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Autore: Nirvana_04    11/01/2017    3 recensioni
"All’inizio furono creati per servirli, e per un po’ di tempo lo avevano fatto anche bene. Poi una strana luce si accese nei loro occhi; la malvagità, simbolo della razza umana, si riversò anche sulle loro parti metalliche e iniziò a scorrere lungo i cavi e fili che li componevano. Infine scoppiò la guerra, e il mondo si spaccò ancora una volta."
Aisha e Kamul crescono insieme, ma le loro scelte e le differenze di classe li portano ad allontanarsi e a perdersi di vista.
Quando, però, il sedicesimo squadrone cade preda del nemico, il giovane non esita a correre incontro a una regione ostile e a una città, nascosta dal ghiaccio, che nasconde una strana forza racchiusa tra i suoi freddi androni. E, chissà, forse è proprio quel segreto che manca a Kamul per comprendere fino in fondo il potere dello strano pugnale che conserva gelosamente al suo fianco.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 3
Nurthìa
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’effetto altalenante la ridestò dalla sua incoscienza.
Si ritrovò con la testa penzolante all’indietro, il corpo imbrigliato nel freddo metallo e ogni parte del suo essere che pulsava di dolore. Socchiuse gli occhi, intontita, e il fiato le si mozzò in gola. I polmoni raschiarono in cerca d’aria e la sua bocca si aprì in un tremolio di paura.
Il gigante di ferro la stringeva nella sua morsa, il capo era l’unica cosa del suo corpo a essere libera di dondolare fuori dalla gabbia delle sue dita. Lampi di luce interattiva si susseguivano sulla sommità della sua figura, nelle cavità oculari che mandavano bagliori di fuoco laser: stava esaminando il terreno intorno a loro, immagazzinando dati e rielaborandoli.
Un occhio strabico si staccò dallo sfondo e ruotò verso di lei. Aisha, semincosciente, deglutì con affanno. Era inutile cercare di serrare gli occhi, i sensori termici che aveva nei polpastrelli lo avevano avvertito del suo risveglio. Provò vanamente a districarsi dalla presa, ma non aveva armi con sé – dovevano avergliele tolte – e il dolore e la sensazione di leggerezza minacciavano di ghermirla nuovamente.
Alla fine si arrese, mugugnò di sofferenza e disperata rassegnazione, chiuse gli occhi e lasciò che il dondolio e il rumore scrosciante dei pesanti passi dell’androide sulla neve riempissero la sua mente. Lentamente riacquistò lucidità. Si diede della stupida, dopodiché tornò a concentrarsi sul rumore che la circondava: quattro o cinque coppie di passi cadenzati; un gigante di ferro doveva essere proprio accanto a quello che la trasportava, altri, invece, provenivano dalle sue spalle. Dovevano essersi nascosti nella nube che Derek aveva avvistato poco prima dell’impatto; la mano del nemico si era spinta oltre l’orizzonte visibile da Solear, isolando la sua città dal resto di Gea. La sua famiglia e i suoi amici erano soli, e presto…
Spalancò gli occhi, stavolta alla ricerca dei suoi compagni. Come aveva fatto a non pensarci prima? Il dolore le aveva annebbiato la mente e impedito di ricordare la successione degli eventi con chiarezza. Ora ricordò! Vide il sangue colare dalla testa di Valter, tenuto strettamente dall’androide accanto a loro; un’altra figura incosciente pendeva dall’altro arto, ma dalla sua posizione non riusciva a riconoscerla. Si affannò a contorcersi e a piegarsi più che poté, anelante di sapere le sorti che erano toccate a Falco12. Desolata, cominciò ad annaspare.
Dio, fa che non l’abbiano preso! Pensò in preda al panico.
Le scosse di movimento continuarono per tutto il tragitto. Le creature non si curavano di loro né li reputavano minacciosi, perché non si presero la briga di osteggiare i loro tentativi di liberarsi. Dopo di lei, Marty si svegliò, urlando e strepitando come un matto. Il robot che lo teneva in pugno non si curò di farlo smettere: a quanto pareva, gli schiamazzi non lo disturbavano, i rumori non lo confondevano o irritavano. Erano macchine, si disse arrabbiata con se stessa, non provavano emozioni o sensazioni che inibivano le loro azioni o plagiavano i loro comportamenti: ogni cosa intorno a loro era fatta di dati da immagazzinare e rielaborare.
Alla fine Marty si azzittì, per stanchezza o forse perché, a forza di tentare di divincolarsi, si era spezzato qualcosa. Aisha lo sentì piagnucolare e inveire sottovoce. Al suo fianco, Valter si lasciò sfuggire un muggito, ma non si svegliò: probabilmente le sue ferite erano gravi e urgevano una medicazione.
Ma a cosa sarebbe servita? In realtà, ella non comprendeva il perché fossero ancora vivi. Gli androidi non facevano prigionieri, non ne avevano mai fatti. A loro non servivano, poiché non vedevano un vantaggio in una simile mossa. Non comprendevano concetti come riscatto o contrattazione, nelle guerre in cui avevano combattuto per gli uomini, simili espedienti non erano serviti.
“EHI?” sbraitò Marty all’improvviso. “Valter? Aisha? Derek? Ehi?”
“Marty, calmati!” gli rispose stanca.
“Aisha!” La sua voce si rinvigorì di nuova speranza. “Stai bene?”
“Credo di sì.”
“Valter e Derek?”
“Valter è ferito, è svenuto e perde sangue. Non so dov’è Derek” lo informò.
“Che stanno facendo? Cosa vogliono?”
“Io non lo…argh!”
Una scrollata violenta l’aveva sbalzata, il collo aveva subito il contraccolpo e per un attimo il mondo bianco vorticò intorno a lei. Sentì Marty urlare e inveire ancora.
“Marty, sta calmo!”
Un’altra scossa le strappò un verso di tormento. La voce dell’amico si spense, forse era svenuto. I mostri non avevano problemi a tenerli a bada, ma non desideravano che comunicassero tra loro.
Aisha si morse un labbro, accasciandosi come un morto tra le grinfie della macchina, e si lasciò trasportare in silenzio per tutto il tragitto. Il gelo, intorno a lei, la stava facendo intirizzire; le punte dei piedi si inarcavano involontariamente per il freddo, rischiando l’ipotermia, mentre la sua faccia si riempiva velocemente di uno strato sottilissimo di neve fresca.
Aveva quasi ceduto all’intorpidimento quando vide il primo lampo. La nube che li aveva seguiti per tutto il cammino si stava diradando, mostrando loro le saette bluastre dei cieli di Anverra. Il lago ghiacciato doveva essere sotto di loro, sotterrato sotto metri di neve depositata e mai disgelata; le stalagmiti erano enormi e si slanciavano verso il pervinca delle nuvole cariche di nevischio, piegandosi a formare archi spezzati e artigli ricurvi che sentenziavano il loro fato con la loro sempiterna presenza.
Il cuore del regno del Nord si palesò ai suoi occhi in un tripudio di galaverna, che si raccoglieva intorno ai suoi alti palazzi di vetro e metallo, e guazza che si depositava sul terreno, sempre fresca, sempre brillante sotto i raggi artificiali della città degli androidi.
Aisha inarcò la schiena, incredula. La città dei giganti di ferro, una leggenda per spaventare i bambini e dare una parvenza di umanità alle creature degli incubi, esisteva davvero: situata in un’enorme conca, circondata da ghiaccio e neve, sormontata da nuvoli elettrizzati, e rischiarata dalle strabilianti luci che pulsavano al suo interno. Era un diamante che riverberava l’oscurità, il cuore del regno del Nord che rifulgeva della sua glaciale bellezza, incastonata in una landa desolatamente bianca, e deprimente preda di tempesta e bufera.
Gli androidi li stavano conducendo verso di essa, lungo un canalone scavato tra le montagne innevate, cumuli di ghiaccio e dita tormentose che vorticavano intorno a loro, sospinti dai venti boreali. A guardia della città era stato posto un cancello d’acciaio, alto e resistente: fatto da lunghe lance conficcate nel terreno, sparava i suoi artigli verso l’alto. L’arco di zinco curvato reggeva una scritta: Nurthìa.
I giganti di ferro camminarono lungo le loro vie, composte da placche di ghiaccio lavorato finemente a formare basole e piastrelle stradali. Le carreggiate secondarie, per quello che Aisha poteva vedere dalla sua posizione, confluivano tutte in quella che stavano percorrendo loro. La città era asettica, fredda e ordinata; i quartieri erano fatti da abitazioni a pianta quadrata e, per la maggior parte, circolare, tubi di ferro e ossidiana che formavano strani blocchi di varia altezza, come le canne di un organo. Persino la suggestione che creava nel suo animo era affine alla musicalità di quello strumento: profonda, gutturale, antica e inamovibile; una forza indistruttibile di austerità e solenne grandezza.
Il mostro che la trasportava iniziò a tamburellare con i piedi quadrati sui blocchi di ghiaccio azzurrognolo di una ripida scalinata, puntando verso l’alto. Rischiando di farsi venire il torcicollo, Aisha si voltò per ammirare la cupola di vetro, retta da alte colonne rigate e sormontata dalla scultura di ghiaccio di un fuoco freddo, lingue di un blu accecante che sfidavano il cielo nero.
Entrarono tra gli alti battenti. Gli occhi di lei si persero tra i corridoi celesti e gli immensi tetti da cui pendevano letali stalattiti, una grotta in cui la luce saettava tra un cono di ghiaccio a una parete di vetro, e continuava così, creando un gioco caleidoscopico di rifulgente bellezza. Si chiese come così siffatto incanto potesse esser stato creato e costruito da macchine senza coscienza o sentimento.
Salirono ancora, e la mente confusa di Aisha si perse tra i grandi androni e i lunghi corridoi. Infine giunsero sotto l’alta cupola che ella aveva già avuto modo di ammirare dall’esterno: ventotto colonne gelate sostenevano altrettanti archi, che creavano una prima struttura fatta da volte a croce, su cui si reggeva la vera cupola di cristallo. La luce di Nurthìa si abbatteva sulle pareti, creando un alone surreale tutt’intorno a loro.
Aisha venne scaraventata per terra, sbatté la spalla e trattenne a stento un lamento di dolore. Sentì lo schianto di altri corpi buttati sulla lastra di metallo, e vide le gigantesche ombre troneggiare sopra di loro. Si puntellò sulle mani e sollevò la testa, tramortita da afflizione e timore. Ciò che vide le tolse il fiato: uomini e donne, alti più di venti metri, stavano seduti intorno a quella che doveva essere una tavola di metallo, su cui loro erano stati malamente depositati; i loro tratti erano pragmatici, ma le espressioni dei loro volti erano rigidi e inespressivi.
Androidi! Ma perché hanno quest’aspetto? Si allarmò.
Un movimento poco distante da lei la costrinse a staccare gli occhi da quelli esseri. Valter si stava contorcendo dal dolore, il suo corpo era un po’ ammaccato e il braccio sinistro era piegato in un angolo innaturale. Strisciò lentamente verso di lui, cercando di non fare movimenti bruschi che mettessero in agitazione le macchine intelligenti. Gli asciugò il sangue dalla fronte e lo aiutò a girarsi, per mettersi in una posizione più comoda.
“Stai bene?” mimò lui con le labbra, premuroso.
Aisha annuì impercettibilmente.
“Gli altri?”
Facendosi forza, sollevò lo sguardò e lo fece volare sopra la lastra di metallo: Marty la stava fissando, pallido e tremolante, voltato su un fianco e leggermente accoccolato su se stesso; Derek era accasciato poco più in là e non si muoveva. C’erano altri due uomini dell’altro squadrone e un paio di Intellettuali, tra cui…
“No!” boccheggiò in un soffio di terrore.
La mano di Valter la trattenne.
Intanto un ronzio fastidioso aveva iniziato a diffondersi in tutta la stanza, ridondante, come il crepitio di legna bagnata sul fuoco o lo sbattere frenetico delle ali dei calabroni. Alzando un po’ il capo, capì: le macchine, che li avevano condotti lì, stavano comunicando con gli androidi dai volti umani. Aisha li squadrò con ira: erano più bassi degli umanoidi, ma superavano comunque i dodici metri di altezza; le loro fattezze erano solo lontanamente umane, avevano gli arti inferiori e superiori, e questi ultimi erano dotati di dita meccaniche, ma non avevano pelle o vestiti addosso come quelli più alti, solo metallo e cavi che sporgevano in una massa ingarbugliata sotto placche lisce di metallo avvolto intorno ai loro meccanismi.
“Aisha” la distrasse l’amico, “aiutami ad alzarmi. Non intendo morire schiacciato.”
Ella ubbidì, non sapendo cos’altro fare. Lo aiutò a mettersi seduto e, visto che nessuno sembrava volerglielo impedire, strappò un pezzo dei suoi pantaloni per improvvisare un bendaggio intorno al taglio sanguinante. Nel frattempo Marty li aveva raggiunti e si era accasciato vicino al compagno, confabulando in un mormorio terrorizzato. Aisha lanciò uno sguardo verso gli umanoidi e, non riscontrando in loro un qualsiasi tipo di avvertimento o ordine, gattonò verso Kamul, ancora incosciente, e vi appoggiò una mano sul collo. Ne sentì il battito e tirò un sospiro di sollievo. Trattenendo le lacrime lo scosse, costringendolo a ridestarsi.
“Shh” fece per intimarli, mentre vedeva i suoi occhi spalancarsi dal terrore. “Non urlare” bisbigliò, “non agitarti. Ce la fai a muoverti? Riesci a raggiungere gli altri?”
“Mio padre?” chiese immediatamente.
Aisha sollevò gli occhi e poi li riabbassò, ancora sconvolta. “Non lo vedo.”
Aiutò l’amico d’infanzia a mettersi in piedi e, sorreggendolo, si mossero verso gli amici.
“Donna!” tuonò una voce metallica, atona. Proveniva dalla macchina con le fattezze di una donna, ma la sua voce era priva di femminilità o calore umano. Come tutti, era rimasta in silenzio a scrutarla dall’alto, con sguardo indecifrabile. “Cosa fai?”
Non c’era intonazione nelle sue parole, né espressione sul suo viso, e Aisha non capì cosa volesse da lei; così rimase in silenzio. Un grosso dito roseo si mosse verso di loro e la pungolò leggermente; ma la forza della macchina era tale che li fece nuovamente cadere.
“Aisha, attenta!” la misero in guardia i compagni, tirandosi faticosamente in piedi.
Gli uomini degli altri squadroni si stavano svegliando, mugolii e urla di terrore invasero la cupola. Un Intellettuale cercò di scappare, ma una mano gigante lo afferrò senza difficoltà e lo rimise al suo posto. Quello si spaventò a tal punto che le gambe barcollarono, ed egli scivolò nuovamente sul freddo metallo.
“Donna” chiamò ancora la voce, “cosa fai con quell’uomo?”
Aisha rimase interdetta, stesa per terra, con una mano stretta a quella di Kamul. L’amico, però, si puntellò sui gomiti e si tirò su, accigliato.
“Kamul” sussurrò lei, a mo’ d’avvertimento.
“Aspetta” si liberò della sua presa, “credo stia solo chiedendo perché mi aiuti.” Poi lo disse di nuovo, più forte, stavolta verso l’umanoide con il volto di donna e la divisa militare: “Mi sta aiutando.”
“Presta soccorso al ferito!” esclamò un gigante uomo, annuendo con un movimento secco del capo, più per volontà che per impulso.
Pareva che le macchine con i corpi da uomini e donne volessero in qualche modo emulare la razza umana, non solo nell’aspetto ma nei meccanismi comportamentali. Come se avrebbero mai potuto mimetizzarsi tra loro, considerata l’altezza imponente?!
“È preoccupata per me” gridò Kamul per attirare la loro attenzione. “Desidera che io stia bene.”
“Preoccupazione? Desiderio?” intonò la voce della donna, metallica e incolore.
“Necessità! Ambizione!” rispose un altro uomo.
“No!” lo contraddisse lui. “Si preoccupa perché mi vuole bene, non vuole un tornaconto. Nessun vantaggio o conquista!”
Kamul le tese una mano e l’aiutò a tirarsi su. Aisha sentì la sua mano sudare freddo, il collo e la fronte erano madidi di sudore; lo vide deglutire nervosamente, ma tenne il mento alto e il tono della voce sicuro.
“A cosa serve, allora?” domandò uno.
Un’altra umanoide, invece, domandò: “Cosa significa volere bene?”
“Serve a stare bene con se stessi. Un uomo che fa del bene e prova amore verso un altro si sente soddisfatto, felice. Completo” rispose al primo. Poi si voltò verso la donna con i fili di paglia che incorniciavo la fronte con un caschetto, come dei capelli. “Volere bene è un sentimento, un’emozione potente. Si prova verso coloro che abbiamo di più caro, che… sono il nostro tesoro, il nostro premio. Ce ne prendiamo cura, li trattiamo bene. Li amiamo” aggiunse con tono spezzato, la voce che si rompeva sull’ultima parte.
Aisha strinse più forte la presa intorno alla sua mano, e lui ricambiò sollevato. Sospirarono all’unisono, speranzosi neanche loro sapevano in cosa.
Le macchine intorno a loro rimasero in silenzio, ma loro potevano percepire le loro intelligenze artificiali tentare di comprendere quei concetti insoliti, fuori dalla loro portata o lontani dal loro pensiero.
Alla fine quello con le setole bianche ritte sul suo capo allungò una mano e afferrò il giovane uomo. Aisha urlò, e gli altri insieme a lei, mentre la sua mano scorreva via da quella di lui ed ella barcollava nel tentativo di riprenderlo. Ansimò, impaurita.
“I sentimenti!” annunciò. “Sono guerra, morte, vittoria, conquista, dominio, potere.” Gli elencò in una sequenza priva di emozione o enfasi.
Kamul scosse la testa, stringendo i denti. “Queste sono azioni, eventi, non sono emozioni. I sentimenti sono quelli che tutto questo provocano: dolore, perdita, euforia, rabbia, impotenza.”
L’umanoide maschio puntò i suoi occhi vermigli, le cui pupille rosse erano artificiosamente rese lucide dal vetro di cui erano fatte, e l’osservò, studiandolo e rielaborando le sue parole.
“Dolore è urla?” chiese atono.
“No, le urla sono una manifestazione del dolore, ma… non so spiegarlo” tentennò.
La creatura gigante pensò un momento, poi la sua mano si strinse intorno al suo corpo, avvolgendolo tra le dita e schiacciandolo nella sua ferrea presa. Kamul urlò, e anche Aisha, correndo disperata, gridò a squarciagola.
Gli occhi delle macchine si puntarono su di lei.
“Perché urla?” domandò l’uomo che serrava il giovane nel suo arto metallico.
“Perché siamo amici, mi vuole bene” cercò di spiegare tra i denti, sofferente. “Se io provo dolore, anche lei soffre.”
“Davvero?” Strinse ancora.
“Basta!” si sgolò Aisha, con le mani in alto, in segno di supplica.
“C’è altro!” Istintivamente Kamul tentò di liberarsi dalla stretta, alla ricerca di un po’ di sollievo. “C’è altro a parte il dolore!”
“Cosa?”
“Gioia, felicità. Sentimenti forti… umani!”
La stretta del gigante si arrestò; lentamente la sua mano si aprì. Si avvicinò il giovane vicino agli occhi luccicanti e disse, semplicemente: “Mostrami.”
“Mettimi giù e ti faccio vedere” contrattò. E di nuovo, con voce più calma: “Ti faccio vedere una cosa, ma ho bisogno che mi metti giù.”
L’umanoide non sembrò avere problemi di fiducia: nessuno di loro, infatti, aveva possibilità di fuga. Kamul venne depositato ai piedi di Aisha, ed ella si lanciò su di lui, toccandolo e assicurandosi che stesse bene.
“Tranquilla” soffiò lui sul suo viso, stringendo per un attimo le sue mani.
Si tirarono su, e Kamul mise un braccio intorno ai suoi fianchi. Si rivolse ai giganti che li attorniavano, alzando la voce: “Se io la stringo a me, sono protettivo, ed entrambi ci sentiamo al sicuro, sereni… più tranquilli.”
La guardò negli occhi, e Aisha vide quanto disperata era la sua espressione. Aveva paura e aveva bisogno di lei, in quel momento più che mai. Ella serrò la sua mano sulla sua manica, confusa e spaventata.
Kamul prese un profondo respiro, serio e fremente, e la baciò. Aisha s’irrigidì tra le sue braccia, mentre lui, un po’ goffo e rigido, la stringeva convulsamente a sé. La mano di lei stritolò la stoffa della sua giacca, e una lacrima solitaria scivolò sul suo gelido viso dagli occhi spalancati. Prima che potesse aspirare il suo profumo, egli si staccò da lei.
Per la prima volta da quando erano finiti in quella camera, gli umanoidi erano impietriti, Aisha poteva annusare la tensione, fuori e dentro di lei. Il suo cuore aveva iniziato a galoppare all’impazzata, e la sua mente si stava piegando in se stessa, scossa e stanca, umiliata.
“Davvero strano” pronunciò la voce apatica della macchina a capotavola. “Se vi unite, i vostri corpi si riscaldano. Non rischiate il cortocircuito? I vostri ingranaggi non prendono fuoco?”
Aisha abbassò lo sguardo, una sensazione di disagio che cresceva nel suo stomaco e si propagava nel suo petto, fino alla gola. Accanto a lei, sentì la voce di Kamul, per la prima volta irata, inveire contro le macchine: “Siamo umani, non siamo macchine. Siamo fatti di carne, nel nostro corpo scorre sangue e non idrocarburi, abbiamo un cuore che batte. Noi abbiamo bisogno del calore di un altro essere!”
Qualcosa scattò intorno a loro. Aisha poté sentire distintamente le rotelle degli umanoidi prillare febbrilmente, suoni interattivi vibrare all’impazzata nei loro circuiti.
Il gigante uomo di fronte loro si piegò finché i suoi occhi infuocati non furono alla stessa altezza dei loro corpi. Disse, in un’imitazione di un sussurro: “Guarda bene, uomo. Ci avete creato come macchine servili, e vi abbiamo sconfitto da padroni. Adesso abbiamo la stessa faccia.” Drizzò la schiena robotica e guardò i suoi compagni. “Ricordate com’è stato all’inizio. Noi c’eravamo” aggiunse, in direzione dei due ragazzi che stavano indietreggiando verso gli altri, “ero lì quando gli Intellettuali hanno preso il comando. Erano stati incaricati di dare una nuova arma al governo, invece ci hanno tenuto per i loro scopi.”
Aisha sentì il corpo di Kamul avere un sussulto.
“Noi terremo voi, adesso, per i nostri.”
L’umanoide diede il segnale e le mani dei giganti di ferro li afferrarono di nuovo. Mentre li portavano via, Aisha lanciò uno sguardo verso il tavolo, dove il corpo di Derek era abbandonato.
Sentì distintamente l’umanoide donna asserire: “Questo corpo si è spento. Portatelo dai cyborg per essere studiato dall’interno.”
Il cuore di Aisha smise di battere per un lunghissimo istante, sconsolato.
   
 
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