À Demian
Capitolo quarto (prima parte)
Per caso
Quando
la campanella suonò, decretando finalmente la fine di sei
ore interminabili di supplizio, Demian chiuse gli occhi e
inclinò la testa
all’indietro con un sospiro di sollievo, lasciandosi
scivolare scompostamente
contro lo schienale della sedia. Era stata una mattinata tragicamente
lunga e
solo le tre ore di modellato erano riuscite a distrarlo un poco.
Siccome era
ripetente, il professore invece di commissionargli ancora la scultura
di un
piede, che già si era dovuto subire, gli aveva permesso
insieme ad un altro bocciato
di entrare nella stanza dove la scuola conservava i modelli e di
sceglierne uno
autonomamente.
Davanti
a scaffali invasi da modelli di diversa difficoltà, Demian
aveva optato per una testa di tigre scuoiata. Le fauci aperte in un
ruggito
sofferente e i muscoli delineati ed esposti lo avevano stregato. Il
professor
Sala non ne era stato molto convinto, ma era l’unico a vedere
in lui un talento
e non un fallito perciò lo aveva assecondato con quel suo
scetticismo da acido
artista e Dem aveva scommesso con se stesso che ci sarebbe riuscito e
l’avrebbe
fatto in meno di dodici ore. Anche il suo compagno di classe lo aveva
imitato,
probabilmente per non essere da meno, e su quella scultura si erano
dannati
tutta la mattina.
Era
stato l’unico momento di tregua che aveva avuto.
Leggere
gli era risultato impossibile, non era abbastanza
concentrato, in due ore era avanzato di una manciata di pagine, si era
ritrovato più volte sulla stessa riga e aveva capito che non
sarebbe riuscito a
sfuggire ai propri pensieri.
Non
poteva smettere di pensare al ragazzino della sera prima, come
diapositive i ricordi di quel corpo inerme e devastato accasciato a
terra gli
scorrevano sotto le palpebre ogni volta che chiudeva gli occhi. Non
aveva
potuto accertarsi di come stesse, era dovuto fuggire come il
più vile codardo
per evitare problemi, ed ora avrebbe solo voluto sapere se stesse bene,
forse
sarebbe bastato a lavarsi un poco la coscienza.
Forse.
Ma
non ci credeva nemmeno lui.
Troppo
preso a rincorrere i propri sensi di colpa, Demian non si
accorse subito che il compagno di banco aveva rifatto rapidamente il
proprio
zaino e si stava già per avviare fuori dall’aula.
Dava l’impressione di avere
molta fretta, forse non vedeva semplicemente l’ora di
allontanarsi da lui, non
se ne sarebbe stupito. Allungò comunque una mano verso la
manica del ragazzo e
gli strattonò bruscamente il braccio, per attirare la sua
attenzione.
Il
compagno spalancò gli occhi resi enormi dalle lenti e
s’irrigidì, un cerbiatto braccato nella prateria.
Riuscì, con quel suo stare in
guardia fin troppo eccessivo, a strappargli un sorriso, e con quel
sottile
accenno sulle labbra Dem gli porse la matita.
Non
gli stava antipatico, era quella la verità, era piccolo e
minuto, con il volto un poco segnato dall’acne e
l’aspetto dinoccolato e
impacciato insieme, come una buffa caricatura di un adolescente
qualunque.
Conosceva quella postura, un po’ curva, di chi può
difendersi solo da sé e
cerca di farsi piccolo per poter sparire, era un peso a Demian fin
troppo
familiare. E, nonostante l’atteggiamento indisposto e
scostante e tutto
l’impegno che profondeva nel sembrare terribile, Dem non
voleva esserlo
davvero. Avrebbe solo voluto sapere come sarebbe stato trovare qualcuno
a cui
non importasse nulla di quella maschera fusa al suo volto, che
riuscisse a
vedere oltre il suo ridicolo tentativo di essere un rivestimento che
aderisse
alle idee altrui, per assecondare quella triste idea di sé
che tutti avevano,
perché a nessuno importava di leggere tra le righe, nessuno
glielo aveva mai
chiesto, come fosse in realtà, se ci fosse altro oltre a
ciò che avevano scelto
di vedere in lui.
Ogni
suo gesto andava letto tra le righe, ma si era quasi
rassegnato al fatto che nessuno parlasse la sua lingua dato che nessuno
aveva
mai davvero capito.
Non
si meravigliò quando il compagno di banco, con aria
preoccupata, fece guizzare rapidamente gli occhi da lui alla porta
prima di
afferrare frettolosamente la matita e allontanarsi quasi correndo,
senza dirgli
una parola.
Non
se ne meravigliò ma non poté esimersi dal provare
un leggero
moto di delusione.
Abbassò
la mano lentamente, assorto, lo sguardo fisso come a
cercare ancora una persona che era già sparita.
«Non
è come pensi»
La
voce sottile e delicata di Giulia lo aveva riscosso, si volse
per guardarla mentre con malcelata cautela la ragazza si avvicinava
piano al
suo banco, come aveva fatto quella stessa mattina. C’era una
prudenza diversa
ora nel suo rivolgergli la parola che riuscì a infastidirlo.
Inarcò un
sopracciglio in un’espressione eloquente di
perplessità, e incrociò le braccia
al petto, rilassandosi contro lo schienale della sedia come a darle un
invito
implicito a proseguire, per dare un senso alla sua invadente uscita.
Giulia
arrossì, chinò appena la testa e prese a giocare
distrattamente con una ciocca di capelli «Non è
scappato per colpa tua. Barbi
intendo, lui fa sempre così quando finiscono le lezioni,
scappa sempre. Te lo
dico perché mi è sembrato che ci fossi rimasto
male.»
Demian
si morse l’interno della guancia e deviò lo
sguardo.
Che
quella sconosciuta avesse colto il suo disagio lo faceva
sentire umiliato, ma non l’avrebbe mai ammesso. Rifiutava con
tutto se stesso
di potersi far ferire da simili sciocchezze, nella vita aveva ricevuto
rifiuti
come essere umano decisamente più dolorosi, doveva essersi
fatto le ossa, era
una questione di principio «Non ci sono rimasto
male» chiarì, lasciando
trapelare involontariamente una nota di infantile testardaggine di cui
Giulia
sorrise con condiscendenza.
«No,
infatti. Non sei il tipo, sei al di sopra di tutto, no?»
Aveva
assottigliato gli occhi in fessure ostili di freddo ghiaccio
e le aveva scoccato uno sguardo astioso, ma Giulia non aveva smesso di
sorridergli, le guance rosse velate d’imbarazzo. Lo aveva
salutato agitando la
mano, balbettando qualche incomprensibile parola di commiato, e se ne
era
andata come se la sua collera non l’avesse minimamente
sfiorata. Forse, aveva
valutato tra sé mordendosi l’interno della
guancia, con la fronte corrugata e le
sopracciglia chiare corrucciate in disappunto, rispetto al trattamento
che le
aveva riservato quella stessa mattina l’occhiataccia appena
ricevuta doveva esserle
sembrata un sorridente biglietto d’invito.
Ma che diavolo vuole quella, che
all’improvviso deve parlarmi per forza?
Non
era stato abbastanza sulle sue, doveva essere più scocciato
e
recalcitrante se voleva sperare di liberarsi di possibili, futuri
scocciatori,
ma non aveva pensato che nella nuova classe si sarebbe imbattuto in
soggetti
così seccanti.
Lasciò
cadere la testa a ciondoloni all’indietro e
sospirò ancora,
un’abitudine per scaricarsi e riprendere il controllo della
situazione quando
aveva l’impressione che questo gli sfuggisse. Erano usciti
praticamente tutti e
anche lui si decise finalmente ad abbandonare il proprio banco.
Era
una giornata storta, avrebbe voluto raddrizzarla vedendo
Sarah, magari portandola a prendere un cellulare, eppure non riusciva a
trovarne la voglia.
Più
grave, non riusciva a trovarne il coraggio.
Era
un bugiardo che mentiva a se stesso, ma aveva solo paura,
ciò
che gli faceva desiderare di stare lontano da sua sorella in quel
momento era
la sua vigliaccheria. Sarah era uno specchio in cui scorgeva la propria
imperfezione, lo sarebbe sempre stata con quei suoi occhi grandi e
limpidi,
puliti di un mondo incontaminato che lui non aveva mai conosciuto, uno
sguardo
sognante nella quale talvolta si smarriva. Quando poi la sua coscienza
era più
sporca del solito la evitava come fosse il peggiore dei mali
perché quel
sorriso aperto, quella sua dolcezza adorante da bestiolina che gli
riservava,
lo facevano sentire tragicamente in difetto, lo costringevano a fare i
conti
con se stesso e a ricordarsi costantemente che non era e non sarebbe
mai stato
quello che avrebbe dovuto essere per renderla fiera di lui, per essere
degno di
lei.
Si
sentiva fuori posto e si trovava costretto a mentirle piuttosto
che avere il coraggio di sopportare il suo biasimo. Sarah era tutto il
suo
mondo e ogni cosa che potesse desiderare, come poteva reggere un suo
ipotetico
rifiuto se non fosse riuscita ad accettare la terribile e imperfetta
persona
che era?
Come
avrebbe sopportato un pomeriggio accanto a lei?
Con
che coraggio le avrebbe parlato, con che forza avrebbe potuto
sorriderle, fingendo che tutto andasse bene, che fosse felice, che non
fosse
diventato esattamente come quelle persone che disprezzava dal profondo
e che
avevano reso la sua infanzia una strada lastricata di tormenti?
Si
coprì il volto con la mano, massaggiandosi
l’occhio in un gesto
di esasperata frustrazione. Gli bastava pensare a quella bambina per
lasciarsi
cadere in un circolo di paranoie e autocommiserazione, era evidente che
anche
quel giorno non ce l’avrebbe fatta a vederla, lo sapeva
perfettamente, ed era
un’autodifesa sciocca e controproducente perché
solo la presenza di Sarah in
realtà avrebbe riassestato il suo mondo e ridato un senso ad
ogni suo gesto.
E,
nonostante questo, si sarebbe negato la sua cura, perché
Sarah
era l’incarnazione della sua coscienza ancora limpida e
perfetta, completamente
fuori dalla sua portata, non la meritava, non quando era
così infangato.
Fuori,
l’aria fredda gli pizzicò il naso. Aveva smesso di
piovere
ed il sole, pallido vessillo riflesso su un cielo cangiante di nuvole,
emanava
una luce debole e fastidiosa che sembrava rimbalzare da una superficie
all’altra. Si ritrovò costretto a strizzare gli
occhi più volte, ma non bastò a
lenire il bruciore, allontanò i capelli dal viso e
rilasciò una boccata di fumo.
Mentre
si avviava lentamente verso il retro della scuola, nella
sezione del parcheggio nascosta dell’edificio e lontano
dall’ingresso perché
quella mattina era arrivato tardi e tutti i posti erano già
stati occupati,
riconobbe delle voci concitate, ma non ne distinse le parole.
A
causa della sua inutile fotosensibilità quando la luce era
così
iridescente diventava più cieco di una talpa, non riusciva a
tenere gli occhi
aperti e non vedeva a più di un metro di distanza, per cui
gli fu impossibile
mettere a fuoco i proprietari di quelle voci tanto rumorose.
Fortunatamente il
suo casco aveva la visiera oscurata o quel giorno sicuramente si
sarebbe
schiantato contro una pianta prima di raggiungere casa. Non vedeva
l’ora che
arrivasse l’inverno, con un po’ di fortuna e magari
un po’ di pioggia e di neve
si sarebbe risparmiato anche le lenti che mal sopportava visto che gli
irritavano la sclera rendendo i suoi occhi ancora più
arrossati ed inquietanti
di quanto madre natura avesse deciso. Sulla sua carnagione risaltavano
anche
troppo, due gocce di sangue in campo bianco.
Le
voci attirarono ancora una volta la sua attenzione e Demian,
tenendo la sigaretta tra i denti, si sforzò di mettere a
fuoco la situazione
facendosi ombra con le mani per vedere più lontano,
ingoiando l’umiliazione.
Gli
occhiali da sole erano la soluzione, sciocco lui che quel
giorno li aveva dimenticati a casa.
Finalmente
riconobbe il suo compagno di banco mingherlino e goffo
proprio mentre veniva spintonato da un ragazzo che, a intuizione, era
almeno il
triplo di lui e il doppio di Dem. Vide “Barbi”, se
questo era il suo nome,
cadere a terra, dritto in una pozza. I suoi occhiali scivolarono sul
suo naso e
caddero a terra, mentre il suo aguzzino gli urlava contro qualcosa.
Demian
si ritrovò a rallentare il passo fino a fermarsi, per poter
assistere alla scena.
Perché cavolo deve succedere
proprio mentre passo io?
Non poteva succedere dieci minuti
prima?
O anche dopo, putain, ma non
mentre io sono nei paraggi!
Rosicchiò
il filtro della sigaretta, combattuto sul da farsi. O
almeno, avrebbe voluto essere combattuto, ma in verità si
era fermato solo per
darsi del cretino per ciò che stava per fare e per cercare
di convincersi a non
andare e a starne fuori.
Ovviamente,
dopo le etiche azioni della sera prima, gli sarebbe
stato impossibile far finta di nulla o davvero stavolta si sarebbe
dannato
l’anima per tutta la vita.
«Lascialo
stare!» si era sfilato la sigaretta dalla bocca e lo
aveva urlato prima ancora di rendersene conto. Aveva gettato il
mozzicone a
terra e a passo deciso avanzava verso l’armadio a due ante
che sovrastava il
piccolo Barbi. Non sapeva se fosse o meno uno studente, se lo era
doveva essere
come minimo del quinto anno, al contrario di lui sembrava
già un uomo, un
adulto e non un ragazzino. Più l’immagine
dell’energumeno si definiva ai suoi
occhi più una parte di lui si pentiva di non essersi fatto
gli affari propri.
Non che non avesse esperienza nell’andare alle mani con
soggetti all’apparenza
più prestanti, ed infatti allo sconosciuto Demian
mostrò solamente la sua aria
spavalda e provocatoria che, sapeva, avrebbe fatto arrabbiare quel
gigante solo
di più.
«E
tu chi cazzo sei?»
Ormai
a pochi passi di distanza Demian si accorse che il ragazzone
non era più alto di lui, erano solo le braccia e i pettorali
pompati a farlo
apparire più ingombrante, nulla che fosse ingestibile.
Portava i capelli
cortissimi e in quella cortina di pochi millimetri compariva una
svastica
rasata grande tutta la nuca. Un naziskin era esattamente quello che gli
serviva
per dare il giusto brio alla sua giornata.
Anche
il suo compagno di classe stava assistendo alla sua comparsa
con altrettanta confusione, come fosse un’apparizione
sovrannaturale, e a
Demian venne spontaneo pensare che forse, con quella luce cangiante,
doveva
sembrare un rilucente fantasma.
Sorrise
ferino, mostrando con la sua smorfia provocatoria il
canino storto «Ti rigiro la domanda, bestione. Sei uscito
dalle pagine di Mary
Shelley, per caso?»
L’energumeno
rasato si accigliò, mostrando quella che doveva
essere probabilmente la sua espressione più brillante, da un
neonazista non si
aspettava di certo picchi di folgorante intelligenza.
«Frankenstein!?»
rincarò Dem, ironico, sperando che almeno
cogliesse la battuta, ma ne seguì solo un momento di
perplesso silenzio.
«È
amico tuo?»
Il
naziskin si rivolse al suo compagno di banco ancora sdraiato a
terra senza occhiali, e quello prontamente scosse la testa.
Eh, ti pareva. Aiuti un idiota e
quello ti pianta in asso proprio mentre gli tendi la mano.
Piccolo vigliacco
Non
che gli importasse davvero del supporto di quello smidollato,
non si era messo in mezzo per lui, non davvero. Lo stava aiutando solo
per
poter avere una ragione valida con se stesso per guardare di nuovo
negli occhi
la sua bestiolina, senza dannarsi l’anima e desiderare di
spaccarsi la testa
contro il primo spigolo utile.
Aveva
scrollato svogliatamente le spalle «Nessuno sarebbe amico di
un omuncolo» chiarì scoccando al ragazzino
occhialuto un’occhiata indifferente «Ma
gli devo una matita» sfidò Frankenstein con il suo
sorriso più beffardo «Mettiti
in coda se ne vuoi una anche tu»
L’espressione
dubbiosa del suo brillante interlocutore lo fece
ridere di sottile scherno, voleva restare impassibile ma proprio non ci
era
riuscito, quello sguardo vacuo era solo la conferma che non si trovava
di
fronte un genio, non che avesse nutrito dubbi a riguardo.
Gli
occhi di Barbi ora erano immensi sul suo viso smunto anche
senza gli occhiali che ne deformavano l’immagine.
«Mi
stai prendendo per il culo?»
Demian
si schiarì la gola per far scemare la risata e assunse il
suo atteggiamento inflessibile e senza traccia di timore, anche se da
qualche
parte ne provava «Quindici secondi per capirlo, non sei
così stupido! Pensavo
ce ne avresti messi come minimo trenta»
Nonostante
fosse estremamente prevedibile, Dem non fu abbastanza
svelto da schivare il pugno che, preciso e veloce, lo colpì
in pieno volto,
sullo zigomo. Il contraccolpo lo fece vacillare, già sentiva
il sapore
ferruginoso del sangue che si diffondeva in bocca, ma non ebbe il tempo
di
soffermarcisi. Frankenstein gli si avventò contro, caricando
ancora il destro
che Demian scansò prontamente, deviò il braccio
dell’energumeno e gli assestò un
pugno nello stomaco. Lo vide dilatare gli occhi per la sorpresa, mentre
la
bocca si apriva e gocce di saliva restavano sospese fra di loro. Fu
solo
qualche secondo esteso, poi Demian mirò a quella faccia
larga e informe da
ominide sotto steroidi. Ne seguì un grottesco
“croc” quando il naso di lui si
accartocciò come argilla sotto le sue dita, il naziskin si
lasciò sfuggire un
guaito animalesco e si allontanò velocemente di qualche
passo.
Aveva
colpito bene, il ragazzo si portò le mani sul volto e
imprecò chinandosi, come a contenere il male che provava
mentre un rivo di
sangue colava dalle narici e gli bagnava le labbra e il mento.
Il
viso di Demian pulsava terribilmente, ma strinse i denti e
ingoiò gli spasimi di sofferenza usando tutta la forza di
volontà di cui
disponeva per mascherare il dolore e restare dritto, sprezzante e
impassibile.
Aveva imparato molto tempo prima ad incassare ed aveva sviluppato una
certa
resistenza che forse era solo troppo orgoglio.
«Sparisci
cazzo, sparisci o giuro che ti ammazzo, ti spacco la
faccia!» urlò
Frankenstein, gli occhi
iniettati di collera e le vene del collo e della tempia che palpitavano
come
piccoli bruchi grassi, era talmente sfigurato dalla collera che Dem non
dubitò
nemmeno un istante che l’avrebbe fatto, ma non ne fu
minimamente preoccupato.
«Facciamo
che te ne vai tu. Oggi sono stanco e ho altri impegni,
trattare con voi bestioni non è il mio passatempo
preferito» gli sorrise
sfacciato, ignorando il dolore che si spandeva dallo zigomo al resto
del volto.
Era più inquieto per lo stato della sua faccia che per
l’innocuo bestione
domestico che sapeva solo sbraitare ma non aveva i denti.
«Questo
stronzo mi deve dei soldi!» urlò ancora il ragazzo
rasato.
Era frustato ma non accennò ad avvicinarsi più.
Demian
si passò stancamente una mano fra i capelli appiccicati
alla fronte per l’umidità, si soffermò
prima sul gigante, poi sul piccolo Barbi
ancora seduto a terra come incredulo. In un primo, astruso pensiero,
tutto
passò in secondo piano e riuscì a domandarsi solo
il perché di quello stupido
soprannome: giocava con le bambole? Lo prendevano in giro
perché era gay? lo
avevano beccato al Toys Center nel reparto bambine?
Gli
ci vollero un paio di secondi buoni per focalizzarsi sulla
questione importante, la più paradossale: Frankenstein in
versione mansueta che
cercava quasi di intenerirlo per portarlo dalla sua parte. Ci voleva un
certo
coraggio, Dami gliene dava atto, considerando che probabilmente aveva
reso la
sua faccia abbastanza malconcia da non poter nemmeno pensare di
mostrarla alla
sorella.
Barbi
sembrava un cucciolo passivo e spaventato.
«È
vero?» gli chiese soltanto, senza particolare interesse.
Stentava a crederlo possibile, ma il compagno di classe
annuì titubante.
«Da
un mese» rincarò Frankenstein, strappandogli un
altro, ironico
sorriso.
Gli
era difficile pensare che un ragazzino come Barbi,
dall’apparenza
innocua e cheta, un tipo tutto “casa e chiesa”,
avesse comprato delle droghe di
qualunque tipo. Se l’apparenza ingannava però,
allora la sua teoria sulla
possibile perversione che spiegasse quel soprannome femmineo prendeva
corpo.
Si
massaggiò la radice del naso con il pollice e
l’indice, prima
di decidere «Senti, ti pagherò io. Passa stasera
nel parco vicino alla
stazione, dal lato del parcheggiò
dell’Edonè e avrai quanto ti deve»
Il
naziskin s’irrigidì e si drizzò come
fulminato. Lo sguardo
vacuo si era ad un tratto illuminato di consapevolezza «Tu
sei quel fottuto
albino, quello che gira con Niko»
Non
era una domanda, la vena di rispetto e timore che aveva
permeato la sua voce era un chiaro segnale che lo conoscesse, in molti
lo
conoscevano. Nicolas era noto nell’ambiente e così
lui, che lo accompagnava
ovunque ed era il suo protetto, lo era di rimando. Inoltre il suo
bizzarro
aspetto non gli permetteva di passare inosservato.
Abbassò
le spalle «Sono io»
Voleva
solo sussurrarlo, ma la vergogna gli grattò la gola in un
ringhio ostile.
Frankenstein
si pulì con la manica il sangue che si stava seccando
sulla barba e le labbra e annuì cauto «Se non ci
sarai stasera, verrò a
cercarlo ancora. E troverò anche te»
***
L’asfalto
era ancora umido di pioggia ma Barbi era rimasto
accasciato a terra, anche dopo che il suo aguzzino se ne era ormai
andato. Gli
tremavano le mani, era troppo agitato perché Demian potesse
lasciarlo solo in
quello stato così, senza dirgli una parola, lo aveva aiutato
a rialzarsi, aveva
raccolto i suoi occhiali e alla bell’e meglio li aveva puliti
nella sua felpa
prima di renderglieli.
Barbi
si era trascinato fino al muro del retro della scuola e lì
si era seduto. Quasi rannicchiato, colto da brevi spasmi.
Pur
non volendo, Demian si era seduto accanto a lui, in silenzio.
Con
il passare dei minuti il compagno di classe sembrava essersi
calmato, ma non parlava e restava con le ginocchia tra le braccia, come
un
bambino spaurito, e Dem proprio non sapeva che fare. Non era mai stata
la
persona giusta per dare conforto, non lo aveva mai realmente ricevuto,
lo aveva
sempre rifiutato e quindi, per assurdo che fosse, non era
all’altezza di
confortare a sua volta.
E
allora si mordeva l’interno della guancia e con ostentata
indifferenza studiava quel piccolo secchione mingherlino mangiato dai
vestiti
troppo larghi, un chiodo dai capelli neri, corti, e l’aria da
bambino sperso,
con il naso dalla linea morbida e gli occhi chiusi.
Come
era possibile che un’esistenza dall’apparenza tanto
fragile
avesse deciso di appoggiarsi ad un ragazzo pericoloso e
dall’aria evidentemente
poco raccomandabile?
Dove
lo aveva trovato il coraggio Dem proprio non se lo spiegava.
Anche avesse voluto drogarsi, non si spiegava come fosse entrato in
contatto
con quel decerebrato poco di buono.
Chinò
il capo, oppresso dalla malinconia di un pensiero che non
voleva prendere consistenza perché sarebbe stato troppo
svilente, eppure che
gli piacesse ammetterlo con se stesso o meno la verità non
mutava: lui stesso
non era diverso, non aveva nulla di raccomandabile, non era migliore di
Frankenstein, persino quell’energumeno senza cervello aveva
esitato quando
aveva capito chi fosse.
Nella
catena alimentare di quel sistema, Demian sapeva di essere
persino peggiore e se ne vergognava al punto di non sopportarsi.
«Grazie»
La
voce di Barbi era labile e consumata, leggera di un sussurro
stentato.
Demian
seguì il profilo del suo corpo in tralice, per leggervi
anche solo un segnale che gli facesse capire cosa avrebbe dovuto fare o
dire,
ma il compagno restava rigido. Ne dedusse che doveva essere ancora
molto scosso
e perciò si sforzò di abbozzare un sorriso di
circostanza.
Non
sapeva come muoversi, era consapevole di essere lui stesso,
per quel ragazzo, una presenza minacciosa, e questa realtà
lo rendeva imbarazzato
e reticente.
«Te
lo dovevo» borbottò altrettanto piano, stringendo
e tirando la
manica della felpa per coprirsi le dita pallide, la pelle arrossata e
spaccata
sulle nocche.
Barbi
aveva corrugato la fronte e finalmente si era voltato per
guardarlo negli occhi, non con timore, solo con una muta domanda.
«Sai,
la matita» spiegò arricciando le bocca
nell’angolo destro «Prima
non stavo scherzando»
L’espressione
di Barbi si distese lentamente, lasciando spazio
alle labbra socchiuse in un cerchio di perfetta sorpresa «Per
una cosa così
sciocca? Non è un gran debito» lo
apostrofò.
Demian
s’incupì, risentito a causa di quella leggerezza
che
sminuiva uno dei pochi gesti che aveva apprezzato davvero «Lo
è per me. Mi
serviva» disse lapidario.
Al
suo sguardo gelido seguì un breve attimo di silenzio, come
ponderato. Poi, con sua sorpresa, la postura di Barbi si
rilassò e il ragazzo
iniziò a ridere, quasi istericamente, come una liberazione.
«Non
ci credo, non è possibile. Dicevano che sei un mostro,
quando
quegli stronzi mi hanno costretto a sedermi accanto a te ho temuto di
dovermela
vedere con un altro bullo… ero terrorizzato! E
invece…» continuò a ridacchiare
e si asciugò una lacrima di divertimento e tensione
rilasciata «E invece tu sai
pensare solo ad una matita!» concluse, riversando nel riso
che stemperava tutto
il suo sollievo.
Demian
accennò un sorriso mite scrollando le spalle «Beh,
senza
avrei dovuto segnare il libro. Non sopporto di rovinare i miei
libri»
Il
compagno di classe lo ponderò senza esprimersi tanto a lungo
che Dem iniziò a provare disagio. Non era abituato ad essere
studiato in quel
modo, come se nemmeno si vedesse il colore delle sue iridi o la sua
apparenza.
Si sentiva scrutato fin nelle ossa e si ritrovò quasi
costretto, per sua
personale umiliazione, a deviare lo sguardo.
Alla
fine Barbi gli porse la mano, il volto contratto in
un’espressione
seria e solenne, e Demian non capiva e non ne era sicuro, ma
afferrò comunque
quella mano da artista come lo era lui stesso, che qualcosa in comune
lo
avevano, non erano troppo diversi.
«Mi
chiamo Diodoro Barbadico» disse tutto d’un fiato e
le orecchie
gli divennero assurdamente rosse «Grazie mille per il tuo
aiuto, senza di te
sarei stato nei guai sul serio»
Diodoro Barbadico,
lo ripetè mentalmente, per esserne sicuro.
Almeno ora capiva l’origine di quello stupido soprannome.
«Quando
ho sentito che ti chiamavi Barbi, ho pensato fossi un
pervertito dei giochi per bambine» commentò
involontariamente ad alta voce,
dando suono a quell’immagine per lui buffa del ragazzino
fanatico conciato da
Sailor Moon. Nel complesso trovava quel nome altisonante e terribile,
una
punizione crudele di genitori spietati.
Diodoro
arrossì e fece una smorfia «No, mi prendono solo
in giro.
Sai non sono esattamente virile. E i miei con i nomi sono un disastro.
A me
ovviamente è andata peggio che alle mie sorelle»
A
sentire la parola “sorella”, Demian
sussultò.
«Com’è
la mia faccia?» quasi lo aggredì, cambiando
all’improvviso
atteggiamento e tono di voce, tanto che Diodoro incespicò un
momento, vittima
della sorpresa, prima di riuscire a raccogliere le parole.
«Direi
viola» valutò piano, osservandolo con aria critica.
E
Demian desiderò sprofondare piuttosto che accettarlo
«Molto?»
Ancora
silenzio e Barbi che si mordeva le labbra prima di annuire
«Sufficientemente
per capire che ti sei beccato un bel pugno in faccia»
Dem
si stropicciò il volto con la mano in un gesto di stanchezza
prima di sollevare gli occhi al cielo e liberare l’ennesimo,
pesante sospiro.
Si lasciò scivolare scompostamente contro il muro in un moto
di sconforto. Non
sapeva cosa fare, di certo era consapevole di non potersi presentare
alla sua
bestiolina con il viso devastato, sorriderle e dirle ancora
“tranquilla amore,
sono solo caduto e mi sono beccato uno spigolo infido in piena
faccia”. Sua
sorella non era una sciocca e tantomeno una sprovveduta, non gli
avrebbe
creduto e lui non voleva spiegarle nulla, voleva tenerla fuori da certi
aspetti
della sua esistenza, da certe sue tendenze che la bambina ignorava.
Si
alzò per guardare il proprio riflesso, appena accennato,
nella
finestra di un’aula del piano terra. Il vetro smerigliato gli
rimandava
un’immagine poco definita, ma abbastanza nitida per
identificare la grande
macchia violacea che occupava parte del suo viso. La sfiorò
con le dita e
riconobbe al tatto il profilo in una lacerazione poco profonda ma
comunque
sanguigna.
Una
ferita banale che non gli era però possibile nascondere in
alcun modo.
«Maledizione»
imprecò tra i denti, tastandosi piano la guancia per
non farsi male. Contemporaneamente recuperò il cellulare
dalla tasca della
felpa e iniziò a digitare un messaggio veloce per avvisare
sua zia della buca
che avrebbe dato a Sarah.
La
collera che provava nel dover dare alla sua petite peste
un’altra delusione la stava sfogando con fin troppa foga sui
tasti del
cellulare, e il suo cipiglio doveva essere davvero terribile
perché Diodoro,
rimasto in silenzio durante tutte le sue manovre, domandò
cauto «Tutto bene?»
Demian
lo incenerì con tutta la collera e l’astio che i
suoi occhi
obliqui dal taglio affilato potevano trasmettere. Era indisposto al
punto che,
per quel livido, avrebbe preso a calci anche la Barbi se non si fosse
tolto
rapidamente dai piedi.
«A
te cosa cazzo sembra?» ringhiò in un impeto
d’irritazione «Dimmi
quanto devi a quel fottuto stronzo e facciamola finita»
rimise il cellulare in
tasca e continuò a osservarlo con ostentata rabbia
dall’alto in basso, tanto
che Barbi la sua risposta la mormorò appena, intimidito.
«Non sei costretto
a fare
quello che hai detto» aggiunse poi, sempre a voce sussurrata,
ma Dem si limitò
ad alzare di nuovo gli occhi al cielo «Se non lo faccio
quello ti pesta per
davvero. E comunque non è un regalo, è un
anticipo. Almeno a me potrai ridarli
con calma. Ma domani mi dovrai dare parecchie spiegazioni che ora,
sinceramente, non me ne frega un cazzo di sentire» si
caricò lo zaino in spalla
e si avviò al proprio motorino.
«Tutto
qui?» gli urlò dietro Diodoro.
Ma
Demian scrollò ancora solo le spalle e non gli rispose.
ANGOLO
AUTRICE
Oggi
è una giornata un po’ insolita e quindi non sono
in grado di
trovare parole.
Non
mi succede spesso, ma quando non ho voglia di fare nulla non
faccio proprio nulla, ed infatti non ho ancora incontrato un essere
vivente che
non sia Eldry (il mio cane), né ho comunicato con
alcunché. Per tirare le
somme, questo è il mio primo contatto con il mondo oggi, e
non so che dire,
tantomeno sul capitolo.
È
solo una metà, tra l’altro.
Credo
che tornerò a fissare il soffitto, la verità
è che mi è
stata fatta una proposta insolita che non so se accettare, ma stimo
molto il
lavoro della persona che me lo ha chiesto e per questo sono in dubbio.
E quando
sono in dubbio, vegeto in attesa che lo spirito santo o chi per lui mi
dia in
mano il senso della vita.
Evviva!
Sarebbe
bello se aveste voi qualcosa da dire a me, perciò chiedo
un favore ai nuovi lettori silenziosi, sarebbe un vero onore sentire
anche le
vostre voci, e comunque grazie di esserci, una storia ha valore solo in
relazione a chi la segue.
Nell’apatia
generale mi ritirerò, a presto!