaniato dalle bestie affamate. In queste notti desidero solamente di essere raggiunto dalla bestia, di essere afferrato e divorato tra le più atroci sofferenze. Pensavo di essere morto una settimana fa, davanti a quel ristorante francese. Avevo avvertito nettamente i denti della bestia infilarsi nella mia pelle e strappare pezzi delle mie carni per cibarsene senza pietà. Ho implorato, pregato, sperato di morire in quel momento con tutto me stesso. Speravo di finire in un oblio senza fine, un ente senza corpo che cade all’infinito nel nulla cosmico. Invece mi sono scoperto ancora vivo e dotato di questo misero corpo mortale utile solo a provare dolore e rancore. 
Il rumore di una frenata di una macchina proveniente dalla strada sottostante mi riscuote dal mio sonno in qui cado ormai da quando lui è sparito dalla mia vita. Da quel momento ho smesso di vivere e probabilmente anche di respirare. Ho chiuso il telefono, tanto a cosa serve avere contatti umani quando sei morto. Un corpo che si muove solo per far fronte ai bisogni fisiologici non è degno di considerazione. Esco dal bagno dirigendomi verso la cucina e facendolo getto l’occhio sulla borsa della palestra abbandonata a se stessa con i vestiti sporchi di settimane. Ho smesso di frequentare la palestra da quel giorno. Già. Persino andare in palestra è diventato inutile per me. Ho smesso di lavorare, di parlare, di ascoltare la musica, di mangiare, di amare. Ma sinceramente: io sapevo veramente cosa significava amare? Forse no. Non puoi suonare un pianoforte se non conosci le note.  Ho decisamente sbagliato tutto. È colpa mia. Mia. Mia. Mia. Mia. Voglio uscire di casa e respirare un po’ di aria. Voglio registrare le risate degli studenti per strada, le note musicali provenienti dalla radio di un negozio, i colori della città di Tokyo. Forse se riesco a lavarmi e radermi posso dirmi orgoglioso di me stesso. Mi spoglio dirigendomi verso la doccia. Rimango sotto l’acqua per così tanto tempo che dimentico persino il mio nome. Esco dal bagno sentendomi più leggero e senza nessun peso sullo stomaco. Akira Suzuki è morto. Io sono Nessuno. È così bello e puro essere nessuno. Incredibile come possa essere pesante portarsi dietro un nome e un cognome. Le lettere pesano come macigni sulla mia schiena. Mi vesto velocemente mentre accendo il mio iPhone e mi sistemo i capelli ormai lunghi e troppo disordinati. Indosso una fascia per tenere i ciuffi ribelli al loro posto. Mi metto la felpa, le scarpe e recupero la borsa della palestra svuotata di ogni vestito sporco e sudato.















 
*
















Una goccia. Due gocce. Tre gocce. Dieci gocce. Cento gocce. 
Sono chiuso dentro il box doccia degli spogliatoi della palestra da almeno venti minuti. Sono entrato con l'intenzione di sparire, di venir corroso dall'acqua corrente. Speravo che l'acqua arrugginisse questa macchina fino a renderla marcia e ridurla in polvere. Invece sono ancora qui in piedi, con la schiena appoggiata alle mattonelle fredde color blu scuro. Le gocce di acqua scorrono dai miei capelli fin sotto la mascella, attraversano il collo, il petto fino a dissolversi tra la peluria pubica. Mi accorgo solo ora che sono nudo; qualcuno potrebbe vedermi. Rimango fermo a fissare il vuoto davanti a me. Tutto sommato non posso lamentarmi...sono riuscito ad uscire di casa e fare come se non fosse successo nulla. Non è andata poi così male. Ho lo stesso malumore di questa mattina ma almeno ora ho capito che riesco benissimo a nasconderlo agli occhi di tutti. O quasi tutti. 
Qualcuno strattona violentemente la tenda della doccia e una folata di vento mi riporta alla realtà provocandomi un fastidioso brivido su tutto il corpo. Non mi aspetto di trovare il suo volto. Non ora, non qui.
"Akira cosa cazzo stai facendo?" una voce familiare mi tartassa i pensieri obbligandomi a pensare, a ricordare, ad elaborare una risposta. Non voglio. Lasciami in pace.
"Non..."
"Sei chiuso qua dentro da venti minuti...mi sono preoccupato" sussurra Jonathan guardando in terra con aria afflitta. Non lo avevo mai visto così preoccupato. Possibile che sia preoccupato per ...me?
"S-Sto bene Jonathan...lasciami stare" la mia voce è così storta che non riesce a convincere nemmeno me. 
"No che non ti lascio stare Akira...non ti lascio qui. Almeno finchè non mi dici cosa è successo" mi guarda negli occhi, squadra ogni singolo millimetro del mio volto. Sta cercando di cogliere qualcosa dal mio sguardo. Peccato che i miei occhi siano vuoti e spenti. 
Non rispondo, ma continuo a guardare un punto fisso sul pavimento. Osservo dei piccoli rivoli d'acqua provenienti dagli altri box doccia che si incontrano nel centro della stanza, affluiscono in un rivolo più grande lasciandosi travolgere da una danza violenta per poi sparire nel piccolo tombino nel centro del corridoio. Vorrei poter essere abbastanza piccolo per passare attraverso quelle fessure microscopiche e sparire dalla vista di tutti. 
Sono così afflitto che non mi curo nemmeno del fatto che Jonathan in questo momento mi sta osservando, nudo, trasandato e con fiotti di lacrime che scivolano ai lati del mio viso. A cosa mi serve la dignità se non ho più un cuore. Tanto vale fregarsene. 
"Akira ti prego...parlami. Cosa è successo?" la sua voce ha perso quel tono severo di poco prima e sembra molto più rassicurante. Alzo il volto verso la sua direzione e cerco di scorgere un'emozione sul suo volto. Non riesco. È tutto troppo confuso. Lasciami in pace Jonathan ti prego; tu non c'entri nulla. Mi scosto alcuni ciuffi dal volto e mi stropiccio gli occhi. 
"Jonathan. Ti prego. Rispondo sinceramente. Io...faccio schifo, vero?" mi rendo conto di quanto siano infantili le mie parole. 
Lui mi osserva. Indossa l'accappatoio blu con il logo della palestra, ha i capelli umidi e stringe un bagnoschiuma tra le mani. Con uno slancio secco chiude la tenda della doccia nascondendosi al suo interno. Quella tenda ci separa dal resto del mondo. 
Non ho nemmeno il tempo di chiudere gli occhi. Sento le sue labbra appoggiarsi sulle mie e accarezzarle dolcemente. Le sue sono morbide e profumano di dentifricio e dopobarba. Le mie sono screpolate e umide. Mi vergogno. Sono orribile e informe. Non merito queste attenzioni. Non ho mai provato così tanta vergogna di me stesso come in questo momento. La sua mano sinistra si appoggia sulla mia guancia sfiorandola lievemente. Il bacio diventa sempre più profondo. Percepisco la sua lingua che accarezza il mio palato. Ho la lingua congelata, non riesco a muoverla , la sposto leggermente testando le pareti interne delle mie guance avvertendo il bruciore della ferita. Sono senza forze e così lascio che sia lui a guidare il gioco. Mi lascio trascinare dalla sua bocca sperando di morire e di andarmene all'inferno. Appoggio una mano sulla sua spalla. Il bacio è lento, sensuale e disperato. Un bacio con troppi interrogativi e troppe poche risposte. Qualcosa appare nella mia mente elettrizzando il mio sistema nervoso. 
È meglio se non ci vediamo mai più.
Lo allontano bruscamente da me cercando di riprendere fiato. Prendo le sue spalle saldamente tra le mani guardandolo negli occhi. Le ciocche gocciolanti dei miei capelli hanno bagnato anche il suo bel  viso. Scusami Jonathan non volevo sporcarti con il mio animo nero. 
"Jonathan....no. C'è già un'altra persona nel mio cuore." sussurro più a me stesso che a lui. Lo osservo aspettandomi un pugno nello stomaco che non arriva. Almeno un insulto, dai me lo merito. Lui mi osserva con aria interrogativa. Mi accarezza la guancia.  Vorrei dirgli qualcosa, chiedergli scusa per come mi sono comportato. Lui non c'entra niente con questa faccenda, ha solo cercato di aiutarmi. Lui è così buono con me e non posso prenderlo in giro. Non posso sbagliare ancora. 
Tuttavia, appena elaboro qualcosa di sensato da dire non trovo più la sua figura ad aspettarmi davanti a me ma solo una tenda di plastica di un grigio spento e consumato. 









































Ciao! Chiedo umilmente scusa per essere così in ritardo con gli aggiornamenti ma sto passando un brutto periodo e solo l'idea di prendere in mano un attrezzo tecnologico mi causa troppa ansia e nausea. Prometto di essere più precisa ;_; 
MA passiamo al capitolo: avete ascoltato la canzone come vi ho detto? u_u  è un obbligo ascoltare i Placebo in una situazione del genere. Questo è in assoluto il mio capitolo preferito; è il capitolo migliore che abbia mai scritto . E sapete perchè? Perché probabilmente in queste parole c'è molta più me stessa di quanto voi crediate . Tutto quello che Akira pensa o fa è qualcosa che io ho passato in prima persona. Rimanere soli e sentirsi sporchi è una sensazione che ti stravolge e ti porta giù, ti fa cadere in un baratro senza fine. Forse quello che racconta il capitolo non è solo Akira, ma anche me stessa. E poi...Beh sicuramente c'era da immaginarselo che le cose non sarebbero andate benissimo per il nostro protagonista. Akira l'ha presa davvero malissimo e questo perchè si è riscoperto ancora più coinvolto di quello che credeva. Ha capito che Takanori è l'unica cosa preziosa della sua vita e ora quella cosa se ne è andata e lui è rimasto completamente solo. D'altronde come si può pensare di un aprire un piccolo cofanetto se non abbiamo più la chiave? L'unica soluzione rimane quella di rompere il piccolo scrigno, se vogliamo scoprire cosa c'è all'interno. Akira si sta lentamente rompendo e sta scoprendo che dentro se stesso non è rimasto più nulla. Eppure c'è qualcuno che è riuscito a trovare qualcosa di prezioso dentro quello scrigno e quel qualcuno è proprio Jonathan che , lo so, a molte o molti di voi non sta simpatico. Tuttavia Akira lo rifiuta...pensa ancora a Takanori e il povero Jonathan si sente messo da parte come un detrito. A questo punto arriva la domanda fatidica: e ora cosa succederà? Eheheheeh :B 
P.S.:  fate attenzione alla parte in cui Akira si tasta l'interno della bocca riaprendo la ferita da poco rimarginata...non ho spiegato cosa è successo volontariamente , ma forse potrebbe essere utile ricordarsi questa parte per quello che succederà dopo :B 
   
 
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