À Demian
Capitolo terzo
Inconciliabile
Nel buio della sera le luci al neon dell’insegna
dell’Edonè
andavano a intermittenza lanciando riverberi azzurri, tristi e tetri,
sugli
alberi spogli del viale.
Era
estraniante guardare il locale dall’esterno, ascoltare la
musica rimbombare tra quelle mura familiari e arrivare al suo orecchio
in
maniera indefinita. Si era seduto sul muretto del parco della stazione,
da
quella posizione aveva la perfetta visuale del parcheggio quasi deserto
non fosse
stato per un gruppo di motorini ammassati in un angolo e qualche
macchina non
messa troppo bene.
Forse
stavano suonando i Sex Pistols, non ne era certo ma le urla
stonate di “Anarchy in the U.K” erano difficili da
confondere, non bisognava
saper cantare, bastava urlarla con tutto il fiato e mangiare le parole
con il
nervoso e la rabbia. Insieme, grida chiassose d’incitamento,
risate sguaiate di
chi con l’alcool ci è andato giù
piuttosto pesante.
Non
bastava la strada che li divideva a rendere quel baccano meno
assordante, ma importava poco visto che il locale sorgeva sul viale
dietro la
stazione, in una zona particolarmente malfamata e frequentata solamente
da
quella parte di gioventù nostalgica ancora legata ad un
passato vecchio di
almeno un ventennio, di punk, di skinhead, di gabber.
Rilasciò
una piccola nuvola di condensa e si strinse nelle spalle,
per combattere il freddo di quella serata iniziata male. Le mani
pendevano nel
vuoto, tremavano, ma non era sicuro di non riuscire a tenerle ferme
solo per i
brividi. Si sentiva teso come una corda di violino e continuava a
tendere le
dita e a contrarle attorno al tirapugni, ancora e ancora, come per
instillarsi
una calma che proprio non riusciva a racimolare. I suoi amici ridevano
tra di
loro, chiacchierando del più e del meno con una
semplicità ai suoi occhi disarmante,
mentre Demian riusciva solo a restare raccolto nel proprio mutismo.
L’ilarità
con cui scherzavano lo turbava e scombussolava più di tutto,
iniziava a nascere
in lui la speranza che quella situazione si sarebbe risolta con un
nulla di
fatto, una spedizione punitiva a vuoto, ché lui non aveva
voglia di punire
nessuno, voleva solo tornarsene a casa e che la vita gli facesse meno
schifo.
Eppure
non finiva mai come desiderava, Dem stesso aveva iniziato
ad ignorare le proprie aspettative e a seppellirle, perché
lo sapeva fin troppo
bene che tutto sarebbe sempre andato storto e, volente o nolente,
avrebbe
dovuto ingoiare i sensi di colpa ed il disagio e tutto quello che si
portavano
dietro.
Si
convinceva ogni volta che sarebbe stata l’ultima, che avrebbe
lasciato perdere Niko e tutto lo schifo che circondava quella vita, che
non li
avrebbe più seguiti perché lui non era questo,
non poteva essere solo questo,
doveva esserci di più, doveva avere un luogo vero a cui fare
ritorno, non era
possibile che da qualche parte non ci fosse un cazzo di posto anche per
lui. Alla
fine però, la verità era soverchiante
più di qualunque sciocchezza di cui
tentasse di convincersi, il terrore di non avere qualcuno, di non avere
nulla a
cui aggrapparsi, era più forte di tutto.
Lo
rendeva vile, cieco e succube.
E
lo faceva vergognare di se stesso, della propria pateticità.
Demian
non sapeva sopportarsi, e questa era l’unica certezza nella
sua vita, non sopportava di accostarsi alle persone normali.
Guardò
distrattamente Nicolas ed i suoi ricci tagliati corti,
quell’aria crudele e il
suo sorriso strano, che sembrava una piaga, una linea tagliata netta
sul volto
duro; guardò Davide ed il suo non rendersi mai conto di
niente, una vena
d’innocenza che forse era solo troppo uso di acidi, gli
infiniti piercing e quei
modi goffi di muoversi, la cresta biondo platino e la testa rasata ai
lati. E
poi c’era Andrea, che non ascoltava davvero e nascondeva
parte del viso dietro
ai capelli lunghi e annodati, e Teo che voleva solo litigare ed emanava
la
familiare aura di sprezzo e collera repressa; Alex che fungeva da
cuscinetto
tra il più grande e incattivito del gruppo e il
più sciocco e inconsapevole.
Ironicamente
proprio loro, Niko in prima linea, lo avevano
accolto, raccolto quasi con il cucchiaino sulla strada dopo che era
stato
picchiato a sangue per l’ennesima volta tanto da non riuscire
più a rialzarsi.
«Sei forte piccoletto!» esclama
uno sconosciuto accostandosi a lui.
Demian sente solo la bocca piena di sangue, a malapena riesce
ad alzare gli
occhi sul nuovo venuto. Non si aspetta aiuto, si prepara solo ad
incassare
altri colpi, ma si ritrova un ragazzo più grande
accovacciato davanti a lui, a
fissarlo con un sorriso sghembo inquietante.
«Te la sei cercata» gli fa notare il
ragazzo, ma sembra più una presa
in giro che un rimprovero.
È vero, se l’è cercata, se si
può definire cercare rogne il mandare a cagare
un perfetto stronzo che non ha fatto altro che sfotterlo
definendolo
scherzo della natura.
Non
aveva potuto tacere, anche se loro erano
in tre e lui un fottuto albino del cazzo troppo debole per potersi
difendere in
qualunque modo.
Se
non voleva aiutarlo né pestarlo più
di quanto fosse possibile vista la situazione perché
diavolo restava lì a
umiliarlo con la sua sola presenza?
«Che
cazzo vuoi?» cerca di dirlo con
freddezza, la voce però è spezzata e le parole
biascicate.
«Mi piace il tuo carattere ragazzino,
veramente. Io sono Nicolas, ma
chiamami Niko, è decisamente meno da figlio di
papà!»
Questo
si è fumato il cervello, è certo.
Riesco a malapena a parlare, per non dire respirare, e lui mi elucubra
sul suo
stupido nome?
Suo
malgrado, per quanto gli riesca, abbozza
un sorriso, mostrando i denti sporchi di rosso.
«De…mia...n» sussurra e Niko,
allargando il sorriso, gli prende la mano e
gliela stringe. Poi lo aiuta ad alzarsi, passandosi il braccio di
Demian sulle
spalle e caricandolo quasi completamente di peso su di
sé.
«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni con me Dem,
la prossima volta vedrò
di coprirti io le spalle»
Chiuse gli occhi e rilasciò, insieme al fumo della sigaretta
appena accesa,
l’ennesimo, pesante sospiro di resa. Aveva un debito con
loro.
Aveva
un debito con Nicolas.
Era
sempre per quel debito che non sapeva dire di no, che si
apprestava ogni volta a compiere azioni che lo rendevano indegno a se
stesso,
che poi lo sapeva che ci avrebbe messo giorni, forse settimane, per
riuscire a
guardarsi allo specchio senza disprezzarsi troppo. Poteva solo
soffocare gli
scrupoli e i rimorsi o non sarebbe riuscito a fare nulla, solo a
causare
disappunto. Li avrebbe tenuti per dopo, tutti i suoi inutili
tentennamenti, li
avrebbe fatti sfilare davanti agli occhi prima di andare a dormire, nel
migliore dei casi li avrebbe vomitati nel primo bagno quando fosse
rimasto
solo.
La
realtà dei fatti era che non importava minimamente come si
sentisse, bastava avere l’aria giusta,
l’atteggiamento disinvolto, quasi
annoiato, per non deludere le aspettative di nessuno e non contrapporsi
all’entusiasmo dei compagni.
Ad
un tratto un ragazzo uscì discretamente dal locale e
attraversò
a passo svelto il parcheggio per raggiungere il parco, poco lontano da
dove si
erano appostati loro. Demian fu il primo a notarlo, alzò
pigramente la testa,
la sigaretta quasi del tutto consumata rimase mollemente sospesa fra le
sue
dita mentre lo seguiva con lo sguardo senza riuscire a parlare.
Aveva
trattenuto il respiro per qualche istante.
Sembrava
un ragazzino, una presenza molto poco significativa. Non
troppo alto, magro di quella corporatura scattante e nervosa, una
zazzera di
capelli spettinati che la luce porosa dei lampioni gli era parso avesse
colorato di biondo, ma non ne era certo, la sua vista era debole e
discutibile.
Ora
che finalmente lo aveva visto voleva veramente solo tornarsene
a casa e non saperne nulla, quello stupido era palesemente
più indifeso di
quanto non lo fosse stato lui stesso quel giorno, quando Niko lo aveva
aiutato
e persino respirare era troppo difficile.
Rimase
in silenzio, in attesa.
Quasi
si convinse che gli altri non ci avrebbero fatto caso, se
fosse rimasto rigido come nulla fosse, ma ovviamente aveva chiesto
ancora una
volta troppo: Niko gli tirò una leggera gomitata al braccio
ammiccando con la
testa verso il nuovo venuto, con un’espressione seria e
sadica che gli si inerpicò
in un brivido su per ogni vertebra della schiena.
Non
avrebbe potuto fermarli e quasi gli venne da ridere.
Era
ridicolo, non ci avrebbe nemmeno provato, avrebbe fatto la sua
parte. Spense il mozzicone della sigaretta contro il muro e scese con
un leggero
slancio. La colpa non era sua, era di quel ragazzino, doveva essere
proprio uno
sprovveduto per non averli notati in
quell’oscurità indefinita. Certe cose
erano semplice questione d’istinto di sopravvivenza, in un
mondo che ti
mangiava vivo se non ne possedevi un briciolo eri fottuto e la colpa
era solo
tua.
Niko
fece cenno a tutti di attendere sollevando un braccio.
Un’altra
figura, in quel parco abbandonato che era il loro quartiere e ritrovo,
si stava
avvicinando al ragazzino. Doveva essere l’acquirente venuto a
ritirare la sua
dose. Una sottile nausea gli lasciò in bocca il sapore di
bile quando realizzò
davvero cosa stesse per accadere. Sembrava troppo piccolo, si chiese se
anche
lui a suo tempo, nei suoi disagiati quattordici anni, apparisse tanto
grottesco
in quelle vesti. Tutto voleva meno che essere lì, ma non era
una novità. Quando
si trovava in un posto, immancabilmente desiderava essere altrove, in
nessun
luogo si sentiva a suo agio, era dannatamente inadatto a qualunque cosa
facesse. Per questo chiuse gli occhi, si concentrò sul
proprio respiro e ignorò
la nausea e il malessere che gli comprimevano stomaco e polmoni.
Non importa se quel moccioso è la
metà di
te, non importa.
Una
mano si poggiò sulla sua spalla, stringendola in un gesto
d’incoraggiamento «Ehi Dem, svegliati. Dobbiamo
dargli il benvenuto!»
Nicolas
non era del tutto malvagio, anche se poteva sembrarlo,
all’apparenza. Pretendeva solo ciò che sentiva
spettargli, non sapeva nemmeno
lui cosa volesse, ma sapeva come ottenerlo e il metodo importava poco.
Proteggeva ciò che aveva, e non era molto.
Era spietato sì, ma non malvagio.
La
vita attraverso quelle iridi d’acqua sporca era difficile da
comprendere, Niko non aveva la tradizionale idea di bene e male, se
sentiva l’impulso
di fare qualcosa, quella cosa doveva essere naturalmente giusta, e lui
seguiva
solo se stesso, in maniera grottesca e incurante. Demian lo aveva
capito nel
tempo, aveva anche condiviso quell’ideale, ma non aveva la
forza di perseguirlo
con la coscienza intatta, non aveva quella libertà di
spirito per convivere con
se stesso, dopo.
Decisamente però non gli riusciva di biasimarlo,
quell’assurdo ragazzo di
ventidue anni con un’esperienza di vita da far invidia ad un
cinquantenne e
l’entusiasmo di un bambino mentre tortura una lucertola, lo
disturbava solo il
fatto che i bersagli di Niko purtroppo fossero ben più
grandi di un semplice
animaletto raccolto in giardino.
La
bocca contratta in una linea dura ed esangue, non rispose
all’amico, si limitò a seguire Alex, Dave, Teo e
Andrea.
«Ehi,
pezzo di merda!» apostrofò Teo il ragazzino.
Questo
si volse, il volto smunto corrucciato, e Dem poté vedere i
suoi occhi enormi dilatarsi per lo stupore e sciogliersi in un istante
in paura
liquida. Era davvero biondo, con tondi occhi azzurri e tratti sottili,
un po’
efebici, troppo infantili. Doveva essere straniero.
Perché
un moccioso simile, un rametto secco e spigoloso fin troppo
incline a spezzarsi al minimo soffio di vento, era invischiato in
simili
affari? Lui e i suoi stupidi amici dovevano necessariamente dare
fastidio a Nicolas
nel loro giocare a fare gli adulti?
«Maledizione»
masticò a bassa voce, tra sé e sé, in
un moto
d’insofferente frustrazione. Il ragazzo nel frattempo era
indietreggiato di
qualche passo e stava cercando di dare un contegno alla propria
espressione.
«Volete
della roba?» mormorò in maniera vaga, con un
accento
decisamente straniero, forse slavo.
Un altro passo indietro ed incespicò nei propri piedi, gli
occhi spaventati
vagavano attorno, alla ricerca di una via di fuga o forse di qualche
amico che
fosse uscito a ripescarlo. Nessuno aveva fatto capolino
dall’ingresso del
locale però, era completamente solo, e forse era meglio
così. Niko non si
fermava davanti ad un mero numero, non aveva senso della misura, se
dovevano
far del male a qualcuno meglio fosse solamente uno.
I
suoi compagni si erano allargati avanzando e lentamente lo
avevano accerchiato, chiudendo ogni scappatoia.
Il
terrore su quel volto puerile Dem lo aveva conosciuto molto
bene, era stato il suo, molto tempo prima. Insieme al rammarico, a
quella mano
crudele che gli stringeva le viscere in una morsa dolorosa, come
un’onda
d’adrenalina che riscosse tutti i nervi gli montò
dentro una collera cieca a
meschina. Aveva subito tanto e così a lungo che era giusto,
ci doveva essere
una sana giustizia da qualche parte che riportasse
l’equilibrio, aveva bisogno
di sapere che non era l’unico ad aver dovuto sopportare
l’umiliazione e quel
maledetto senso d’impotenza che attanaglia solo chi non
è all’altezza di
potersi difendere.
E
se non era la vita a dimostrargli che tutti vivevano in un
maledetto pantano in cui ogni giorno si affondava un poco, allora ci
avrebbe
pensato da solo a tirare con sé altre persone. Anche il
ragazzino sarebbe
sopravvissuto, proprio come era sopravvissuto lui, e magari avrebbe
imparato
anche a fare meno cazzate in futuro e a difendersi.
«Non ho un cazzo adesso con me» aveva continuato
quello, la voce esile tremava
«State perdendo tempo»
«È
un peccato che sia da solo» osservò Teo con noia
«Avrei voluto
giocare di più»
Alex
sbuffò, sollevando appena le spalle «Meno
rotture» constatò
tranquillo, facendo scrocchiare le dita in un gesto intimidatorio.
Fu la risata di Niko però, il suono più
agghiacciante, ché Nicolas non rideva,
raschiava la gola in un ringhio quasi animalesco «Avete
sbagliato a venire qui»
disse gelido, con il volto sfigurato dal familiare sorriso pericoloso
da
attaccabrighe «Lo dirai anche ai tuoi amici, quando potrai
parlare di nuovo»
Il
ragazzo s’irrigidì, ora pienamente consapevole del
pericolo, e
si guardò ancora una volta attorno, calcolando le possibili
vie di fuga. Fu
naturale che i suoi occhi si posassero su di lui, Demian lo aspettava.
Prima
ancora che iniziasse a correre, Dem lo aveva capito, lo aveva sentito
che ci
avrebbe provato: aveva cercato il punto debole e l’aveva
individuato, tra
tutti, in lui.
Fremette d’indignazione nel rendersi conto di essere stato
considerato, come
sempre, il più scadente, l’anello debole. Strinse
i denti e quando il biondino
gli andò addosso cercando di abbatterlo con una spallata,
nonostante fosse
pronto quasi perse l’equilibrio, ma avendolo previsto
riuscì a placcarlo
tirandogli una ginocchiata nello stomaco con tutta la forza che aveva.
Voleva fargli male, punirlo per aver dubitato di lui solo per il suo
aspetto
diafano.
Lui
non era un debole.
Voleva
vendicarsi, ché in quegli occhi spaventati non riusciva a
vederci la disperazione, non più, vi leggeva unicamente
sprezzo, l’arroganza di
mille volti, di tutte le persone che lo avevano sopraffatto sempre
nella sua
vita solo perché avevano colto la sua fragilità,
la grettezza di chi non gli
aveva mai mostrato un briciolo di pietà, gli occhi di tutti
coloro che
l’avevano fatto sentire un lebbroso, sbagliato, inadeguato.
Impotente.
Che
lo avevano considerato o avvicinato soltanto per ricordargli
che non valeva niente.
Il ragazzo boccheggiò sulla sua spalla per un attimo, la
bocca spalancata in un
moto di stupore e dolore, poi cadde a peso morto su di lui e Demian lo
lasciò
scivolare a terra, pietrificato dall’improvvisa
consapevolezza.
Fu
Alex ad afferrare il ragazzino per la giacca, impedendogli di
abbattersi al suolo, lo strattonò bruscamente allontanandolo
da lui.
E
Demian lo guardò immobile, inaspettatamente stanco, come
svuotato. Perché era successo di nuovo, il suo orgoglio era
stato troppo spesso
ferito ed ora non riusciva a controllarlo, si sentiva spinto a reagire
come se
ogni gesto fosse un insulto alla propria persona. Ed ora era
già pentito,
avrebbe dovuto permettergli di scappare, lo sapeva fin troppo bene.
Teo
gli concesse un sorriso feroce e stranamente compiaciuto «Bel
colpo», gli disse in un raro apprezzamento, prima di caricare
il braccio e
colpire il ragazzo in pieno stomaco. Ne seguì un lamento
raccapricciante da
animale ferito, un singulto che non aveva voce.
Demian
chiuse gli occhi piano, poi li
strinse, strinse i pugni, prese fiato. Non fece nulla, non avrebbe
potuto
nemmeno volendo, rimase come paralizzato davanti agli amici che a turno
si
divertivano a massacrare un indifeso. Rimase fermo per un tempo che gli
parve
infinito, e non c’era lui, solo i suoni e il senso di colpa,
e quel “Perché non
l’hai lasciato andare? Lo sapevi
come sarebbe finita, lo sai sempre”.
I
gemiti erano ormai sfumati in un mormorio
leggero, non gli vedeva il volto perché era letteralmente
sopraffatto dai suoi
compagni, nessuno di loro conosceva la compassione, forse come lui ne
avevano
ricevuta troppo poca nella loro penosa esistenza, per poterne provare.
Al diavolo
cosa avrebbe pensato quel bastardo di Teo, avresti dovuto farlo
scappare.
Dovresti
fermarli.
Eppure
le mani avevano ripreso a tremare
troppo, non ci sarebbe riuscito, e non per paura di loro, quello mai.
Se si fosse
messo contro Niko conosceva bene quali sarebbero state le conseguenze,
piuttosto
prevedibili tra le altre cose, ma le avrebbe sopportate, non sarebbe
stato
nulla di diverso dal passato. Dopo però, che ne sarebbe
stato di lui?
Aveva
già perso a sufficienza, la vita gli
aveva chiesto sempre troppo e Dem aveva già pagato
abbastanza, non era giusto
rinunciare ancora per uno sconosciuto che non l’avrebbe
nemmeno ringraziato.
Come
prevedibile, Teo non gli permise di
restarsene con le mani in mano «Ehi scherzo della natura, non
ti prendi la tua
parte? O hai paura di sporcare le tue manine bianche?» lo
richiamò ad un
tratto, dopo essersi reso conto che non aveva fatto nemmeno un passo.
Era
una sfida quella, Teo lo riteneva uno
smidollato, aveva imparato ad accettare, pur con insofferenza, la sua
presenza
solo per Nicolas, ma non poteva sopportarlo ed il sentimento di sprezzo
era
reciproco. Gli altri ragazzi no, loro lo rispettavano, ma Teo era il
più
grande, il più violento e decisamente il più
figlio di puttana tra tutti,
quello che ci andava sempre troppo pesante qualunque cosa facesse e che
avrebbe
voluto prendere il suo faccino e spiaccicarlo al muro fin dal primo
giorno in
cui si erano incontrati.
Alex
stava tenendo il ragazzo da dietro,
ormai ne sosteneva quasi interamente il peso, quel corpo piccolo e
gracile era
spezzato, ogni respiro un rantolo disumano di dolore, il volto una
maschera
viola e pulsante rigata di lacrime e sangue. Non c’era
più l’azzurro limpido
delle sue iridi strafottenti e intimorite, gli occhi erano gonfi e
pesti. Aveva
perso qualche dente, probabilmente aveva qualche costola rotta visto la
contrazione del viso ogni volta che provava ad incamerare aria, e Dem
si chiese
come facesse ad essere ancora cosciente.
«Allora,
ti decidi a tirarti insieme?»
insisté Teo, provocatorio.
«Lui
non è un vigliacco» ribatté Niko con
astio, forse per difenderlo, Demian aveva l’impressione che
Nicolas si sentisse
oltraggiato ogni volta che Matteo lo accusava perché, in
qualche modo, con
quell’atteggiamento metteva in dubbio una sua scelta, come a
dirgli che aveva
sbagliato a permettergli di unirsi al loro gruppo.
E
Niko non sbagliava. Infatti si volse verso
di lui e annuì, come a incoraggiarlo a far finire
rapidamente la situazione a
far rimangiare a Teo il proprio commento. Dave e Alex lo osservavano
con la
medesima sicurezza, erano convinti che non li avrebbe delusi, e Dem
riusciva
solo a pensare che, davvero, avrebbe preferito non dover dimostrare
nulla a
nessuno, non voleva farlo.
Avrebbe
voluto essere a casa, magari
abbracciato a Sarah, a leggerle qualche storia, a stringere la sua
manina
sottile da bestiolina.
Sistemò
il tirapugni, distese le dita, le
strinse intorno agli anelli di metallo, in un gesto abituale.
Avrebbe
voluto che maman fosse nella sua
stanza per prendersi cura di lei, avrebbe voluto fare i compiti e
andare a scuola
la mattina, l’indomani.
Alzò
il braccio sinistro e caricò il colpo,
veloce, senza esitazioni.
Non
doveva pensare, non si sarebbe perdonato
più tardi, nella sua solitudine.
All’impatto
sentì la mandibola del ragazzo
rompersi, la pelle lacerarsi. Il biondino lasciò andare un
ultimo urlo
straziato, il suono abbandonò le sue labbra insieme ad un
fiotto di sangue, poi
la testa gli ricadde inerme sul petto, come una bambola rotta.
Finalmente il
dolore gli aveva permesso di svenire, le lacrime però non
smisero di bagnargli
le guance gonfie e segnate. Un’immagine grottesca e
angosciante così eccessiva
da sembrare finta. Alex liberò il corpo martoriato del
ragazzino che senza
forze cadde a terra indifeso, ricoperto di sangue in un tale stato che
sarebbe
potuto tranquillamente apparire morto, e Niko soddisfatto gli strinse
la spalla
e gli sorrise con orgoglio «Sei un grandissimo bastardo,
questo si che è un
pugno come si deve! Che dici Teo, hai finito di rompere il cazzo per
oggi?»
Il più grande scrollò le spalle, disinteressato.
«È
meglio andarcene» fece notare Davide,
allarmato. Aveva notato un movimento nel parcheggio, gli occhi di Dem
corsero
all’ingresso dell’Edonè, alcuni ragazzi
stavano uscendo, forse a controllare
perché il loro amico tardasse tanto. Teo diede un ultimo
calcio al corpo inerme
prima di avviarsi, e Demian e gli altri lo seguirono, lanciandosi in
una corsa
divertita, come avessero compiuto un’innocua marachella e
fossero riusciti a
sfuggire ad un rimprovero.
«Ignora
quello stronzo, io lo so che non sei
il tipo che si tira indietro» gli disse ancora Niko per
incoraggiarlo. Aveva un
modo assurdo, tutto personale, di cercare di infondere sicurezza.
Doveva
essersi convinto che gli importasse qualcosa delle parole di Teo e del
suo
veleno gratuito, ma a Demian quel loro concetto di “non
tirarsi indietro” era
del tutto estraneo e avrebbe riso di quella rassicurazione, se non si
fosse
sentito feccia. Non gliene importava niente, pensava solo
all’articolazione che
cedeva sotto il suo pugno, al dolore in quei lamenti, alla maschera
tragica
calcata sul volto di un ragazzo che sembrava più piccolo di
lui.
Quello
che aveva fatto ora non era diverso da
ciò che aveva subito, era diventato un carnefice che aveva
ancora l’ardire di
sentirsi la vittima, e si odiava. Almeno una cosa, una sola doveva
farla, o non
sarebbe più riuscito a guardare negli occhi la sua petite
peste senza sentirsi
indegno. Prese il cellulare e compose rapidamente il numero
«Serve
un’ambulanza»
Si
muoveva nell’oscurità come fosse lui stesso
inconsistente e potesse dissolversi, ed era quella
l’impressione, voleva
dissolversi. Non aveva acceso la luce ed il silenzio assordante premeva
come
una coperta asfissiante sul suo corpo, ne appesantiva i movimenti.
Raggiunse la
porta socchiusa della camera di maman, guardò attraverso lo
spiraglio alla
ricerca di una sagoma familiare che non avrebbe ritrovato, Jenevieve
era ancora
in ospedale e se lei era ricoverata Demian poteva solo aspettarla.
Aspettare
che lei tornasse era il mantra della sua esistenza, come
l’attesa davanti a
quella porta.
Lalami,
goffa a causa del sonno e delle
grosse zampine che scivolavano sulle piastrelle, gli si
avvicinò per
mordicchiargli il fondo dei jeans. Era brillo e aveva mal di testa, non
aveva
voglia di giocare. Si chinò, le lasciò una tenera
quanto rude carezza sul
testone, poi entrò in camera di sua madre. Si stese sul
letto matrimoniale che
profumava di lei e del sandalo che spargeva nella stanza per togliere
l’opprimente odore da malata, come lo definiva maman, mise il
cuscino in
posizione verticale e vi si aggrappò con forza, affondandovi
il volto.
La
odiava, quella donna, prendersi cura di
lei era l’unica ragione che riempisse le sue giornate, quando
veniva ricoverata
si sentiva sperso, non sapeva che fare, si lasciava trasportare.
Viveva
perché lei tornasse ancora a casa.
La
bombola dell’ossigeno era ancora accanto
al materasso.
Presto
Se
lo ripeteva come un mantra.
Solo qualche
giorno e poi basta silenzio
***
Pioveva a catinelle quella mattina, gocce di pioggia
implacabili e grandi
come chicchi d’uva gli frustavano il volto e senza un
ombrello, nel
ripercorrere a testa china la distanza tra il parcheggio sul retro
dell’edificio e l’ingresso della scuola, si
ritrovò con la felpa completamente
fradicia ed i capelli candidi appiccicati alla fronte.
Rassegnato
alzò gli occhi stanchi sulla
struttura, cercando di metterla a fuoco, di mettere a fuoco i ragazzi,
gli
insegnanti, le persone che si affrettavano come lui, solo ombre nella
sua
visione debole, figure dai tratti indefiniti, sfocate forse anche da
quell’atmosfera umida di acqua e nebbia leggera. Era
più di una settimana che
non partecipava alle lezioni, maman non era stata bene, gli era parsa
più
affaticata del solito. Le cure le causavano frequenti attacchi di
debolezza e
Demian non sapeva cosa fare di diverso per aiutarla a sentirsi meglio.
Aveva
potuto solo girarle costantemente attorno, soffocarla di attenzioni,
farle
mangiare tutti quegli stupidi cibi sani che non servivano a niente, ed
infatti
non era cambiato nulla, non serviva mai.
L’aveva
vista stare sempre peggio e non aveva
potuto fare assolutamente niente, e non riusciva a rassegnarsi a
quell’impotenza che gli mangiava l’anima, sentiva
solo che doveva impegnarsi di
più, avrebbe dovuto essere più concreto e, quando
fosse tornata a casa, avrebbe
trovato un modo per esserlo.
Non
era certo che gli insegnanti lo avrebbe
giustificato ancora a lungo, molti stavano diventando insofferenti e
non
perdevano occasione di far pesare il proprio disappunto. Alcuni non li
aveva
mai nemmeno visti, col nuovo anno erano cambiati e con le sue assenze
non sapeva
neanche che faccia avessero, ma era solo questione di
priorità, se lo ripeteva
continuamente: degli estranei non sarebbero mai stati la sua
priorità.
S’infilò velocemente le cuffiette del lettore CD
mentre saliva i gradini,
lasciando che i Blur nascondessero le voci dei ragazzi appostati come
avvoltoi
sulla porta a fumarsi una sigaretta prima della campanella. Era il modo
più
semplice per estraniarsi, la musica, lui avrebbe fumato dopo, preferiva
nascondersi nelle scale antincendio durante l’orario di
lezione perché era
l’unico modo che aveva trovato di non imbattersi in qualcuno,
preferiva essere
solo per rilassarsi. Gli estranei lo agitavano più di quanto
non fosse disposto
ad ammettere, odiava ritrovarsi circondato di persone, il disagio lo
attanagliava e non sapeva dove guardare, cosa fare, come muovere le
mani.
E
si odiava, ché quel malessere nasceva dagli
sguardi, non riusciva ad accettare come lo fissavano tutti, neanche
fosse un
fenomeno da baraccone o un raro animale in via d’estinzione,
e allora si
biasimava per essere tanto debole.
Ma
erano troppo pesanti, quegli sguardi,
perché potesse fingere di non vederli, e gli restava solo la
musica come muro,
anche se di prima mattina non la sopportava, aveva tremendamente sonno.
Non
c’era incentivo migliore delle cuffie per tenere gli altri a
distanza, e in più
davano l’impressione che fosse impegnato in altro che non
elucubrare sulle sue
assillanti fobie. Non voleva dare l’idea di essere
spaventato, preferiva essere
isolato grazie alla sua aria sprezzante e spavalda, ma in
verità lo sapeva che
non aveva davvero bisogno di quei sotterfugi per restare solo:
già il suo
aspetto metteva le persone a disagio. Gli parlavano come avessero
davanti un
paraplegico, con l’imbarazzo tipico di chi non sa dove
guardare per non dare
l’impressione di fissare troppo a lungo e in modo sfacciato.
Se poi aggiungeva
a questo anche la sua fama da spacciatore, teppista, drogato legato a
pessime
compagnie, lo stereotipo di persona da evitare se non si volevano
problemi, dal
carattere instabile in grado di spaccare la faccia a qualcuno per una
parola
sbagliata e più volte portato in caserma per rissa e
spaccio, beh, diventava
facile capire che non avrebbe avuto noie, e ci arrivava anche da solo,
ma non
lo accettava. Non aveva certo un curriculum invidiabile alle sue
spalle, eppure
non riusciva a trattenere un sorriso sardonico davanti
all’ipocrisia delle
persone che lo circondavano. Frequentava una scuola d’arte, e
lì le droghe si
sprecavano, difficilmente aveva visto studenti
“trovare” l’ispirazione senza
fumarsi almeno una canna.
Scrollò
la testa, a scacciare un pensiero
fastidioso.
Era
meglio così, doveva essere meglio. Se
avevano paura di lui lo lasciavano solo e non era costretto a dare
spiegazioni
di alcun tipo a nessuno. Essere soli, nel suo caso, poteva essere solo
un
vantaggio e l’unica cosa sensata, c’erano
verità di cui preferiva decisamente
non parlare.
Quella mattina aveva dato un’occhiata indolente
all’orario e aveva scoperto che
alla prima ora lo aspettava italiano, ma non aveva idea né
di dove fossero
arrivati con il programma né chi fosse il nuovo insegnante.
Ne provava un
leggero dispiacere, amava leggere ed era fondamentalmente quello che
faceva
durante le lezioni, per trascorrere il tempo. A casa era sempre troppo
nervoso e
troppo impegnato a prendersi cura di maman per poter trovare la
tranquillità di
aprire un libro, invece la scuola, per quanto paradossale, era una
specie di angolo
di paradiso, di quiete totale e assoluta dove se gli venivano
rivolte due
parole era un evento fuori dalla norma, quasi un miracolo.
Entrò nella sua aula, la
Lasciò cadere la borsa a terra, con atteggiamento
insofferente, e fece scorrere
rapidamente lo sguardo sulla nuova classe prima di posarlo sul
paesaggio fuori
dalla finestra. Aveva fatto in tempo, con quella rapida analisi, a
vedere
capannelli di ragazzi che borbottavano fissandolo in tralice. Di alcuni
di loro
ricordava il nome, di altri solo il viso, ma aveva frequentato
così poco dall’inizio
dell’anno da non aver legato praticamente con nessuno dei
nuovi compagni.
Si ritrovava nuovamente in seconda perché la situazione di
Jenevieve si era
definitivamente aggravata l’anno precedente e lui aveva
scelto di vivere più
tempo in camera di sua madre che seduto ad uno stupido banco ad
ascoltare
stupide persone.
Ovviamente
gli insegnanti non glielo avevano
perdonato.
Quello
era probabilmente l’ultimo anno che
avrebbero trascorso insieme, lui e sua madre, ma aveva scoperto che la
pietà
aveva un limite, limite oltre il quale, stupidamente, gli insegnanti si
sentivano presi in giro. Avevano deciso di dargli contro, come se la
sua fosse
pigrizia. Come se il suo mondo ruotasse intorno a loro e prenderli in
giro
fosse la ragione del suo esistere, quando per lui loro non
erano altro che
ombre.
Ed ora si sentiva osservato e avrebbe voluto solo chinare la testa.
Lo
capiva, la classe doveva essere parecchio
incuriosita da lui, quelle attenzioni però non erano
reciproche, non erano
niente di speciale, non avevano nulla che potesse minimamente
interessarlo. Schiuse le labbra per accogliere un’altra
boccata d’ossigeno, e
continuò a perdersi oltre la finestra, lontano, dove era
più facile non
accorgersi di nulla. Quando s’innervosiva, cercava di
concentrarsi sui
dettagli, lo aiutava. Come quasi ogni edificio di inizio novecento,
giusto
perché la struttura della sua scuola non stava cadendo a
pezzi, le finestre
erano celate da un’inferriata di ferro battuto a ricami
floreali, che faceva
tanto carcere e celava parzialmente il cielo grigio quanto la strada, e
su quei
ricami decise di focalizzare la sua attenzione.
Non
sentiva il rumore della pioggia, ma gli
sembrava di poterne percepire la carezza, la morbidezza
dell’acqua sul viso.
Quell’odore di umido quando le gocce s’incontravano
con il calore dell’asfalto
Dem avrebbe potuto respirarlo ad occhi chiusi senza mai stancarsene, se
ne
sentiva riempito e si sentiva svuotato di ogni sentimento. Lo
tranquillizzava e
inebriava di una strana e calda esaltazione, forse lo lasciava
semplicemente
sereno. Era come lui, silenziosa, ovattata di malinconia, abbracciava
tutto ed
ingrigiva il mondo, lo velava di una tenue tristezza che non lo faceva
sentire
solo, adombrava ogni cosa con il fascino della decadenza.
La
voce timida di una ragazza lo riportò alla
realtà e gli ricordò che si trovava in classe.
Non era in ospedale con maman.
«Ciao
Demian»
Distrattamente
la squadrò, si sforzò di
riconoscerla o almeno di cogliere un brandello di
familiarità, ma non ebbe
successo. In realtà stava pensando ancora ad altro, cercava
gli sbuffi d’acqua
sulla strada con la coda dell’occhio, pensava a sua madre,
non gli pareva
nemmeno di avere davanti quella sconosciuta.
Non
era brutta, ma non era neanche bella. Una
ragazza nella media, piccola di statura come una bambina, forse troppo
morbida
per potersi permettere di fasciarsi in jeans tanto stretti e con troppo
trucco
sugli occhi castani. Senza sarebbe stato meglio, sarebbe parsa
più pulita e
innocente, come faceva pensare quel fisico indifeso. I capelli neri e
mossi le
arrivavano fino alle spalle, era impacciata da morire, dava
l’impressione di
non sapere cosa fare mentre si torceva le mani, le labbra troppo
sottili tese
in una linea d’ansia.
Involontariamente
inarcò un sopracciglio.
«Sono
Giulia» disse lei, notando la sua
perplessità.
Si
sarebbe staccata le dita, se avesse
continuato a tormentarsi le mani con tanto nervosismo.
Non
era tanto il suo nome a lasciarlo
dubbioso, quanto la situazione nel complesso. Nessuno gli rivolgeva mai
spontaneamente la parola se non per provocarlo, gli unici rapporti che
aveva
avuto con delle ragazze erano più o meno sempre dello stesso
stampo: lui era
bello, strano, “diverso” nella vera accezione della
parola, e quelle erano nel
migliore dei casi delle sciocche che facevano scommesse su chi sarebbe
stata la
prima che riusciva a farlo capitolare, per aggiungere alla propria
personale
lista dei “ragazzi che si erano fatte” anche un
malato; nel peggiore dei casi,
idiote che volevano solo il cattivo ragazzo di turno e si erano
convinte che
lui lo fosse per eccellenza.
Praticamente
era abbordato solo da soggetti
discutibili e per principio non se ne filava nemmeno una.
Giulia però non sembrava appartenere a nessuna delle solite
categorie, era
questo a spiazzarlo. Era carina, aveva un sorriso timido e gli occhi
bassi per
l’imbarazzo.
Cosa
diavolo voleva da lui?
In
che modo avrebbe dovuto mandarla via?
«Sei stato malato?» tentò ancora Giulia,
con un coraggio che lo sguardo
sfuggente tradiva. Eppure sembrava davvero decisa a parlare con lui e,
quasi a
seguire un copione, volse lo sguardo verso due ragazze, due sue amiche,
che le
sorridevano e sghignazzavano come due emerite idiote.
D’improvviso
capì cosa stesse succedendo ed
insieme al fastidio subentrò la familiare fitta di
umiliazione. Era una sfida
riuscire a catturare il suo interesse, lei non doveva essere diversa.
Lo vedeva
sulle sue, sgarbato, il classico cattivo ragazzo tenebroso che andava
redento,
con dei problemi irrisolvibili che risvegliavano in lei lo stupido
istinto da
crocerossina latente in quasi ogni ragazza.
Fece una smorfia di fastidio.
«Sono sempre malato, è difficile guarire quando ci
nasci»
Le
guance di Giulia s’imporporarono di
vistoso imbarazzo e le sue labbra sottili s’inclinarono verso
il basso, in una
sfumatura di delusione che non le riuscì di celare. Non si
sentì in colpa, odiava
quel tipo di attenzioni, non l’avrebbe di certo intenerito
con della pietà.
«Ti
servono degli appunti?» sussurrò lei
ancora, in un ultimo, disperato sforzo di comunicare, sbatacchiando le
palpebre
neanche le fosse entrato un moscerino nell’occhio, sperando
di essere
ammaliante forse, Dem non lo capì. Pensò solo che
fosse ridicola e che si stava
stancando, gli unici sguardi da cucciola desiderosa d’affetto
che riuscivano a
renderlo arrendevole e a conquistarlo erano quelli della sua Sarah,
magari
Lalami, perché era un’indifesa palla di pelo crema
troppo tenera per resistere,
tutto il resto era noia, imitazioni per nulla convincenti.
«Ti
sembra che mi interessi?» la freddò senza
frenare l’insofferenza nella voce, prima di voltarsi e
tornare a osservare la
pioggia sottile e scrosciante come aghi fuori dalla finestra. Sperava
davvero
che Giulia cogliesse l’antifona e si facesse da parte,
già quelle poche parole
cavate a forza lo avevano drenato.
Con
la coda dell’occhio notò la piccola bocca
della ragazza aprirsi in un cerchio di perfetto sconcerto e
indignazione, era
impallidita all’improvviso, le mani avevano smesso di
stritolarsi
vicendevolmente.
«Sei…
sei proprio maleducato!» sbottò sulla
difensiva, mordendosi l’inesistente labbro inferiore. Dem non
trattenne un
sorriso beffardo e sollevò un poco le spalle, in un gesto di
studiata noncuranza.
Giulia sospirò e gli diede la schiena, pronta finalmente ad
andarsene, gli
occhi avevano perso in un battito di ciglio quel guizzo da innamorata
persa.
Proprio vero
amore,
valutò
sollevando le iridi chiare al soffitto.
«Ehi»
La
compagna fece scattare il volto verso di
lui, illuminata da un barlume di speranza che gli fece storcere il
naso.
Pensava davvero che potesse chiederle scusa?
«Non
truccarti al buio la mattina. Non ti
riesce» l’apostrofò con un ghigno di
scherno, prima di rimettersi le cuffiette
con un gesto rapido e preventivo, per non udire la risposta inveita o
il
borbottare scocciato delle amiche impiccione. E infatti si accorse con
crescente insofferenza che la sua antipatica e gratuita osservazione
aveva
attirato l’attenzione degli altri compagni di classe, che ora
confabulavano
guardandolo in tralice senza nemmeno tentare di dissimulare la propria
curiosità.
Le
amiche della sua personale adescatrice la
presero a braccetto, gli riservarono un’occhiata rovente e la
condussero al suo
banco come due oche impettite.
Adelina
e Guendalina Blabla, avrebbe detto
Sarah, e pensare al commentino pungente che la bimba avrebbe fatto
migliorò un
poco il suo umore e gli strappò una breve ma profondamente
divertita risatina.
Scosse il capo e si passò una mano fra i capelli, inclinando
la testa
all’indietro per contemplare il soffitto costellato di
macchie di umidità. Con
fantasia poteva provare a vederci qualche immagine astratta, in quei
contorni,
il tempo stava scorrendo a rilento e iniziava a disperare per quegli
interminabili minuti che non avevano intenzione di esaurirsi.
Fortunatamente,
al suono della campanella l’insegnante fece subito capolino
dalla porta e, come
un operoso e poco pensante sciame d’api, tutti gli studenti
scivolarono
rumorosamente nei propri posti.
Non
si meravigliò nel constatare che il banco
accanto al suo fosse, ironicamente, vuoto. Era curioso di sapere chi
usufruisse
del suo posto durante le numerose giornate di assenza che
caratterizzavano la sua
carriera scolastica, perché sicuramente qualcuno
c’era. Forse, i due ragazzi
dall’aria scanzonata della seconda fila, che avevano il
classico atteggiamento
da piccoli bulli, il ragazzo pigro del centro che sembrava sul punto di
addormentarsi; o qualche ragazza desiderosa di un posto dove poter
spettegolare
non vista. Non che per Dem fosse un problema, era una legge non scritta
che
veniva rispettata puntualmente, quando frequentava le lezioni quel
posto era
suo, nessuno si era mai permesso di ridire sulla questione.
Doveva
però esserci un assente, visto che
accanto a lui non si era presentato ancora nessuno. Appoggiò
indolente la
guancia sulla mano, per non doversi sforzare nemmeno di dover tenere la
testa
sollevata, e seguì il professore con gli occhi mentre
iniziava a fare
l’appello. Faceva parte della nuova guardia, Demian non lo
conosceva, ma era
giovane e dall’aria un poco impacciata, c’era
qualcosa di goffo nel tentativo
autoritario del suo tono, nella rigidezza della sua postura. Sembrava
un bersaglio,
non un insegnante.
«Lemaire
Demian»
«Presente»
rispose automaticamente, e l’uomo
s’interruppe subito, con evidente stupore.
«Lemaire,
finalmente posso vederti. Sono
sorpreso di scoprire che esisti. Incominciava a girare la voce che tu
fossi una
leggenda metropolitana» lo punzecchiò, facendo
ridacchiare alcuni ragazzi più
per condiscendenza che per vero divertimento.
«Lo sono» osservò pacatamente, facendo
accigliare il professore.
Era
giovane, sulla trentina al massimo, un
accenno di barba incolta, altezza media e fisico da studioso letterato,
sopracciglia folte arricciate in disagio.
Accennò
un colpo di tosse per dissimulare la
perplessità «Le voci sulla tua sfacciataggine
erano vere più che una leggenda.
Comunque spero che a casa ora vada tutto bene e che tu possa
ricominciare a
frequentare le lezioni come si deve»
Perse
un battito davanti a quelle parole, il
sangue smise semplicemente di fluire e Demian si ritrovò
allibito a labbra
schiuse, un foglio bianco al posto dei pensieri coerenti. Non poteva
crederci,
lo aveva detto davvero, quell’uomo inetto e incompetente
aveva fatto un simile
commento in classe, davanti a tutti. La conferma che
quell’uscita non fosse
frutto del suo pensiero gliela diedero le voci dei compagni di classe
che
avevano seguito l’affermazione levandosi in un brusio
sommesso.
Le
prime file si erano voltate, i ragazzi lo
guardavano di sottecchi, alcune ragazze tenevano le mani sulla bocca
per
coprire i commenti che si stavano bisbigliando.
Assottigliò
gli occhi dal taglio obliquo in
una linea crudele e ostile: «Non è morto ancora
nessuno» sputò con ironia
incattivita «Ma ovviamente è solo questione di
tempo»
Lo
disse solo per far sentire l’insegnante
sbagliato e fuori luogo, perché doveva imparare, doveva
mordersi la lingua e
imparare a stare zitto, non doveva permettersi di far conoscere a
perfetti
sconosciuti la sua situazione. La sola idea di essere sulla bocca di
tutti per
qualcosa di reale, qualcosa che l’avrebbe reso ancora
più pietoso e patetico,
lo faceva impazzire.
Calò
un silenzio imbarazzato che lo riempì di
sprezzante soddisfazione. Si appoggiò con inerzia allo
schienale della sedia,
incrociò le braccia al petto e squadrò il
professore con un sopracciglio alzato
in un atto di sfida.
Arrogati
ancora il diritto di accennare alla mia famiglia, ti sfido a provarci.
L’uomo
abbassò il capo e si passò una mano
dietro al collo «Mi dispiace molto» si
limitò a mormorare «Io sono il professor
Morelli. Sei rimasto piuttosto indietro, al cambio dell’ora
mettiti d’accordo
con i tuoi compagni e fatti passare gli appunti»
Il
professore deglutì a fatica e distolse lo
sguardo, evidentemente turbato, aprì il libro di testo e
iniziò a sciorinargli
gli argomenti della lezione precedente, argomenti che Demian purtroppo
già conosceva
grazie all’anno passato. Si stavano concentrando
sull’analisi del testo e della
poesia, erano ancora fermi alle prime figure retoriche e, quel giorno,
era
previsto “Pianto Antico” di Carducci.
Sollevò gli occhi al soffitto e sbuffò
rumorosamente.
Era
prevedibile, studiavano sempre le stesse
cose, mai un sussulto di originalità. Più che
imparare, a volte aveva
l’impressione di essere semplicemente indottrinato,
studiavano a pappagallo di
generazione in generazione le medesime cose e solo quando erano
diventati un’infinità
di piccoli identici cloni erano liberi di uscire. La scuola non era
diversa da
un allevamento di polli e poi, fuori, lo avrebbe aspettato il macello.
Perché
arrischiarsi nel creare pensieri diversi, quando si poteva essere
tragicamente
banali e identici?
Il
diverso non piaceva davvero a nessuno, lo
doveva accettare e basta, faceva solo storcere le bocche, causava solo
ribrezzo, distanza, sospetto.
Istintivamente
allungò il braccio per
recuperare la borsa abbandonata a terra. Vi frugò dentro e
ne estrasse un libro
dalla copertina rigida di finta pelle, il titolo inciso con un elegante
corsivo
dorato riflesse vivacemente il colore della luce artificiale
dell’aula.
“Lès
misèrables”.
Lo
accarezzò pazientemente per qualche
istante, rapito dal titolo, dalla delicatezza di quei suoni.
Ovviamente, la
copia era in lingua originale, la sua vera lingua, più di
quanto lo sarebbe mai
stato l’italiano, ed era paradossale. Lui in Italia
c’era nato e cresciuto,
eppure riusciva a guardarlo ancora come un paese straniero, il luogo
natio di
suo padre. Forse era questo ad estraniarlo, Demian con l’uomo
che li aveva
abbandonati che Sarah era appena nata non voleva averci nulla a che
fare,
condividere il suo sangue lo allontanava da se stesso, non era mai
riuscito ad
accettare di avere qualcosa in comune con lui. L’Italia era
il paese dell’uomo
che non aveva più rivisto, che era scappato senza nemmeno
salutarlo e che, ora
che maman era ammalata e morente, non si faceva carico dei due figli
capitati
per errore in gioventù, si limitava solo a mandare un
sostanzioso mantenimento
per tenerli lontani dalla sua vita perfetta.
Era
il paese dell’altra donna.
Non ci riusciva proprio, a sentirsi parte di qualcosa di più
grande, si sentiva
solo estraneo in terra straniera e quando usava l’italiano
gli sembrava di
avvicinarsi a quell’uomo, di creare punti in comune che non
desiderava. La
Francia era sempre stata la sua unica, vera casa, la sua patria.
Lì era nata
maman, l’unica ad avergli dato un nome e un cognome, e solo
lì aveva, anche se
dispersa, ancora una famiglia pronta ad accoglierlo e che a volte gli
mancava
come l’ossigeno. Quando sua madre era una ragazzina, i nonni
per lavoro si
erano trasferiti in Italia, e quando qualche anno dopo avevano deciso
di ritornare
nella loro amata Francia, solo Jenevieve e Claire erano rimaste. La zia
aveva
conosciuto il suo futuro marito, maman si era illusa che una persona
squallida
sarebbe stata la sua famiglia, ecco perché si ritrovava
lontano da zio Jean, da
nonna Marie, da Isabeau e tutti i numerosi cugini.
Mentre
in Italia, beh, erano solo figli illegittimi
e indesiderati, lui e la sua Sarah, i nonni paterni nemmeno li avevano
mai
voluti conoscere, odiavano Jen troppo a fondo per poterli considerare
loro
nipoti. Se ci rifletteva, si sentiva patetico, per questo non voleva
mai pensarci
e non voleva che qualcuno sapesse. Nella sua vita aveva sempre detto
che suo
padre era morto, era meno penoso che ammettere di essere stato
rifiutato fin
dalla nascita.
Aprì
il libro nel punto segnato dalla foto
che aveva incastrato tra le pagine qualche giorno prima.
L’istantanea scivolò
sul banco, mostrando il volto angelico e radioso della sua bellissima
sorellina, tenera di una bellezza da bambolina di porcellana, una
fragilità
disarmante in quel corpicino minuto e pieno di vita. Si
soffermò sulle
lentiggini poco definite dallo scatto e sui suoi occhioni di ridente
caramello,
e ne provò un familiare e straziante dolore, un senso di
mancanza che sapeva
come di uno strappo improvviso e infelice nell’anima. Avrebbe
voluto trascorrere
con lei ogni minuto di ogni giorno, voleva ricordarle sempre che non
erano
soli, che lei lo avrebbe sempre avuto in un modo o
nell’altro, ma avrebbe
mentito anche a se stesso. Sarah era la sua vera famiglia,
l’unica che gli
restasse, e gli faceva così male guardarla e starle accanto
che non ci
riusciva, per quanto lo volesse. Averla e perderla sarebbe stato
troppo, non
riusciva a reggere il pensiero della sua assenza.
«Lemaire»
lo richiamò il professore.
Aveva
il libro in mano e un’espressione molto
seccata contraeva i suoi occhi piccoli in fessure rugose e sottili
«Potresti
trovare la lezione interessante se ascoltassi. Potresti spiegarci
perché il
poeta sceglie queste immagini per raccontarci il suo lutto?»
Demian
arricciò le labbra in un sorriso
ferino e beffardo. Non aveva il libro di testo e di certo non gli
serviva,
“Pianto Antico” era, appunto, una poesia che alle
medie veniva fatta imparare a
memoria oltre ad essere chiara e desolante in modo struggente.
«La
parafrasi in certi casi è superflua,
certe cose non hanno bisogno di essere spiegate, si spiegano da
sole» ribatté tranquillamente,
con un’alzata delle iridi chiare alle luci al neon del
soffitto.
«Sottolinea
l’ovvio per i comuni mortali»
insisté piccato il professore, e a lui venne solo da
sorridere. Non era una
punizione, era un gioco. Gli erano sempre piaciute le poesie, aveva
passato
interi pomeriggi con maman a leggerne per poi discuterne per ore, era
dolce
come solo un’abitudine poteva esserlo.
Era
un amore viscerale per le parole che
Jenevieve aveva trasmesso a lui e a Sarah fin dall’infanzia,
le parole di altri
per trovare un senso ed una voce alla sua anima che sapeva solo
dimenarsi e
contorcersi e urlare senza articolare suoni. Ed era questo,
ciò di cui parlava
Carducci, il suo singolo sentimento diventava comune, esprimeva una
sofferenza
che Dem non sarebbe mai riuscito a pronunciare.
«Parla
del dolore, il dolore di ciò che è
perduto e che non si può riavere» si
ritrovò a mormorare. Le dita accarezzavano
piano la superficie liscia della foto come se potessero attraversarla
ed
arrivare a sua sorella e sfiorarla con la medesima dolcezza
«Ci sta dicendo che
la natura non muore mai, non per davvero. Che se una foglia cade in
autunno
rinascerà sempre a primavera. Ma per l’uomo non
è così e non c’è nessuna
fede
che salvi… quando perdiamo qualcuno lo perdiamo per sempre,
la morte è solo
assenza e fa male come morirne. L’autore ha perso suo figlio,
il mondo attorno
a lui potrà anche rinascere e il tempo continuare a scorrere
ma questa realtà
non può cambiare… ed è una sorte
contro natura, quella umana, che non segue un
vero corso, perché un padre non dovrebbe mai sopravvivere al
proprio figlio»
Un pesante silenzio gli fece eco, Demian sollevò lo sguardo
dalla foto per
posarlo sulle file di persone sedute davanti a lui, quasi tutte intente
a farsi
i propri affari o almeno a fingere di farli. Alcuni suoi compagni, con
cautela
intimorita, lo studiavano, coprendosi la bocca con la mano per cercare
di
celare i mormorii di commenti inadeguati. C’era pena in
quegli occhi,
compassione, una pietà annichilente che lo spinse a mordersi
l’interno della
guancia per soffocare la morsa di disagio. Giulia era completamente
girata,
rivolta verso di lui in modo quasi sfacciato, non esitava a mostrargli
che lo
stava fissando ed anzi, sembrava proprio intenzionata ad intercettare
il suo
sguardo, forse per leggervi quelle parole che non avrebbe mai
pronunciato.
Era davvero dispiaciuta, c’era qualcosa di profondamente
innocente e buono in
lei e per questo non riusciva ad odiarla, nonostante gli fosse
tragicamente
facile pensarla un’insopportabile impicciona.
Chinò il capo ancora sulla foto,
sull’incredibile sorriso a trentadue denti della sua petite
peste, sui capelli
castano dorati che le incorniciavano il volto in una massa arruffata
mentre
mangiava il gelato, con la guancia sporca di panna montata e gli occhi
strizzati in mezzelune di brillante sole. Lo salutava con la mano
libera, era
seduta su uno scivolo rosso del parco giochi ed era radiosa quel
giorno, lo
ricordava, l’avevano scattata l’estate appena
trascorsa, zio Jean aveva portato
Jenevieve all’aperto e Sarah si era divertita moltissimo.
Il dolore di Carducci forse Demian poteva capirlo davvero, perdere
Sarah
significava per se stesso divenire un ramo secco e morto incapace di
sperare in
una nuova primavera, come se il sole venisse spento
all’improvviso ed il modo
scivolasse nel buio di un’esistenza vuota e apatica.
«Interessante»
borbottò Morelli con
meraviglia, prima di annuire per poi puntare l’attenzione su
qualcun altro e
proseguire l’analisi del testo.
***
Aveva
approfittato
subito del cambio dell’ora per uscire a fumare, si era
accomodato, quasi
sdraiato, sui gradini delle scale antincendio, con la schiena
appoggiata al
muro e la testa reclinata all’indietro, a guardare il
soffitto senza vederlo
davvero, una gamba piegata sosteneva il suo braccio, l’altra
restava mollemente
distesa, come priva di forze. Piovigginava ancora, acqua leggera come
polvere
sottile. Demian ne era incantato, si smarriva in quelle linee fini che
fendevano l’aria e allora una malinconia prepotente gli
pesava nel petto come
un nodo che andava stringendosi, e quel malessere era tanto familiare,
struggente, da portare con sé un po’ di
serenità che forse era, in realtà, solo
una rassegnazione impotente.
Il
cellulare vibrò
nella tasca dei jeans facendolo sussultare e strappandolo dal suo sogno
estatico. Lo tolse lentamente, provava sempre un moto di orrore quando
quell’aggeggio reclamava la sua attenzione, un permeante
senso di ansia nel
vedere chi l’avesse cercato. Quando leggeva il nome di Claire
gli tremavano
ogni volta le mani, poteva significare che Sarah era stata male, troppe
volte
si era dovuto precipitare dalla bimba, troppe volte il terrore
l’aveva
paralizzato e aveva pensato che doveva finire tutto, che non ce la
faceva a
sopportare quel panico.
Per
Demian ormai le
chiamate di Claire significano sempre e solo che Sarah aveva bisogno di
lui e
si odiava e si vergognava anche con se stesso nell’ammettere
che detestava
leggere il nome di Claire su quel dannato display, soffriva troppo e
non
riusciva a sopportarlo.
Zia
Claire
Buongiorno
Dami, sei a scuola?
oggi
dopo pranzo andrò a trovare Jen, devo
farle sapere qualcosa?
Ah,
Sarah ha chiesto quando potrà vederti di
nuovo
2/10/2001
9:08
Avrebbe
dovuto regalare un cellulare a sua
sorella, almeno avrebbero potuto sentirsi ogni volta lei lo desiderasse
senza
passare prima dalla zia, si sarebbe risparmiato un paio
d’infarti.
Ridacchiò
piano, sarebbe mancato solo un suo
infarto per chiudere il cerchio paradossale che era la sua vita.
Demian
Di a maman che arriverò sul tardo pomeriggio e
cenerò con lei e a Sarah che
passo a prenderla verso le tre
2/10/2001
9:13
Zia Claire
Ok,
ma non pensare che non mi sia accorta che
non mi hai detto se sei a scuola.
Ci
vediamo presto tesoro. Abbi cura di te, ti
voglio bene
2/10/2001
9.15
Non
smise di sorridere, anche se si sentiva
un poco triste e in colpa.
Sentirsi
chiamare “tesoro” lo turbava, di
certo un tesoro non lo era ma probabilmente la zia non voleva
ammetterlo.
Schiacciò il mozzicone della sigaretta contro il gradino e
si decise a
rientrare in classe. La lezione era già iniziata da almeno
dieci minuti, perciò
non si sorprese di trovare la porta dell’aula chiusa ed il
professore in piedi
davanti alla lavagna. Ciò che lo lasciò perplesso
abbastanza da fargli perdere
qualche secondo davanti all’ingresso, fu ritrovare il banco
accanto al suo
improvvisamente occupato da una figura sufficientemente minuscola da
apparire
insignificante. Un ragazzo mingherlino e dall’aria sfigata,
con grandi occhiali
a fondo di bottiglia, si dimenava sulla sedia neanche fosse posseduto
per
cercare d’intravvedere l’esercizio alla lavagna.
«Lemaire»
lo apostrofò subito il professor
Albani, uno dei pochi insegnanti che gli fosse familiare, visto che
aveva già
avuto il piacere d’intrattenere rapporti complicati con lui
l’anno precedente
«Quanto tempo»
«Buongiorno
prof. Sentito già la mia
mancanza? Sono passate solo un paio di settimane» Demian gli
sorrise con eccessiva
arroganza, per provocarlo. Era consapevole che la sua noncuranza era la
causa
principale dell’indispettirsi dei professori nei suoi
confronti, ma lui stesso
era sempre stato profondamente scocciato dalle stupide e inappropriate
frecciate dei docenti e non era mai riuscito a nasconderlo.
«Va’ al posto» sibilò astioso
Albani «E aspetta l’intervallo prima di andare a
fumare»
Annuì, sollevato di aver scampato l’alterco almeno
per una volta, e si diresse
pacatamente al suo posto. Non gli sfuggì il nervosismo del
ragazzino del banco
accanto al suo mentre lo studiava come un alieno, così come
non poté non notare
tre ragazzi voltarsi verso lo sfigato con un ghigno meschino e
derisorio.
Folgorato, comprese che probabilmente lo avevano costretto a sedersi
accanto a
lui, quello non doveva essere il posto abituale del mingherlino.
Pensavano
seriamente che l’avrebbe picchiato,
maltrattato o comunque praticato su quel ragazzino una qualsiasi forma
di
violenza?
La
sua fama in quella scuola doveva essere
precipitata ulteriormente, perciò si morse
l’interno della guancia e decise
d’ignorare il nuovo vicino per riprendere con la sua lettura
della mattinata,
giusto per non dare adito a strane idee di bullismo psicologico o
verbale.
Aveva
preso l’abitudine, quando trovava
qualche frase che lo colpiva particolarmente, di sottolineare il brano
con la
matita per trascriverlo successivamente, una volta arrivato a casa, su
un
qualunque spazio disponibile della superficie di legno con cui aveva
ricoperto
una parete di camera sua, in un vero e proprio collage di frasi
sconnesse.
Erano i suoi promemoria, i suoi mantra di vita, forse solo un tentativo
di
sostituire le classiche parole, i consigli, che avrebbe dovuto dirgli
un adulto
serio e presente quando fosse rientrato a casa. Le conosceva tutte a
memoria,
gli erano familiari e gli davano l’impressione che ci fosse
qualcuno ad
aspettarlo, anche se si trattava di un personaggio immaginario di un
qualche
racconto stravecchio di secoli.
“Tutti gli
uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno
quaggiù,
nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne
durante, la
medesima cenere dopo”
Tastò
il banco alla ricerca di una matita,
senza distogliere gli occhi dalle pagine, e non si ricordò
subito di aver
dimenticato l’astuccio, quel giorno.
Imprecò
sottovoce e rimase a fissare truce le
lettere che gli danzavano davanti, incerto su come segnarsi la pagina
senza
rovinarla. Non voleva correre il rischio di scordarsi la citazione e
sapeva
che, matematicamente, di lì a qualche ora avrebbe
dimenticato dove ritrovarla,
quando il timido ragazzino accanto a lui, notando il suo improvviso
nervosismo,
gli porse titubante una matita.
«Ti
serve?»
Demian
arricciò le labbra, quasi risentito.
È evidente
che mi serve, che domanda idiota.
Avrebbe
voluto dirlo ad alta voce, ed invece
rimase zitto e cercò di non guardarlo. Non poteva prenderla
e basta, quella
stupida matita, sarebbe stato scortese, e tuttavia non voleva nemmeno
parlargli, non voleva correre il rischio di aprire una porta
che desse il
via ad un dialogo imbarazzante.
Si
morse la guancia e fissò le pagine con
finta ostinazione, studiando con la coda dell’occhio
l’intimidito compagno che
non aveva ancora guardato in faccia. Il
ragazzo con cui non voleva parlare, con
un’espressione tra il sollevato e
il rassegnato, appoggiò la matita nella sua parte di
bancata, abbozzò con
l’angolo della bocca un sorrisino contrito e tornò
a concentrarsi sul suo
esercizio.
Demian
ne rimase spiazzato. Esitò un istante,
il tempo che quello strano individuo senza nome ci mise per tornare a
seguire
la lezione, poi afferrò di soppiatto la matita e
sottolineò con decisione il
paragrafo. Si sentì immediatamente meglio, ma non era certo
fosse solo per
essere riuscito a soddisfare le proprie fissazioni.
Non l'avrebbe ringraziato, era sottinteso che fosse grato, non
c’era bisogno
di parole. Squadrò ancora quel profilo spigoloso e indeciso
e ne sorrise, si
sorprese nel provare una sorta di simpatia per quel piccolo secchione.
ANGOLO
AUTRICE
BUON ANNO A TUTTI!
E buon compleanno a
me! XD
Pensare
di
scrivere due righe tra Natale e Capodanno è sempre utopia,
ma io ci ho provo lo
stesso perché sono tenace e non mollo!
Ieri
sera,
per festeggiare il mio genetliaco, sono andata al cinema, e siccome non
sono
una persona, ma l’incarnazione di uno spazio pubblicitario
per le cose che amo,
vi inviterò ad andare a vedere il nuovo Star Wars per la
quale mi sto ancora
rotolando per terra.
Anche
solo
per gli ultimi tre secondi, bisogna vederlo, dico sul serio, non
supererò
facilmente il coccolone che ho provato per quell’unica
inquadratura che sa di
omaggio ed è tristissima (se siete fan della saga capirete,
se non lo siete che
cosa state aspettando? XD).
Concentrandoci
invece sul capitolo, con questo abbiamo più o meno vagliato
gli aspetti
principali della vita del nostro Dami, ovvero la famiglia, gli amici ed
ora la
scuola.
È
parecchio
complessato, lo so, ma proprio per questo è per me
tremendamente adorabile. Non
ho granché da dire, vorrei sentire cosa avete da dire voi,
mi piacerebbe
davvero moltissimo, fatevi avanti senza timore!
Vi
incentiverò
con la banale scusa che il mio compleanno è appena passato
per ammorbidire il
vostro cuoricino e magari spingervi a sprecare due minuti per me.
Sarebbe
un
gesto molto carino!
In caso non funzionasse, tanti auguri! Il prossimo
capitolo è anch’esso
già pronto e dovrebbe arrivare settimana prossima insieme ad
un nuovo
personaggio che spero vi piaccia!
Ps: quando dico che ascolta i Blur, in
realtà nella mia testa sono molto
più specifica, ascolta Song 2, uno dei brani rock
più famosi di sempre, giusto
per non essere un poco banale XD