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Autore: Winchester_Morgenstern    10/01/2017    0 recensioni
[Shadowhunters - City of Marble's sequel]
— Hai così tanto sangue innocente sulle tue mani, che mi chiedo perché non sei in catene con una sentenza di morte. —
Genere: Dark, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Izzy Lightwood, Magnus Bane, Nuovo personaggio
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest
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III.
SCRIVERE IL FUTURO
Si era già fatto buio quando la marmaglia di gente che era sciamata come delle api sul miele all’Istituto di New York incominciò a diradarsi. 
Fuori da una delle alte finestre, Isabelle riusciva a scorgere il familiare skyline di Manhattan: era cresciuta con il naso rivolto verso l’alto, verso i grattacieli, tanto quanto alcuni degli altri Nephilim avevano alzato lo sguardo solo per tentare di vedere la cima di una statua di Raziel.
Lei, alla fine, sull’Empire State Building c’era stata, ma loro non avevano certo avuto il privilegio di un posto in prima fila sul capo dell’Angelo.
E quelli che l’avevano visto, erano stati arsi vivi o spazzati via.
Che caritatevole.
— Ian — chiamò, ben sapendo che nella biblioteca c’erano solo loro due: — Lo so che non volevi presenziare, ma devi andare ad avvertire Magnus di quello che è successo. Probabilmente chiederanno anche il suo consiglio, considerando che è accaduto tanto vicino. — spiegò, porgendogli alcuni dei fogli che un rappresentante del Consiglio le aveva lasciato.
Erano solo stupidi protocolli di emergenza - e con tutte quelle che c’erano state ormai le conosceva a memoria -, ma era tenuta a distribuirli, e considerando quanto agitate erano le acque tra la Grande Mela ed Alicante forse era meglio non provocarli più del necessario.
— Ci andrei io, ma devo finire di compilare questi. Dopo quello che è successo con Jocelyn… — Non terminò la frase, limitandosi a passarsi le mani fra i lunghi capelli lisci.
Non c’era un vero e proprio collegamento tra i fatti, se non un labile ponte logico, ma dal momento che la madre di Clary era formalmente il capo dell’Istituto e la supervisione di tutte le attività era una sua responsabilità, anche la sparizione del piccolo Octavian Blackthorn rientrava nella sua lista di colpe.
E tutti sapevano che Idris aspettava soltanto un loro passo falso per privarli di qualsivoglia potere decisionale. Nel migliore dei casi, avrebbero soltanto tolto  a Jocelyn la sua carica. Nel peggiore, avrebbero anche mandato un sostituto da una delle altre sedi, al posto di permettere a chiunque raggiungesse specifici requisiti di fare richiesta per il posto. 
–– Non ti preoccupare, vado e torno in un lampo. L’ultima cosa che voglio è trattenermi. — borbottò l’ibrido, uscendo in fretta dalla stanza. 
La pesante porta a due battenti si richiuse con un tonfo sordo alle sue spalle, più silenziosamente di quanto la Shadowhunter si aspettasse. Quando l’avevano riparata? 
Passò la successiva mezzora a rigirarsi la stilografica fra le mani, in silenzio, e più che cercare di dare un senso al delirio nella sua testa tentava di dimenticarlo, ma senza grandi risultati. 
C’era un chiodo fisso metaforicamente piantato nel suo cranio, e per quanto era grande trovava difficile ignorarlo.
Come poteva? Doveva prendere una decisione, e doveva farlo il più presto possibile.
Lasciò cadere la penna, che rotolò fino ad andare a sbattere contro una tazza sbeccata ricolma di matite e pastelli, molti dei quali senza punta, segno dell’uso di Ian.
Esitante, si portò una mano alla pancia, cercando di realizzare il fatto che sì, c’erano davvero altre due vite lì dentro. Due vite che, al momento, dipendevano unicamente da lei. 
Aveva già esaminato troppe volte, sin da quel mattino, tutte le sue paure più recondite, ed erano sempre le stesse: il passato da cui ancora non si sentiva pronta a distaccarsi, l’aver fatto il passo più lungo della gamba, l’incapacità di assumersi una tale responsabilità, il dimostrarsi essere esattamente come i suoi genitori. Come poteva pretendere di essere una buona madre, se la sua a stento l’aveva vista per qualche mese all’anno, impegnata com’era con i suoi impegni lavorativi, e quando finalmente si erano riunite… le cose non erano finite tanto bene.
Non sapeva nemmeno da che parte cominciare, che diavolo!
Cosa ci si poteva aspettare da una che si era dimenticata un dannatissimo preservativo?!
Sospirò e scosse il capo. Perché era così difficile, per lei?
Aveva avuto un fratellino di cui prendersi cura e altri due più grandi che l’avevano fatta sentire sempre a casa, eppure Jonathan, quello con l’infanzia disastrata e la sensibilità di un pachiderma, aveva accettato con molta più grazia la presenza di Ian e stava facendo anche un discreto lavoro, nell’occuparsi di lui.
Sapeva che il problema non era il suo ragazzo, e a dire il vero sapeva anche che, alla fine, non c’era una vera e propria scelta.
Se avesse voluto, avrebbe potuto mettere la parola fine a quei bambini. Ma era davvero disposta a farlo? Non si trattava del crederlo un omicidio o meno, in quel momento cos’erano, mere cellule?
No, i punti erano ben altri.
Con quale coraggio avrebbe detto a Jonathan di voler abortire? E anche se ce l’avesse fatta, perché in fin dei conti se davvero non li avesse voluti l’ultima scelta sarebbe spettata a lei e di certo il suo primo problema non era comunicarlo a lui, no… Ma con quale coraggio avrebbe detto ad Ian di aver appena cancellato il suo futuro, che i gemelli che conosceva non avrebbero mai visto la luce?
E soprattutto, voleva davvero distruggere l’unica chance che le era rimasta di avere una famiglia? Che cos’altro avrebbe potuto fare, se non quello? 
Isabelle non si era mai ritenuta una stupida e, al di là del fatto che volente o nolente sarebbe stato quantomeno improbabile riuscire a trovare qualcun altro con cui avere una relazione, almeno di quei tempi, voleva davvero continuare a scappare ogni volta che le si presentavano davanti delle difficoltà? Voleva davvero dire ad Ian che non era più sua madre?
Poi ancora, desiderava davvero auto-ingannarsi e preferiva credere che il tumulto nel suo stomaco ogni qual volta vedeva Jonathan fosse solo agitazione che non aveva senso di esistere?
Quello che provava non aveva nessun senso, né probabilmente lo avrebbe mai avuto, ma non poteva cancellare il rossore sulle sue guance ogni volta che i loro occhi si incrociavano e, si rese conto, non voleva vivere con il rimpianto… con tutti quei rimpianti, in realtà, quelle cose non dette e non fatte o sbagliate proprio perché compiute.
Due mani familiari e callose le si poggiarono sulle spalle, facendola sussultare. Perfino mettendo in conto la silenziosità di Jonathan, erano poche le volte in cui non riusciva ad accorgersi del suo arrivo, e questa era evidentemente stata una di quelle.
— Già pensando di fare le scarpe a Jocelyn? — si sentì chiedere, mentre il ragazzo spostava con poca cura i libri che si trovavano sul lato destro della scrivania e ci si sedeva sopra.
Isabelle sgranò gli occhi: — Cosa? — chiese, confusa.
Lui le indicò alcuni dei moduli tenuti in ordine da un fermacarte di bronzo: — Sono richieste per la direzione dell’Istituto, no?
— In realtà avrei dovuto distribuirle nel caso in cui qualcuno fosse stato interessato, ma… — La Cacciatrice si bloccò: — Sai che non hai avuto una brutta idea? 
Da un lato, quello non faceva altro che aggiungere altre preoccupazioni al suo cumulo già grande, portando solo lavoro extra. Ma dall’altro, non soltanto sarebbe potuto servire a farle accettare che no, dal mondo degli adulti non ci si poteva sottrarre, ma era anche un buon progetto.
Insomma, sì, era incinta. E aveva un ragazzo fisso, ed erano mesi che non ballava sotto delle vere luci da discoteca.
Quello, però, non voleva dire che aveva in qualche modo deciso di mettere tutti i sogni di gloria e libertà in un cassetto e passare il fior fiore dei suoi anni a badare ai bambini e imparare ricette. Chiunque lo credeva, era un pazzo da internare. 
E poi, per quanto il Consiglio fosse contro di loro, suo padre era il Console. Dopo tutto quello che aveva combinato, qualcosa di positivo gliela doveva, no?
— Io non ho mai brutte idee.
Isabelle inarcò un sopracciglio e gli rivolse lo sguardo più scettico che le riuscisse, poi si alzò in piedi e lo prese per mano, salendo in fretta la scala che conduceva al piano superiore della biblioteca, ricolmo di scaffali straboccanti di libri e qualche divanetto occasionale verde bottiglia, lì da meno di un anno. Era allo stesso tempo assurdo e fantastico che qualcuno avesse anche trovato il tempo di darsi all’interior design, in quel tran tran.
Guidò Jonathan verso uno dei sofà e si sedette accanto a lui, scalciando via gli stiletti che ancora indossava dalla festa e stiracchiandosi appena nel vestito attillato. 
Non aveva ancora avuto modo di cambiarsi, e tutto quello che desiderava al momento era liberarsi di ogni costrizione, farsi un bel bagno rilassante e andare a letto. Possibilmente nuda e con sulla sua pelle soltanto le lenzuola ed il corpo dello Shadowhunter accanto a lei. Forse una doccia sarebbe stata più indicata, considerato quanto era stanca.
Comunque, si strinse maggiormente a Jonathan e si chiese se ci potesse essere momento migliore per comunicargli… be’, tutto.
Conoscendosi, era uno di quegli attimi da adesso o mai più.
— Jon — incominciò, sbadigliando e catturando l’attenzione dell’altro. C’erano volte in cui stavano semplicemente in silenzio, quando non erano impegnati a rotolarsi fra le lenzuola, stare dietro ad Ian o ad una delle missioni di turno, e non era imbarazzante. Anzi, era rilassante. 
— Mh? — si sentì rispondere, mentre dita straordinariamente leggere incominciavano a giocare con una ciocca dei suoi capelli, arricciandola.
Ecco, io davvero non so da dove cominciare. Cioè, non ne sono ancora del tutto sicura, ma le probabilità sono di cento a uno, e Ian ha confermato, e non ho ancora fatto un test, e non ti so dire quando è successo esattamente, ma… 
— Sono incinta — disse infine, con tono un po’ più alto di quanto avesse voluto. Oh be’.
Per qualcosa che assomigliava più ad un minuto che ad un secondo, tutto fu silente.
Isabelle non riusciva a formulare nessun pensiero coerente, più che altro sentiva le viscere corrodersi per l’ansia e la paura di averglielo detto troppo presto, troppo in fretta, di averglielo detto e basta.
— Incinta — ripeté poi lentamente l’albino, come a voler assaporare le lettere sul palmo della lingua.
— Sì.
— Come, nel senso medico del termine.
— Perché, ne conosci altri? — Non poté impedirsi di domandare lei, sardonicamente.
— Con un bambino nella pancia.
A quel punto la ragazza non sapeva se ridere o piangere: — Regina e Christopher — disse infine, sperando che capisse. Doveva farlo. Insomma, lui era quello intelligente, con quella rivelazione non poteva avergli bruciato l’ultimo neurone che gli era rimasto.
— Cosa? — domandò comunque lui, confuso.
— Con Regina e Christopher nella pancia. — ripeté pazientemente lei, prendendogli il mento tra le mani per potergli voltare il viso e guardarlo negli occhi.
Sembravano senza fondo.
— Regina e Christopher — cantilenò obbedientemente lui, ottenendo così di recitare per la terza volta i loro nomi.
Ad un certo punto si riscosse e si mise a sedere più dritto, la fronte lievemente aggrottata. La osservò, come cercando di cogliere dei segni evidenti sebbene a quel punto non potesse vedersi niente. 
— E tu hai preso una decisione — aggiunse quindi, stropicciandosi gli occhi. Isabelle aveva notato che lo faceva spesso, specie quando ragionava su qualcosa di particolarmente complesso.
— Che intendi? — chiese quindi, suo malgrado.
— Con questo non voglio dire che tu sia egoista o meno, ma… Ci hai riflettuto sopra, no? Ti conosco, almeno un po’, di tempo insieme ne abbiamo passato abbastanza. Non me ne avresti nemmeno parlato, se non fossi stata in qualche modo orientata verso il tenerli.
Wow. Forse erano passati dalla sfera emotiva di un cucchiaino a quella di un bollitore. E non era ironica, anzi. Intendeva essere un complimento.
— Hai pensato che potessi fare altro? — lo interrogò, per poi sospirare: — Lo so che… che ultimamente è stato un po’ una merda, e soprattutto per colpa mia. Certo, ho delle attenuanti, ma il succo resta quello. — Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e poi li riaprì: — E non posso far finta di non provare qualcosa per te, Morgenstern. Proprio non posso più. E se fuggissi adesso… Me ne pentirei per sempre. Non posso giocare a fare la bambina in eterno, e lo so che questi sono tutti bei discorsi e servono i fatti, però… Non voglio solo provarci. Non più. Sono sicura. — disse, e mentre lo faceva si rendeva conto di pensarlo davvero.
Gli sorrise, più tranquilla di quanto fosse da parecchio tempo, e lo baciò.
Aveva imparato a riconoscere il sapore di quelle labbra, il modo in cui le loro lingue si scontravano non in una danza, ma in una lotta alla supremazia. Delizioso in un modo tutto particolare, tutto loro.
— Almeno adesso dimenticare il preservativo non può fare troppi danni, considerando che la frittata l’abbiamo già fatta. — soffiò Jonathan ad un battito di ciglia dal suo volto.
Isabelle scoppiò a ridere e si stese su di lui, riprendendo a baciarlo. 







La pioggia scrosciava incessantemente da qualche minuto quando Ian finalmente arrivò al citofono del palazzo di Magnus, riparandosi sotto la stretta grondaia.
L’acqua aveva incominciato a venire giù da un momento all’altro, senza nemmeno qualche nuvolone scuro a farla presagire, e adesso l’ibrido era zuppo fin dentro le ossa. 
Prese un profondo respiro e si guardò un’ultima volta intorno, chiedendosi se lasciare un telegramma o un post-it o qualunque altra cosa non fosse più indicato. Peccato che non avesse una penna. 
— Ehm — mormorò, quando una voce sconosciuta rispose al citofono dello Stregone: — Sono Jean. 
— Jean chi?
— Arsch. Il festeggiato. 
Il portone si aprì senza l’aggiunta di nessun altra parola, e il ragazzo si rifugiò in fretta all’interno, tentando di scrollarsi qualche goccia di dosso.
Paradossalmente, fece i gradini a due a due, come credendo che se fosse riuscito ad arrivare in fretta dal Nascosto avrebbe potuto fuggire da lui altrettanto in fretta. 
Sfortunatamente, sulla soglia di casa c’era Magnus Bane in persona, avvolto in un luccicante kimono dello stesso colore dell’invito che Alec gli aveva recapitato: — Jean! Finalmente ti sei degnato di mostrarti alla tua stessa festa! Vieni dentro! — esclamò, e uno schiocco di dita dopo Ian era del tutto asciutto.
— Sai, per non rovinare i tappeti persiani.
L’interno del loft era un’accozzaglia di stili stranamente gradevoli: come preannunciato, grandi tappeti ricoprivano il pavimento, e tendaggi più o meno leggeri avevano la stessa funzione sulle pareti, creando dei piccoli cunicoli entro i quali l’ibrido riusciva a scorgere poltroncine di modeste dimensioni.
Il centro dell’appartamento era stato lasciato vuoto e usato come pista da ballo, con di fronte un lungo bancone da bar e camerieri… be’, diciamo solo che erano intenti ad interpretare alcuni nudi piuttosto famosi, mentre uno strano fumo violastro - come quasi tutto lì dentro - permeava l’ambiente.
Ian non aveva idea di cosa si trattasse nello specifico, ma era certo che fosse opera della magia e che, per di più, fosse anche piuttosto potente, visto che aveva già iniziato a dargli alla testa.
— Quello è un David? Pensavo avessi gusti migliori — osservò, lasciandosi trascinare verso i drink: — E come mai se sono solo le nove tutti barcollano come ubriac… Ah. Il fumo. Sì.
Si appoggiò all’amico, raddrizzandosi e cercando di ritrovare un contegno: — Comunque — incominciò, strascicando la o all’inverosimile: — Non posso restare qui. Devo darti dei fogli. Del Clave. Hanno rapito Octavian alla festa di Ian. 
Magnus si fece improvvisamente serio: — Octavian?
— Blackthorn.
— E c’è una spiegazione logica secondo la quale il rapitore è riuscito a farlo in una stanza piena di Shadowhunter fino al soffitto, con dentro due o tre pericolosi killer?
— Vuoi la versione ufficiale o la versione ufficiosa? — si ritrovò a chiedere, suo malgrado, Ian.
Non si sentiva particolarmente in colpa per quello che aveva fatto. O meglio, per quello che non aveva fatto. Stava solo lasciando il tempo fare il suo corso.
— Entrambe. 
Il ventiquattrenne strizzò gli occhi, cercando di combattere contro la nebbia che gli stava annebbiando il cervello, ma senza troppi risultati.
— Quella ufficiale conta sul fatto che nessuno ha visto nulla, senza sapere se qualcuno sia riuscito ad introdursi dentro o abbia attirato il bambino fuori. Quella ufficiosa… — Ian si avvicinò maggiormente a Magnus, arrivando a sussurrargli nell’orecchio: — Ho distratto Jace e Jonathan proprio nel momento in cui l’ibrido arrivava. È riuscito ad entrare perché A, non c’era niente nel suo sangue che glielo impedisse e B, l’ultimo arrivato alla festa, la spia tra i Nephilim, ha lasciato il portone socchiuso. Mi sono assicurato che nessuno se ne accorgesse, e dopo che l’ibrido aveva preso Octavian, l’infiltrato ha piazzato le carte. Pulito e veloce. — Fece una pausa, mordendosi le labbra: — In realtà, è stato più difficile scoprire come volessero mettere in atto il rapimento. Ci ho messo secoli a capire chi fosse la spia, e a farla parlare senza che ricordasse qualcosa.
L’immortale sventolò una mano, attirando l’attenzione di uno dei bronzi di Riace ed ordinando un drink. Un Alexander. Ovviamente.
Ian si chiese se con esso gli avrebbero servito anche Alec e, a quanto pareva, Magnus parve quasi leggergli nel pensiero, perché gli rispose con qualcosa di molto attinente: — Questa storia non mi piace. Non se sono coinvolti i bambini. — incominciò, per poi aggiungere: — Alec è dovuto andare via. Alcuni Eidolon sono misteriosamente comparsi nel cuore di Manhattan, e l’hanno spedito a verificare. Anche in questo caso, c’è una versione ufficiosa: ovvero, smettila di comportarti da perfetto Cacciatore e lasciati andare. 
Il ragazzo lo fissò per qualche secondo, perplesso: — Cosa? 
Sorseggiando dal suo bicchiere da cocktail, Magnus inarcò un sopracciglio ricoperto di brillantini: — Andiamo, Ian. Da come ci cammini, sembra che prima di ultimamente tu non fossi mai stato in un Istituto. Hai un sacco di cicatrici a causa di vecchie rune, e molte delle quali non saprei riconoscerle, cosa ovviamente assurda, mentre le nuove sono solo quelle strettamente indispensabili. Non ti marchiavi da un po’, o comunque sia farlo ti dà fastidio, e sembra quasi che tu rimanga spiazzato ogni dieci minuti, in mezzo ai Nephilim. Da quant’era che non interagivi con loro?
Il finto moro si guardò intorno, sperando che nessuno li stesse ascoltando. Spiattellare in mezzo a tutte quelle persone i suoi più reconditi segreti non era una grande idea.
— Non è che non ero in contatto con loro, io… ero abituato ad un altro tipo. Uno molto div… — si bloccò improvvisamente.
Ad una parte di lui sembrò che, dal nulla, una grossa mano avesse incominciato a strangolarlo. All’altra, apparve invece che finalmente avesse ripreso a respirare.
Era perfettamente conscio di ciò che doveva fare: scusarsi e scappare via il più lontano possibile, anche solo per qualche ora, mettere abbastanza distanza tra loro da non poter correre verso di lui e aggrapparglisi addosso così forte da non poter essere più staccato. 
Magnus trattenne un sibilo quando il suo bicchiere crepitò, mandò qualche scintilla e poi gli si frantumò tra le mani, facendolo scattare indietro.
Era già pronto a esiliare perpetuamente dalla sua casa chiunque gli avesse fatto quello scherzo di cattivo gusto, per poi lasciar cadere lo sguardo su Ian e il modo in cui dalle sue dita si sprigionavano piccole fiammelle viola, arricciandosi in sottili spirali.
Oltrepassò cautamente i vetri rotti e lo affiancò: — Non credevo che una persona con la tua carnagione potesse essere più chiara che al naturale, ma evidentemente puoi sbiancare anche tu. Lo so che è sfiancante, ma eviteresti di svenirmi sul pavimento? Vorrei risparmiarti un trauma cranico. — consigliò, e non venne minimamente ascoltato. 
Alla fine, irritato, seguì gli occhi di Ian fino alla persona che stava osservando. E poi la riportò sull’ibrido, e così via ancora e ancora.
— Starai scherzando — rantolò poi, fissando ostinatamente la punta delle sue scarpe rosso rubino. Erano poche le cose che riuscivano a far abbassare lo sguardo a Magnus Bane, ma Ian ci era riuscito. Eccome.
Si passò le mani sulla faccia, scacciando via un po’ di fumo: — No, cioè, sul serio. Mi stai prendendo in giro! Okay, non lo stai facendo. Lilith, questo è assurdo. Aiuto. Va bene. Ho capito. Che devo fare?!
— Potresti stare zitto, tanto per cominciare — borbottò l’ibrido tra i denti.
— Zitto? Zitto! Così finisci di consumarlo con gli occhi, sì, certo. Che ne dici di uscire fuori? — propose, ma a giudicare dal ringhio più animalesco che umano che gli arrivò in risposta non era esattamente una buona idea.
Ponderò di mandarlo temporaneamente a nanna e di rispedirlo in stile pacco postale all’Istituto, ma poi probabilmente non gli avrebbe parlato fino alla fine dei tempi. 
— Un appuntamento al buio!
— Cosa? — Ian si voltò, curioso: — Che intendi?
— Che è ovviamente più ubriaco di un alcolista in un negozio di vodka, al momento, quindi tu puoi parlarci e lui non si ricorderà niente. Semplice ed efficace. — spiegò innocentemente lo Stregone. 








A svegliare Ian fu l’ennesimo trillo insistente del cellulare, che gli stava perforando così tanto la testa da fargli credere che qualcuno si stesse divertendo a torturarlo con un trapano.
Sbatté le palpebre, coprendosi il volto con una mano a causa della luminosità dello smartphone troppo alta.
La abbassò in fretta e controllò le notifiche, confuso.
Quattro chiamate perse da Jonathan.
Due chiamate perse da
Isabelle
Un messaggio da Magnus
Jonathan? L’aveva contattato? Non era nemmeno sicuro che ce l’avesse, il suo numero. Non che fossero in cattivi rapporti, ma ogni volta che dovevano avere una conversazione da soli sembravano due elefanti in una cristalleria.
Sbadigliò, pasticciando col touch-screen fino a quando non riuscì ad inserire correttamente il codice. Dire che ci vedeva poco era parlare per eufemismi. Comunque fosse, controllò per primo l’sms.  
Ti conviene svignartela, se non vuoi che ricordi qualcosa. 
Di che diavolo stava parlando? Chi non doveva ricordare cosa? 
Si rese conto che c’era qualcosa che non andava soltanto quando il suo cuscino lo schiaffeggiò.
No, meglio, un braccio gli piovve sulla faccia a peso morto.
Si scansò in fretta e furia, piombando giù dal materasso, mentre l’altro occupante si rannicchiava meglio nelle lenzuola. 
Mentre raccattava in modo automatico i suoi vestiti ed iniziava ad infilarseli, lampi della notte precedente incominciarono a manifestarsi nella sua memoria, in quel momento paragonabile ad un posto molto vuoto e molto annebbiato. 
Una mano leggera gli stava accarezzando il volto.
Prima le tempie, poi gli zigomi, la mascella, riusciva a sentire lo sfarfallio che scendeva lungo il collo ed il pomo d’Adamo, facendo inarcare tutto il suo corpo contro quello dell’altro uomo.
Sussultò quando una lingua calda ed umida gli avvolse un capezzolo, iniziando a succhiare.
Mancavano almeno dodici anni all’inizio della loro effettiva relazione, eppure senza nemmeno saperlo
lui riusciva sempre a toccare sempre tutte le corde giuste. 
Ian serrò le dita fra i suoi capelli, tirando appena, gemendo con la bocca chiusa fin quando non gli fu impossibile trattenersi, inspirando ed espirando pesantemente l’aria. 
Arrabbiato, questa era l’unica parola che riusciva a trovare per descrivere come si sentiva al momento.
Niente era andato storto, durante quella notte fumosa, assolutamente nulla, eppure non riusciva a fare a meno di pensare che in quel modo aveva appena finito di tradire suo marito. Cosa assurda, perché lui in persona stava in quel momento beatamente dormendo in una coltre di lenzuola scivolose. E allo stesso tempo, era un qualcosa che gli era mancato così tanto che, adesso che l’aveva riprovato, si chiedeva come sarebbe riuscito a farne a meno per tutto il resto del tempo che avrebbe passato lì.
Era come offrire droga a qualcuno che si stava disintossicando: il dolore passava, ma soltanto momentaneamente. E poi… poi ritornava alla carica, sembrando anche più forte di prima. 
S’infilò la camicia scura nei pantaloni e si allacciò la cintura più in fretta di quanto effettivamente volesse, e non del tutto certo di aver fatto un lavoro decente: per quel che ne sapeva, poteva aver indossato tutto al rovescio, perché non ci stava prestando la benché minima attenzione. No, tutto quello che riusciva a vedere era il corpo addormentato a meno di due metri da lui. 
Si abbassò per recuperare gli stivali da sotto al letto ed imprecò sotto voce quando sbatté contro di esso, con buona pace della sua supposta grazia predatoria, almeno quando si ritrovava a condividere la stanza con quella distrazione vivente.
— Sto iniziando a pensare che tu sia una qualche specie di sadomasochista — soffiò l’uomo, artigliando il materasso ai lati del suo corpo.
— Nah — Ian ansimò, strusciando il volto contro il ventre piatto dell’altro, leccandone con decisione le ossa del bacino: — Sono soltanto un grande fan dei preliminari.
Non era vero. Volendo essere del tutto onesti, detestava i preliminari come poche altre cose al mondo, ma era necessario. Non che stesse pensando molto, però sapeva benissimo che quella sarebbe stata la sua prima e ultima volta con lui, e visto che non ci pensava nemmeno ad andare a letto con qualcun altro, voleva assaporarla fino in fondo, centimetro di pelle per centimetro di pelle, anche a costo di metterci tutta la notte.
Insomma, doveva pur avere materiale nuovo per le sue sedute in solitaria. 

Infilò le mani nei boxer dell’immortale, sorridendogli: — Non dirmi che reggi per un solo round, perché stavo pensando di farti un regalino extra. 
Era già sulla porta, ormai, scarpe alla mano - le avrebbe infilate soltanto fuori dalla stanza, non voleva fare altro rumore -, cellulare in tasca e voglia di andarsene praticamente inesistente.
Esitò ed infine mandò a ‘fanculo il destino, gli angeli o chi per loro, decidendo che aveva avuto già abbastanza sfortuna per almeno sette vite. Quindi posò gli stivali accanto all’uscita e ritornò al bordo del letto - non era nemmeno un vero e proprio letto, in realtà, quanto più un grande e spesso materasso foderato e poggiato su un grosso rialzo di legno -, piegandosi su di esso.
Quasi tremava, ma fu capace ugualmente di scostare una ciocca ribelle dal viso del suo élios, lasciargli un bacio sulla fronte e poi, piano, un altro a stampo sulle labbra.
Buona vita, amore. 







Stringendosi meglio nella giacca a vento, la ragazza rabbrividì e si affrettò a varcare l’entrata della struttura.
Come tutte le cose lì, era ben nascosta, invisibile alla quasi totalità dei più, e se pochi riuscivano ad entrare ancor meno potevano uscire. 
Quando aveva detto al suo ex-padrone che si rifiutava di compiere la missione che le aveva assegnato, si aspettava il peggio. Insperabilmente, però, nessuna ritorsione era le era ritornata indietro.
O almeno, così aveva creduto. Si era avvicinata a lui, a Melchizedeck, per motivi così futili e stupidi da farle venire voglia di piangere tutte le sue lacrime per la propria stoltezza e, anche se quella terribile imitazione di uomo adesso non c’era più, qualcun altro aveva preso il suo posto. E, cosa più importante, perfino nella morte l’ibrido era riuscito a ripagarla per il compito mai svolto. Non solo se ne era occupato lui stesso, ma aveva anche fatto di peggio: aveva spazzato via da quel mondo con pochi e abili colpi sia il bersaglio a lei assegnato e mai ucciso sia la persona che, più di tutte - anche se involontariamente - l’aveva spinta ad unirsi alla causa.
Non l’avesse mai fatto.
Adesso si trovava nella stessa posizione dei loro soldati, dei loro prigionieri: raggiungere l’élite era stato quasi impossibile, ma scappare via da essa non era più contemplabile, in nessun modo, a causa del nuovo protagonista che calcava le scene. 
Melchizedeck Junior era enormemente più giovane di suo padre, cosa che gli dava ovviamente anche maggiore inesperienza, ma non era certa di quanto quello giocasse a suo favore, considerato che ciò che gli mancava in anni lo compensava in una genialità così vasta da aver valicato da tempo i confini della follia e una vena sadica piuttosto pronunciata. Ed in ogni caso, restava sempre troppo più grande di lei, e quindi avvantaggiato.
— Il padrone la sta aspettando nell’edificio principale, signora. Sala da pranzo. — si sentì sussurrare da un ibrido, mentre passava il loro controllo. 
Poverino. Sorvegliava l’unica cosa che non avrebbe potuto mai raggiungere: la libertà. 
C’erano momenti come quello in cui si sentiva esattamente come quello stupido carceriere: ancorata a qualcosa di orribile, di cui non avrebbe mai voluto far parte.
Ma visto che era ingenuamente andata a raccogliere limoni, adesso doveva fare la limonata, e sotto quel punto di vista poteva ritenersi abbastanza soddisfatta. 
Erano mesi ormai che Melchizedeck la spediva in ricognizione nel futuro e, sebbene all’inizio si fosse limitata a fare soltanto quello, ben presto si era resa conto che non c’era nessuno a fermarla dal modificare il corso degli eventi.
Era bastata una semplice soffiata, un paio di prigionieri fatti scappare, ed improvvisamente l’unica fazione abbastanza potente da costituire per loro una minaccia era venuta a sapere delle posizioni e degli spostamenti del loro benamato comandante. E così, ovviamente, l’ultimo della stirpe era morto, per fare spazio al suo, di dominio. 
Personalmente, aborriva Ian Morgenstern: non era altro che un presuntuoso, arrogante ibrido sfuggito al loro pugno di ferro per puro miracolo, che si credeva tanto importante solo perché sua madre aveva un certo nome – solo aveva avuto. Non c’era voluto tanto a disfarsi nemmeno di lei, anni avanti. 
Tralasciando le sue opinioni su di lui, però, doveva ammettere che i suoi burattini le avevano reso un buon servizio, ed il tutto senza rendersi conto di nulla: un paio degli anarchici, di quelli che l’albino non potevano nemmeno vederlo, avevano ben pensato di seguire le sue dritte ed ammazzare Melchizedek, aspirando alla gloria più grande.
Inutile dire che erano morti subito dopo, o quasi: tutto quello che sapeva era che i gemelli Herondale erano riusciti a metterci le mani sopra. Ci avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco: gli assassini non sarebbero sopravvissuti alle successive ventiquattro ore.
Ma quelle notizie, ovviamente, non sarebbero mai arrivate alle orecchie di Melchizedeck. Sì, stava andando tutto per il meglio. 
 
   
 
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